www.unclosed.eu

arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Una forma di lettura dell’archivio dell’esperienza

Elisa Anzellotti

Alla fine del secolo scorso abbiamo assistito ad una crescita esponenziale di attenzione sulla questione della memoria e della conservazione. Mentre l’arte si faceva sempre più effimera in risposta alla caduta dei valori e dei principi cardine che governano la vita dell’uomo, quali religione, morale, ecc. (in altre parole il «crollo degli immutabili» di cui parla il filosofo E. Severino), crescevano gli interrogativi sulla memoria e il lasciare traccia di quanto fatto.
In tutto ciò le nuove tecnologie hanno avuto un ruolo importante in una duplice accezione: in positivo, dando maggiori possibilità di memorizzazione, e in negativo contribuendo alla caduta dei valori dell’arte e creando una dimenticanza per sovrabbondanza di memoria.
Parallelamente si è assistito ad un aumento delle attenzioni sul corpo, soprattutto quello dell’artista. Per quest’ultimo, infatti, il corpo è lo strumento principale dotato di un proprio sapere, dunque luogo della memoria poiché la sensorialità, le esperienze emotive e cognitive sono custodite nei movimenti e nei gesti (1).
In questo contesto si vuole porre l’attenzione sulla danza, arte in merito alla quale sussistono diverse posizioni di studiosi e danzatori che equiparano il corpo all’archivio (2). Con questa affermazione si intende che il corpo possieda una sua memoria, la quale si conserva spesso a nostra stessa insaputa, divenendo così il “contenitore” di tutti quei saperi che occorrono per produrre una determinata azione artistica (danza, canto, musica, teatro, saperi artigiani, ecc.). Il contenuto di questo particolare archivio è pertanto del tutto immateriale e potremmo raggrupparlo sotto l’etichetta della parola “esperienza” (intendendo con ciò quell’immenso patrimonio di movimenti, azioni, emozioni che è possibile raccogliere in una vita) (3).
Questo binomio esperienza/corpo-archivio è alla base di tutte le disquisizioni circa la conservazione dei beni culturali immateriali che tanti punti hanno in comune con le osservazioni nel medesimo campo in materia coreutica, ma anche nelle recenti pratiche artistiche contemporanee. Fra queste ultime ricordiamo la performance, oggi oggetto di interessanti dissertazioni estetiche, nonché di forme di “ripetizione” che vanno sotto il nome di reenactment. Quest’ultimo, inerente alle forme di accesso al corpo archivio dell’esperienza, è l’altro focus del discorso che si vuole affrontare.
Prima di entrare nel vivo della trattazione è bene però chiarire questi punti cardine attorno ai quali ruota la nostra riflessione, ossia il corpo, l’archivio/esperienza e il reenactment. Partiamo da cosa si intende per corpo.
Tanti studiosi, soprattutto nel secolo scorso, si sono interrogati sul corpo, che tuttavia, da sempre, è al centro delle attenzioni filosofiche da cui sono scaturite numerose visioni. Dall’asserzione fatta in apertura di corpo come archivio delle emozioni ed esperienze emerge già una chiave di lettura. Difatti in questo contesto la concezione del corpo che si sposa è quella che lo vede un tutt’uno con la mente. Senza entrare nell’articolato ed estremamente complesso mondo estetico filosofico del corpo e psichè/anima, per il quale sono stati spesi fiumi di inchiostro e l’affrontarlo in questa sede non permetterebbe di arrivare al nocciolo della questione, ci si limita a dichiarare quale teoria si abbraccia, lasciando trasparire alcune suggestioni che queste riflessioni hanno suscitato, come ad esempio il pensare a diverse sedi/ “stanze” della memoria (4). In tutto ciò si ritiene importante e determinante dar spazio al bagaglio di esperienza diretta che si ha in quanto danzatrice. Chi pratica la danza ha la percezione che i muscoli abbiano una propria memoria e che il corpo capisca il passo in un tempo differente dalla mente, come se fosse dotato di un proprio cervello.
Cervello, mente e memoria sono mondi ancora poco conosciuti e ricchi di misteri, perciò non ci sembra poi così assurdo riflettere sulla suggestione riguardante l’esistenza di una sorta di due cervelli, uno nel corpo, da intendere come componente materiale (muscoli, membra ecc..) e uno nella mente. Quando si parla di danza, infatti, si fa riferimento alla memoria corporea con una accezione tale quasi da voler separare la sede del ricordo (appunto una nel cervello e una nel corpo). Talvolta può accadere che si abbia la sensazione che la mente non ricordi, ma il corpo sì. Chi danza spesso si sente ripetere di non preoccuparsi se pensa di non aver compreso il passo perché il corpo lo ha capito e fatto sedimentare; oppure può capitare che un passo che sembra aver dimenticato, muovendosi, magari con l’aiuto della musica, riaffiori…
Il sopravvenire di un ricordo che riemerge dagli abissi della memoria in conseguenza di un’azione o evento qualsiasi (ovvio è l’esempio del sapore della madeleine fatta da Proust), o il processo stesso della sua “archiviazione” in memoria, è un mondo altrettanto articolato e complesso. È infatti esperienza diffusa, ma allo stesso tempo scevra di una spiegazione logica, il “perdere” un ricordo in queste “stanze” e vederlo riattivato a distanza di tempo senza capire il come. Un sapore, un odore o un vivere azioni/situazioni simili possono riattivare “energie” sedimentate (per riprendere le parole del neurologo Richard Semon, che a questo proposito parlava di «engramma»)(5).
Da quanto detto e dalle teorie poc’anzi riportate scaturisce dunque un’idea di corpo che viene plasmato dall’esperienza. Un “corpo vissuto” quindi, nell'accezione di Husserl (6), da vedere come una serie di stratificazioni immateriali nel corpo fisico, che senza questa componente sarebbe un mero involucro. Testimonianza di ciò la si riscontra ancora oggi nella parola corpo che in alcune lingue differisce proprio a seconda che si parli del corpo vissuto e del corpo propriamente detto; per esempio in tedesco c’è la differenza tra Körper e Leib. Il corpo di cui si parla in danza non è un corpo puramente organico (Körper), ma il mio corpo, il corpo vissuto (Leib) (7). Ancor prima in greco c’era differenza tra soma, che ha a lungo significato solo cadavere (8), e il corpo vivo che non era un semplice corpo, ma un essere umano, le sue membra e la sua vita (psikè) assieme.
Dunque da quanto emerso finora, la concezione di corpo che qui si intende adottare è quella che lo considera un tutt’uno con la mente/psikè e come un organismo che si plasma tramite stratificazioni di emozioni, eventi, azioni, che in altri termini possiamo definire esperienze che si vanno ad accumulare con il tempo nel corpo-archivio. Ecco allora come proprio l’esperienza sia centrale in questo discorso. L’esperienza è una fonte fondamentale di evoluzione e di apprendimento, nonostante spesso si scinda dal ricordo di ciò che l’ha prodotta facendone rimanere l’insegnamento (lo stesso modo di apprendimento delle azioni umane più semplici come camminare o parlare derivano da questo).
Un corpo estremamente reattivo e formato dall’esperienza è, come si è detto, quello del danzatore e qui si vuole analizzare il suo corpo archivio in relazione al reenactment, dove il reenactment è da intendere a sua volta come una forma di lettura di questo archivio dell’esperienza.
Prima di procedere con questa analisi è importante riferire brevemente del fenomeno del reenactment il quale vede le sue radici nel pensiero del filosofo Robin George Collingwood (1889–1943).
Reenactment letteralmente è la rimessa in azione di qualcosa ed è una pratica molto in uso nell’arte contemporanea consistente nel riproporre mostre o azioni performative già agite in passato - non necessariamente a opera dello stesso artista che ha concepito l’azione originale - con una specifica strategia di appropriazione che implica una nuova interpretazione e ricontestualizzazione (9). Una sorta di rilettura del passato, come a voler permettere all’opera d’arte/performance di continuare ad esprimersi ed espletare il potenziale inespresso. Il reenactment può essere letto come una forma di nuovo accesso all’opera d’arte da parte dell’artista, una nuova lettura dell’archivio corpo del performer, un accedere al tesoro di esperienza accumulata con il tempo. Riferendosi alla teoria aristotelica della potenza e dell’atto, è come se in ogni opera rimanesse in potenza qualcosa di inespresso e questo rimettere in azione sia un modo per dar sfogo a tale potenzialità. Interessante come uno studioso con una formazione da linguista veda il reenactment come un “campo di differenze”, non pienamente espresso e quindi solo potenziale, da cui può essere estratto più di un significato. In questo modo il reenactment risulterebbe affine agli atti linguistici, considerando che proprio la lingua è uno dei dispositivi della cultura umana basato su sistemi differenziali in grado di costruire il significato (10). Porre un forte accento sulla differenza e considerarla come la base e l’elemento da cui trae la forza il reenactment in realtà non è cosa nuova in questo campo, già Benjamin aveva infatti posto attenzione alla materia (11). Domenico Quaranta in un suo saggio afferma che: «l'idea della ripetizione implicita nel prefisso ‘re’ tende a farci dimenticare che il cuore di ogni reenactment non è nella sua fedeltà al modello originale, ma nelle differenze tra l'originale e il 'remake'" (12). È dunque partendo da questo concetto di campo di differenze e potenziali espressivi che dobbiamo approcciare il fenomeno del reenactment.
 
Tra i primi reenactment vi sono quelli ad opera di artisti come Marina Abramović che ha riproposto vecchie performance, sia sue che di altri artisti. In questo caso l’azione di reenactment doveva essere fedele alla fonte, ma allo stesso tempo un’azione che desse spazio alla reinterpretazione. Difatti la Abramović afferma che le performance possono appartenere a chiunque sia capace di eseguirle, prendendo con questa dichiarazione una precisa posizione circa la reperformance, in base alla quale “la performance può essere ripetuta, interpretata e fatta oggetto di esperienza da diverse generazioni di artisti e di pubblico” (13).
Da qui sono sorti numerosi interrogativi dal momento che la forza della performance era la sua irripetibilità. Effettivamente sussistono diverse correnti di pensiero che sostengono questa unicità, ad esempio Peggy Phelan in Unmarked traccia una vera e propria “ontologia” sulla non riproducibilità della performance affermando che: “La sola vita della performance è nel presente” (14), caratterizzandosi, essenzialmente, come “un'esperienza di valore che non lascia alcuna traccia visibile dopo” (15). Su questa lunghezza d’onda erano molti artisti tra cui, in un primo momento, la stessa Marina Abramović (16), che tuttavia successivamente cambiò idea e rispose a questo assunto sostenendo che: “La performance è essere nel presente” (17); l’artista infatti ricostruisce le azioni artistiche solo sulla base dei documenti e ne riattiva tempo, spazio e presenza corporea.
Un esempio emblematico e molto importante, che in qualche modo ha dettato anche le regole sul reenactment in tema di diritto d’autore, copyright e permessi vari (18), è Seven Easy Pieces, presentato da Marina Abramović nel 2005 al Guggenheim di New York. Si tratta di un personalissimo compendio per exempla della storia della Performance Art; sette “pezzi facili” messi in atto, con ironico riferimento alla biblica creazione del mondo, in sette giorni (19).La Abramović li “rimette in scena” e quindi li riesegue, ma allo stesso tempo li interpreta. Le letture che ne sono scaturite sono numerose ed ogni studioso ha focalizzato un determinato aspetto. Robert Blackson riflette sulla connessione tra arte performativa “dal vivo” e riproduzione (dove tra l’altro la ripetizione può assumere ancora più valore dell’originale) (20); Philip Auslander pone l’accento sulla registrazione (quindi la documentazione tramite i media) e l’evento live e dunque sul modo in cui le nuove tecnologie abbiano rivoluzionato il concetto di archiviazione fornendo una maggiore possibilità di documentazione e memorizzazione (21).
Questo è un esempio tratto dal panorama dell’arte contemporanea, ma se guardiamo alla scena della danza contemporanea riferendoci in particolare agli Stati Uniti, si vede come effettivamente anche per la danza ci sia un continuo guardare indietro, azione quest’ultima che, nella danza così come nell’arte contemporanea, può essere fatta in moltissimi modi: la ricostruzione, l'adattamento, la reinvenzione, la citazione, l'amplificazione. Interessante è capire la differenza tra il reenactment e le varie strategie utilizzate per recuperare le performance passate (come quelle poc’anzi citate), nonché le diverse tipologie di temporalità che queste strategie significano.
Con il reenactment dunque non solo si ricostruisce e imita l’originale storico, ma la ri-creazione coreografica viene utilizzata come mezzo per riflettere su questioni relative alla conservazione, trasmissione e temporalità della danza.
Nella premessa di questo articolo si è accennato al perché dell’attenzione al problema della memoria, a questo potremmo connettere la questione della “nostalgia” del passato e il perché dell’utilizzo del reenactment. Le posizioni degli studiosi in materia sono diverse. Ritengo estremamente interessanti le osservazioni e gli studi in materia di Andre Lepecki. Cito ad esempio il suo contributo al convegno dal titolo eloquente Not as Before, but Again: Reenactments and Transcreation (Performance Studies, New York University), oppure la recente pubblicazione Singularities (22) ricca di spunti e riflessioni molto importanti. Secondo Lepecki, oggi fra gli artisti vi è una specifica volontà coreografica di archiviare, afferma infatti che il reenactment nella danza è “come un segno di sperimentazione che definisce la contemporaneità” per la quale occorre introdurre il concetto di “will to archive”, volontà di archiviazione che, specifica Lepecki, è diversa dall’impulso archivistico di cui parla Foster (il quale sostiene che il reenactment, la performance e l’attenzione per queste pratiche siano tutti figli di questo “impulso archivistico” che contraddistingue la presente epoca caratterizzata dalla malattia della memoria) (23). Per Lepecki non si tratta dunque né di un fallimento della memoria, né di una forma di nostalgia, bensì di vedere nei lavori passati un campo creativo, non ancora esaurito, di “impalpabili probabilità”.
Esistono però altre posizioni, molto eterogenee, in materia di reenactment nella danza e in ognuna si sottolinea un diverso aspetto della connessione di questa azione con la memoria. Diverse teorie vedono il reenactment come una pratica conservativa da cui scaturiscono numerosi interrogativi anche a livello estetico. A tal proposito è lecito richiamare le riflessioni sulla teoria del “restauro del comportamento” che Schechner ha intrapreso alla fine degli anni '70 (teoria che ha raggiunto la sua forma più o meno definitiva nel 1985 quando fu pubblicato Tra Teatro e Antropologia). La tesi di base di “restaurazione del comportamento” è ben nota: il comportamento restaurato è il comportamento vivente trattato come un regista tratta una striscia di film. Queste strisce possono essere riorganizzate, ricostruite; sono indipendenti dai sistemi causali (sociale, psicologico, tecnologico) che hanno portato alla loro esistenza: hanno una propria vita. L'originale “verità” o “motivazione” del comportamento può essere persa, ignorata o contraddetta. Ripristinare il comportamento è il motore che guida tutti i tipi di performances (24).
Rebecca Schnider parla di “Contro memoria” o ri-documentazione con la finalità di evidenziarne il ruolo di ri-attivatore di eventi del passato, capaci di imprimere nuovo slancio allo studio della performance (25). Quest’ultima viene infatti considerata come un modo di portare il passato nel presente e per tale motivo la studiosa la assimila all’archivio (26).
Ramsay Burt precisa che le “attualizzazioni incorporate” di opere del passato, così frequenti sulle scene internazionali dall’inizio del nuovo secolo, sono il segnale di un approccio attivo e non reattivo, generativo e non imitativo da parte dei coreografi contemporanei alla storia della danza (27).
Timmy de Leat considera le strategie di reenactment come costituenti “metamemorie”(28), un concetto coniato in analogia con la nozione di “metaimmagini” che il medico studioso W. J. T. Mitchell ha sviluppato nel suo libro Theory of Picture (1995). Mitchell prende tre esempi: quelli di Vincent Dunoyer, di Martin Nachbar e di Fabián Barba per mostrare come viene affrontata la memoria attraverso diversi punti di vista. Interessante è che in tutti e tre i casi l'uso del reenactment sia fatto accogliendo le recenti opinioni sulla memoria umana che vedono quest’ultima come essenzialmente dispersa tra la mente, il corpo e la cultura materiale. Di conseguenza le strategie di reenactment, che hanno come punto focale il corpo danzante, non solo si basano sulla conoscenza corporea, ma dipendono allo stesso tempo dalle risorse esterne (ossia tutti quei nuovi elementi che possono influenzare la danza), e da quelle interiorizzate (il portato di esperienze del danzatore). Con quest’ultime si intendono anche tutte le emozioni che muovono il danzatore e quello che riesce a trasmettere. Emozioni che, ricordiamo, hanno un forte ruolo nella memoria, poiché la penetrano e si fissano in modo molto più forte di qualsiasi altra esperienza. Emozioni che sono fondamentali anche nel rapporto allievo maestro dove vi è una trasmissione da corpo a corpo, cuore a cuore e dove è ovviamente sottinteso il concetto di ripetizione. Quest’ultimo aspetto è insito nella danza, così come nel teatro e nella musica, poiché ci troviamo di fronte a delle arti che prevedono già di per sé un agire, un eseguire, vale a dire un “ri-fare” qualcosa che si è preparato e/o provato. A tal proposito riporto le riflessioni di Fabrizio Deriu – in riferimento alla performance - dove sottolinea come questo “ri-fare” sia tutt’altro che un “copiare” nel senso di “produrre un identico”. Al contrario, per “l’‘eseguire performativo’ è necessario sviluppare e coltivare una specifica abilità, il cui tratto essenziale è la capacità di condurre l’azione nel margine più o meno stretto, ma densamente ricco di possibilità che si apre tra il ‘preordinato’ (partitura, copione, testo notazionale, ecc.) e il ‘contingente’ inteso come l’occasione concreta e irripetibile di ogni singola esecuzione”(29). Ed è proprio in questi “margini” che risiedono quegli aspetti di unicità e irripetibilità che sembrerebbero invece negati con il reenactment.
Effettivamente il punto di forza delle azioni live è l’irripetibilità e l’unicità dell’evento è nell’azione (unicità e irripetibilità ricordiamo sono generalmente gli elementi fondamentali affinché un’opera d’arte possa considerarsi tale). Quindi il “rimettere in azione” è ciò che dona vita e sopravvivenza genuina ad una performance e proprio l’attimo dell’incontro tra passato e ripetizione creerebbe un momento effimero irripetibile che darebbe la sua unicità. Sussiste un hic et nunc dell’espletazione/messa in azione, nonché degli elementi di novità come il nuovo vissuto e il nuovo pubblico che permettono al reenactment di avere quel qualcosa di unico, pur stando nella ripetizione. Secondo Hal Foster il guardare al passato è un ritornare al futuro e nella ripetizione sopravvive comunque un principio di invenzione. Si viene a creare infatti una sorta di corto circuito corporeo tra evento passato e presente, a sua volta passibile di potenziali infinite ricostruzioni che si ispirano fortemente al modello di partenza.
Oltre a considerare il reenactment come un modo di espletazione delle possibilità espressive di una performance, altre letture e riflessioni possono nascere, soprattutto per ciò che riguarda propriamente la memoria. Il reenactment si configura in tal senso come il modo migliore per avere memoria della performance, per non negarne la sua vitalità che verrebbe meno con una qualsiasi forma di memorizzazione “cristallizzante” (si fisserebbe un attimo specifico). Il rischio di congelamento/cristallizzazione è il nodo centrale che è alla base dei problemi conservativi dei così detti beni immateriali.
Notiamo dunque lo scaturire di diverse posizioni: c’è chi vede nella ripetizione una nuova presenza e chi invece una forma di conservazione (30), come ad esempio Louis van den Hengel che in Archives of Affect: Performance, Reenactment, and the Becoming of Memory e in Materializing Memory in Art and Popular Culture (a cura di Laszlo Muntean, Liedeke Plate e Anneke Smelik) parla di una nuova etica del conservare.
In estrema sintesi, alla luce di tutto ciò emerge che tra le varie declinazioni del reenactment ci sono: reenactment come rilettura del passato e nuova espletazione, reenactment come forma di memoria e conservazione, reenactment come nuova opera che crea nuove temporalità.
A mio parere il reenactment è da considerarsi, proprio partendo dal concetto di archivio, come un accesso a un documento che ogni volta che viene riletto può fornire qualcosa di nuovo e diverso, e non darsi meramente come pratica conservativa. Una forma di accesso all’archivio dell’esperienza dunque, dove però l’archivio è da considerare nei suoi aspetti più particolari. Esso infatti, da un lato risulta essere il luogo deputato a preservare il passato e dall’altro non è esente dalle trasformazioni generate proprio da chi vi entra in contatto. In altre parole è l’interpretazione stessa dell’archivio, ed è proprio l’esperienza che ne fa lo studioso, ad alterarlo ogni volta (31).
In questa prospettiva, ritengo dunque che si possa pensare il reenactment come il frutto di una delle declinazioni che può subire l’archivio, una sorta di sua mutazione.
D’altronde oggi i luoghi stanno subendo forti ibridazioni e come è tipico dell’arte contemporanea che gioca sugli sconfinamenti, non si dovrebbe più ragionare a compartimenti stagni, ma sarebbe opportuno pensare ad una serie di vasi comunicanti, con continuo “scambio di liquidi” fino a che non si giunge ad un equilibrio, il quale tuttavia è sempre molto precario. Nel caso della danza effettivamente il danzatore è artefice costante di reenactment e l’archivio più importante è il suo corpo e il suo sapere. Quindi il reenactment deve essere considerato come un frutto dell’archivio, qualunque sia il significato che si voglia dare a questa parola. Come dall’archivio “classico”, fatto di documenti, possono nascere altri documenti, così dall’archivio corpo, possono nascere reenactment o altre evoluzioni dell’azione/danza.
Tanti altri interessanti interrogativi possono scaturire dalla relazione reenactment archivio, ad esempio: “Che ruolo ha l’archivio - da intendersi nel senso più ampio possibile del termine (quindi sia il corpo come archivio, che gli archivi video ecc.) nei confronti del reenactment?”, o ancora: “Perché si ricorre a queste ripetizioni?”.
Nel catalogo della rassegna del 1974 Barilli scriveva: “[…] mano a mano che davanti a noi si assottigliano le risorse di novità (tecnica, formale, d’immagine) da sfruttare, si irrobustiscono i depositi del ‘già fatto’, ‘già visto’, ‘già dipinto’, e questo per effetto stesso dei progressi tecnologici che pure sembrerebbero i migliori garanti della possibilità di trovare il nuovo […] ha in realtà dato vita alla più vasta impresa di memorizzazione del passato che si sia mai avuta […]”(32).
Tutto ciò è frutto dei nostri tempi dove il negare la conservazione e allo stesso tempo il diffondersi di queste pratiche performative non sono altro che dei modi per sottolineare l’effimerità e la transitorietà, caratteristiche tipiche dell’attualità, accentuate in modo crescente dagli effetti della società globalizzata. In questa epoca infatti tutto va così veloce da sconvolgere la stessa concezione del tempo lineare che si è abituati ad avere, per cui il presente viene travolto da questa corsa al futuro, e il passato che nel frattempo si accumula, viene a sua volta sommerso da una moltitudine di eventi che portano all’insabbiamento della memoria.
Il reenactment ci comunica proprio il cambiamento della memoria storica. Il passato si rinnova nel presente. Forse andiamo così veloci che non ci diamo neanche il tempo di capire cosa ci circonda. È necessario allora rileggere gli eventi e tutto ciò che passa davanti ai nostri occhi, tornarci sopra e ogni volta si creerà qualcosa di nuovo. Dopo l’epoca della riproducibilità tecnica, siamo in quella della riproducibilità dell’azione. Con questa affermazione, che esplicitamente fa riferimento all’opera di Benjamin, vorrei sottolineare come oggi ciò che ha bisogno di riproduzione e cerca di essere riprodotto in ogni modo è l’azione umana e si hanno i mezzi per sostituire l’uomo anche in questo atto, nell’agire e soprattutto nel pensare. Diversi studiosi vedono non a caso nel reenactment una delle ultime conseguenze della tematica dell'“opera aperta” – sviluppatasi soprattutto negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso - della svalorizzazione di un “originale”, del carattere relazionale dell’evento artistico e della consapevolezza della responsabilità sociale ed etica di ogni azione artistica. Però il reenactment non è tanto l’espressione di uno sperimentalismo neo-avanguardistico, è piuttosto l’espressione di una crisi della storia e di una tensione del cittadino comune a farne parte in modo più completo. Oggi sempre più si ha la necessità di essere protagonisti, non solamente passivi spettatori, e se si è spettatori è perché si deve avere un ruolo comunque centrale, un ruolo attivo. La studiosa berlinese Jennifer Allen dice che nel reenactment il pubblico – elemento essenziale affinché possa sussistere una performance - diviene un testimone, ai cui occhi “l’evento originale diventa storico assumendo una dimensione temporale, e afferma il suo statuto di storia apparendo come un evento discreto, con una durata finita. In altre parole, è il reenactment che fa dell’evento un’origine, dandogli una definizione e un’identità che esso poteva anche non aver avuto”(33). In questa aspirazione del reenactment a trasformare un passato caotico, una continuità informe, in un’esperienza discreta e definita, che solo con la ripetizione e la rilettura acquista un senso possibile, la storia non ha però un carattere normativo e chiuso: essa appare al contrario, come già in Benjamin, un campo di possibilità, in cui non solo il futuro, ma anche il passato è costantemente riscritto.
Dunque la riflessione su questo argomento ci permette di vedere come i concetti di tempo, memoria e conservazione siano estremamente complessi e intrecciati e come il corpo abbia un ruolo fondamentale, fornendo variabili tali da mettere in discussione molti assunti su questi principi.
Volendo concludere con un’immagine suggestiva, ma allo stesso tempo evocativa dei concetti cardine alla base del reenactment, direi che potremmo pensare allo scoccare di una freccia dove si deve andare indietro, per spingersi in avanti.
Aprile 2018

1)Il sapere tacito del corpo e la memoria corporea sono state riconosciute a pieno titolo delle forme culturali e come tali connotate da una loro specificità storica, si veda a tal proposito il lavoro di Marcel Mauss e i riferimenti dei suoi studi alla danza; cfr. I. Baxmann, “The Body as Archive. On the Difficult Relationship between Movement and History”, in S. Gehm, P. Husemann, K. von Wilcke (a cura di), Knowledge in Motion: Perspectives of Artistic and Scientific Research in Dance, Bielefeld, transcript Verlag, 2009, pp. 127-135.
2) Si vedano a tal proposito: S. Franco – M. Nordera (a cura di), Ricordanze. Memoria in movimento e coreografie della storia, Torino, UTET Università, 2010; ma anche: Inge Baxmann che, partendo dagli studi sui rapporti tra storia e memoria, in particolare di Pierre Nora, considera i corpi alla stregua di luoghi della memoria e i corpi in movimento come forme di archiviazione; Joseph Roach che ha esteso il concetto di archivio ai corpi in movimento da lui definiti come “riserve mnestiche” e come tali trasportabili e traducibili nel transito da un corpo all’altro e da un’epoca all’altra; S. Franco, “Archivi per la danza tra ricerca storica e pratica coreografica. I casi di Martha Graham e Rudolf Laban Storie di incorporazioni e incorporazioni della storia”, in AAR, Anno IV, numero 8 – Novembre 2014, p. 188. Fra i danzatori ricordo i coniugi francesi Dominque e Françoise Dupuy che, tra le tante cose, si battono affinchè i danzatori scrivano di più per evitare che quell’immenso patrimonio in loro custodito vada perduto.
3) Si veda su questo argomento l’articolo: E. Anzellotti, “Esperienze di archivi-archivi dell’esperienza”, in www.unclosed eu , Numero 17, anno V, del 20/01/2018.
4) Palese è il riferimento a studi passati come quelli di F. A. Yates, L’arte della memoria, Torino, Einaudi, 1972.
5) Richard Semon (1848-1918), agli inizi del Novecento, coniò il termine “engramma” per definire quelle energie sedimentate nel corpo tramite l’esperienza e capace di riattivarsi a distanza di tempo, a contatto con nuovi vissuti, R. W. Semon, Die Mneme als erhaltendes Prinzip im Wechsel des organischen Geschehens, Leipzig, Engelmann, 1911; s.v. “Engramma”, in Dizionario di medicina, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2010.
6) Edmund Husserl introduce la distinzione tra corpo oggetto e corpo vissuto, poi ripresa anche da Merleau Ponty nella Fenomenologia della percezione, Milano, Il Saggiatore, 19803.
7) M. Merleau Ponty, Fenomenologia, op. cit.; cfr. anche A. Pontremoli, La danza, storia, teoria, estetica del Novecento, Roma-Bari, Laterza, 2004, p. 40; V. Melchiorre, “La corporeità come simbolo”, in Id., Corpo e persona, Genova, Marietti, 1991.
8) B. Snell, Die Entwicklung des Geistes, Klassen Verlag, Hamburg, 1946; trad. It. La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Torino, Einaudi, 1963.
9) Cfr. E. Viola, s. v. “Performance”, in Enciclopedia Italiana, Treccani - IX Appendice (2015) http://www.treccani.it/enciclopedia/performance_%28Enciclopedia-Italiana%29/; sulla questione che andremo ad approfondire di corpo archivio reenactment si veda anche: E. Viola, “The body as an archive. Performance vs re-enactment and re-performance”, in E. Viola (a cura di), Karol Radziszewski. The prince and queens. The body as an archive, Toruń, Centre of contemporary art, 2014-15, pp. 26-37; E. Viola, “Performance e Re-performance: il caso Marina Abramović”, in H. Egger, A. Triccoli (a cura di), Web performance today. Representation, reproduction, repetition, Cinisello Balsamo 2014, pp. 29-31; L. Meloni, Arte guarda arte. Pratiche della citazione nell’arte contemporanea, Milano 2013.
10) A. Caronia, “Never Twice in the Same River.Representation, History and Language in Contemporary Re-enactment”, in A. Caronia, J. Jansa, D. Quaranta (a cura di), Re:akt! Reconstruction, re-enactment, re-reporting, Brescia, link ed., 2014, pp.5-16: p.14
11) W. Benjamin, “The Task of the Translator”, in Bullock M. - Jennings M. W. (a cura di), Walter Benjamin: Selected Writings. Volume 1, 1913–1926, Cambridge, MA: Belknapp Press of Harvard University Press, 1996; Lepecki cita Benjamin proprio a tal proposito, A. Lepecki, Singularities: Dance in the Age of Performance, Londra, Routledge, 2016, p. 255.
12) D. Quaranta, “RE:akt! Things that Happen Twice”, in A. Caronia, J. Jansa, D. Quaranta (a cura di), Re:akt!, op. cit., pp. 53-63.
13) M. Abramović, “La biografia delle biografie”, in The Biography of Biographies, Charta, Milano 2004, p.14.
14) P. Phelan, “The Ontology of Performance: Representation without Reproduction”, in Unmarked: The Politics of Performance, Londra, Routledge, 1996, pp. 146-152.
15) Ivi, p.149.
16) Marina Abramović al tempo del manifesto dell’Art vital sosteneva che: “Nessuna prova, nessuna ripetizione, nessuna fine predeterminata, niente ripetizioni” (The artist is present, 2010, p. 90). In seguito, come Kaprow, l’artista ha corretto il tiro: “le prime performance nei primi anni Settanta non erano nemmeno documentate perché la maggior parte di noi credeva che tutta la documentazione – video o foto – non potesse essere un sostituto dell’esperienza reale [...]. Più tardi il nostro atteggiamento è cambiato. Abbiamo sentito il bisogno di lasciare qualche traccia degli eventi a un pubblico più vasto” (7 easy pieces, 2007, pp. 9-11)
17) M. Abramović, Marina Abramović. The Artist Is Present, The Museum of Modern Art, New York, 2010, p.152.
18) Marina Abramović´. 7 Easy Pieces, exhibition catalogue, Milano, Charta, 2007, p. 11.
19) E. Viola, “The performance is present”, in D. Sileo, E. Viola (a cura di), M. Abramović. The Abramović method, 1° vol., Milano, Italian works, 2012, pp. 34-51; J. Santone, “Marina Abramović’s Seven easy pieces. Critical documentation strategies for preserving art’s history”, in Leonardo, 2008, 41, 2, pp. 147-152.
20) R. Blackson, “Once More… With Feeling: Reenactment in Contemporary Art and Culture”, in Art Jounal, vol. 6, Spring, 2007, pp. 28-40: 30. Secondo lo studioso il fatto che un’azione del passato ripetuta potesse avere maggiore risonanza dell’azione stessa, spiegherebbe perché alcuni artisti abbiano colto l’opportunità di utilizzare il reenactment per ripercorrere attraverso la loro interpretazione artistica il lavoro storico di altri artisti (Blackson 2007, p. 39).
21) Cfr. E. Diraddo, “A proposito della ripetizione della Ripetizione differente: il reenactment delle mostre”, in Ricerche di S/Confine, vol. VI, n. 1 (2015) - www.ricerchedisconfine.info; Il rapporto nuove tecnologie performance apre numerosi altri discorsi e interrogativi. Basti pensare al fatto stesso che il video o foto di una performance può assurgere, oltre che a forma di documentazione, a opera d’arte, oppure al fatto che proprio grazie ai video è possibile riproporre vecchie performance. Philip Auslander propone due categorie distinte per documentare la performance: “il documentario” e “il teatrale”. La prima è basata sul modo tradizionale di concepire il rapporto tra p. e registrazione e presuppone una visione documentaria. La seconda si riferisce a p. “messe in scena solo per essere fotografate o filmate e che non hanno avuto un’esistenza significativa come eventi autonomi presentati al pubblico”. In questo caso, “Lo spazio del documento (sia esso visivo o audiovisivo) è il solo spazio in cui si manifesta la performance” (“The performativity of performance documentation”, in PAJ. A journal of performance and art, 84, 2006, p. 2).
22) A. Lepecki, Singularities: Dance in the Age of Performance, Londra, Routledge, 2016.
23) H. Foster, An Archival Impulse Author(s), October, Vol. 110 (Autumn, 2004), The MIT Press, pp. 3-22.
24) R. Schechner, “The conservative avant- gard”, in New Literary History, 2010, 41, pp. 895–913: 906-907. Interessante come per Schechner performance significhi: “mai per la prima volta, ma per la seconda fino all’ennesima volta”, R. Schechner, “Restoration of Behaviour”, in Studies in Visual Communication, 1997, n. 7, 3 (trad. it. V. Valentini (a cura di), Sul recupero di comportamenti passati, in ID., La teoria della performance 1970-1983, Roma, Bulzoni, 1984, p. 214); una versione successiva, contenente brani inediti e modifiche è in R. Schechner, Between Theater and Anthropology, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 1985, pp. 213-301).
25) R. Schneider, “Archives Performance Remains”, in Performance Research, n. 2, 2001, p. 106.
26) R. Schneider, Performing remains, op. cit.
27) Si veda in proposito: R. Burt, “Memory, Repetition and Critical Intervention. The Politics of Historical References”, in Recent European Dance Performances, “Performance Research”, n. 2, 2003, pp. 34-41: p.34.
28) T. De Leat, “Dance metamemories”, in Performance Research, Volume 17, 2012, pp.102-108.
29) Interessante e ricchissimo di spunti in materia è l’articolo: F. Deriu, “Arti performative e performatività delle arti come concetti ‘intrinsecamente controversi’, in Mantichora, 1, 2011, pp.178-192: p.190.
30) Secondo alcuni studiosi, ad esempio Hans Gumbrecht, il Re-enactment nasce come una pratica di conservazione delle performance del passato, ma in una prospettiva di una possibile “(ri )produzione di presenza”, che a sua volta potenzia una propria pratica performativa, cfr. H. U. Gumbrecht, The production of presence: What Meaning Cannot Convey, Stanford, Stanford University Press, 2004.
31) Cfr. S. Franco, Archivi per la danza tra ricerca, op. cit., p.183.
32) R. Barilli, “Difficoltà nella ricerca del nuovo”, in La ripetizione differente, catalogo della mostra tenuta a Milano dal 9 ottobre 1974, Studio Marconi, Milano, 1974, pp. 1-6: p.1.
33) J. Allen, “Einmal ist keinmal”, in A. Caronia, J. Jansa, D. Quaranta (a cura di), Re:akt!, op. cit., pp. 23-33.