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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Definizioni dell’art autre in alcuni capitoli della critica del dopoguerra

Beatrice Luzi
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“Eppure soltanto se ci affidiamo all’ekphrasis mantenendo distinti i territori dei due panorami – psicofisiologici oltre che estetici – potremo “vivere tranquilli” circa la più o meno raggiunta assimilazione tra parola e immagine, tra le immagini e la loro scrittura.
Gillo Dorfles (1)

Il termine informale è un’espressione vaga e incerta che si disperde nei discorsi artistici e critici del dopoguerra europeo includendo al suo interno le definizioni più disparate. Da questa riflessione è sorto uno studio volto a contestualizzare e circoscrivere un “paradigma linguistico” di riferimento attraverso il confronto delle fonti italiane e internazionali, con una particolare attenzione ai cataloghi e alla rassegna stampa delle Quadriennali romane tra il 1948 e il 1960 (2). L’ondata informale del dopoguerra, a ragione considerata “globale”, ha manifestato tante inflessioni quante sono le definizioni cui ha dato vita, le quali, nate come resoconti di cronaca culturale, hanno consegnato alla storia tutta la complessità espressiva ed esistenziale di questa tendenza. Volendo stabilire una genealogia lessicale in tal senso, occorre chiedersi innanzitutto in quale terreno essa affondi le proprie radici per poi individuare affinità, idiosincrasie e ricorrenze.
Negli anni Quaranta, a Parigi, nel pieno imperversare dell’astrattismo post cubista dei cosiddetti Jeunes peintres de tradition française, Fautrier e Dubuffet per primi esprimono, nelle opere e negli scritti programmatici, l’esigenza di emancipazione dai linguaggi ormai stanchi desunti dalle avanguardie d’inizio secolo. Il pittore e critico Michel Tapié, fra i fautori della definizione informel e instancabile esegeta di una coralità artistica transnazionale, considera i Jeunes peintres come romantici e fauve alla moda (3), mentre celebra le ricerche di Fautrier, Dubuffet, Michaux e Mathieu per l’aspetto dichiaratamente squallido, primordiale e istintuale (4) della loro pittura.  Nei suoi molti interventi, il critico coglie un’urgenza semantica comune (5) che nel corso del tempo coinvolgerà un sempre maggior numero di artisti, dall’Europa all’America, ponendoli sotto l’egida di un’art autre rispetto alle nozioni pittoriche tradizionali, sospese tra accademismo e modernismo (6). Gli scritti teorici d’oltralpe traboccano di asserzioni perentorie e visionarie dal tono enfatico mentre in Italia, con qualche eccezione, prevale la tipologia più sintetica del manifesto, accanto all’attitudine analitica di critici eminenti e militanti.
Nel 1944 Enrico Prampolini pubblica quel testo premonitore che è Arte polimaterica (verso un’arte collettiva?), approdo teorico delle ricerche di oltre un ventennio. Ciò che colpisce è la formulazione ante litteram di termini e concetti indispensabili per definire l’informale nelle sue molte varianti. L’artista scrive di “materia” nella propria immanenza biologica e trascendenza formale, di elemento materia o elemento estraneo al colore (intendendo come la pigmentazione sia secondaria rispetto alla materia stessa), di espressione artistica rudimentale (7). È immediato il riferimento a Tapié e Dubuffet mentre invocano l’assenza di intellettualismo davanti a un atto puro di emanazione diretta primordiale e sensoriale (8) o quando fanno appello al ritmo interiore dell’opera (9).   Naturalmente, la poetica di Prampolini è ben lungi dall’urlo dell’informale (10): nel suo teorizzare un rinnovato dialogo con la materia, l’artista assume un tono programmatico e interdisciplinare, mirando a una Gesamtkunstwerk socialmente impegnata. Tuttavia, come nota Luciano Caramel, la hyle originaria di cui parla Prampolini, priva di qualunque identificazione morfologica, è in fin dei conti un aspetto distintivo dell’informale rispetto all’astrattismo (11).
Nel 1946, il critico e scrittore americano Robert Coates riprende l’espressione abstract expressionism, coniata da Alfred Barr a proposito di Kandinsky, e la rivolge alla pittura della scuola di New York (12). Questa formula, soprattutto sul finire degli anni Cinquanta, conoscerà un discreto successo anche in Italia, proprio per la presenza di termini familiari che suggeriscono sia la componente espressionistica, unanimemente condivisa dalla critica, sia quella astratta, che vorrebbe circoscrivere un’area di interesse in realtà più problematica. Si ha l’impressione, tuttavia, che la formula di Barr definisca con maggiore incisività una pittura distante dall’humus europeo e che non riesca a esprimere pienamente l’istanza di cesura con la tradizione modernista che attraversa il vecchio continente.
Negli stessi anni in cui si tengono le personali di Fautrier, Dubuffet e Wols, la nostra produzione artistica, eccezion fatta per lo spazialismo di Fontana, versa anch’essa in un attardato modernismo che guarda ai Jeunes peintres (13), divenuti fonte di ispirazione per chi –come il Fronte Nuovo delle Arti e Forma I- vuole recuperare l’astrazione in un contesto in cui “l’eredità picassiana appariva addirittura, anche per implicazioni ideologiche, sinonimo di modernità”(14). In questo senso, l’espressione che meglio fa da ponte tra la tradizione dei Jeunes peintres e l’informale italiano è, probabilmente, quella di Abstraction lyrique, estrapolata dal titolo del testo di Jean-José Marchand sull’invito alla mostra parigina “L’imaginaire”, curata da Georges Mathieu alla Galerie du Luxembourg.
Per quanto tale formula non compaia in Italia prima del 1960, l'attenzione alla componente lirica è ben presente negli scritti di quegli anni. Sebbene la produzione più tardi inserita nell’alveo dell’informale traesse ispirazione da un attardato cubo-futurismo, Lionello Venturi coglie sin dall’immediato dopoguerra, negli Stati Uniti come in Europa, i germi di un linguaggio pittorico comune basato su forme astratte o pseudo astratte (15). Di qui, la felice definizione di astratto-concreto (16) per differenziare questo rinnovato sentire artistico, dotato di una “realtà sensoriale” e di un “plusvalore di significante psichico” (17), rispetto a un picassismo di maniera ancora vincolato alla figurazione. Teoricamente, anche per Tapié nulla è più concreto dell’astratto (18) ma con un’attitudine all’anti-grazioso che poco ha a che vedere con l’irrinunciabile controllo compositivo e cromatico proprio dell’informale italiano.   In questi anni, Venturi parla del piacere di una materia preziosa, di accordo lirico di colore, di coerenza di visione e di coerenza formale (19). Negli scritti francesi leggiamo di armonia di colori e accordo di linee e volumi solo nelle parole di Francis Ponge a proposito degli Otages di Fautrier (20).
Un aspetto non secondario dell’informale è, poi, il suo non essere necessariamente astratto (21) e di lasciare sempre aperto il dialogo con la nozione figurativa, anche quando professa un’astrazione “pura”. Piuttosto, si predilige il concetto di non figurativo, il quale nega la possibilità di una rappresentazione coerente della realtà ma, al contempo, ne trattiene una traccia. Tra gli irriducibili vi è il gruppo Origine che, appropriandosi per primo della materia extra artistica (incursione non figurativa della realtà nell’opera), auspica una sintassi del mezzo d’espressione in chiave “originaria”, privata di sovrastrutture (22), espressioni, queste, concettualmente vicine agli scritti francesi, baluardo della tabula rasa e dell’a-figuratività (23).
Il carattere più evidente di quanto si legge nei cataloghi delle Biennali e delle Quadriennali, nonché nelle vivaci recensioni giornalistiche, è la capacità di coniare espressioni sempre diverse per tentare di definire un’arte che desta smarrimento. Nello specifico delle rassegne nazionali, le avventure lessicali della critica s’intrecciano alle numerose polemiche di natura ideologica che contraddistinguono quegli anni. Prima fra tutte, l’eterna querelle tra realisti e astrattisti (24). Fino ai tardi anni Cinquanta, negli scritti di artisti e critici italiani non s’incontrano espressioni quali informel, tachisme (25) o abstraction lyrique, neppure in versione italianizzata (26). Sia perché l’esperienza francese e quella italiana hanno tempi e modi diversi, sia perché la nostra critica tende a elaborare in modo sostanzialmente autonomo il proprio linguaggio ecfrastico, mostrandosi riluttante ad accoglierlo dall’esterno (27). In una prima fase, ci si àncora alle definizioni delle correnti storiche, che soccorrono gli scriventi nel tentativo di orientarsi all’interno di rassegne davvero affollate. S’incontrano, per lo più, formule quali: ai margini fra astrattismo e fauvismo (28); neoromantici, semiastrattisti (29); pseudo astrattisti (30); neofuturismo; neoastrattismo di maniera (31); cubismo allusivo (32); neofauvismo e neosurrealismo (33).  Progressivamente, descrizioni come: impulsi al disordine, assenza di metodo, moto centrifugo e individualità della visione (34) registrano alcune novità sostanziali via via maturate dagli artisti. Nel giro di pochi anni, il repertorio lessicale si arricchisce sempre più delle rispettive specificità stilistiche e va definendosi quell’ampio capitolo del nostro informale che non disdegna le proprie radici culturali ma tenta di superarle in una nuova sintesi delle certezze moderniste. È qui che si legge di pura espressività del colore, fluire emotivo, motivi grafici, spazio armonioso, ritmo di forme, ornamentalità, accensioni liriche, modulazioni cromatiche preziose, macchie tonali, incanto visivo. Verso la fine degli anni Cinquanta, in alcuni autori riaffiora una componente naturalistica che rende arduo qualsiasi tentativo di definizione privo di riferimenti al passato e se Ponente, Barilli e Arcangeli si appellano a un impressionismo astratto (35), Tapié preferisce parlare di espressionismo umanistico (36).
L’aggettivo informel è adottato prevalentemente con un atteggiamento di dissenso, intendendo una moda importata e un gusto mercantile, fino a scadere in mero formalismo. Comprensibilmente, la critica ufficiale è meno insofferente di quanto si legga nelle recensioni. In molti casi, il termine “informale” è adottato per praticità, per farsi intendere da tutti. Art autre, binomio apprezzato dagli artisti, è invece poco utilizzato dai critici ma mantiene un’inflessione fondamentalmente positiva che ben interpreta quell’urgenza di superamento dell’arte del passato. Quanto alle espressioni coniate nel nostro paese, l’astratto-concreto di Venturi è senz’altro emblematico di certo informale italiano (soprattutto romano) ma negli anni va perdendo di specificità fino ad essere assimilato al più generico astrattismo informale. Dal ’57 in poi, l’ultimo naturalismo di Arcangeli definisce un ulteriore aspetto dell’informale italiano e inaugura quel riaccostamento alla visione che troveremo assai presente nell’VIII Quadriennale di Roma del 1959.
Il dibattito che accompagna questa parabola artistica è ricco e animato e molte, moltissime sono le descrizioni e i tentativi di catturare con le parole i movimenti viscerali delle opere o il loro impalpabile lirismo. È qui che troviamo la scrittura arcana, i coaguli materici, il colore prezioso, il segno, il gesto, l’azione, vocaboli ampiamente utilizzati da critici e artisti della generazione successiva. L’analisi delle opere è il luogo prediletto delle piroette linguistiche più accidentate e rivela una ricchezza di voci e accenti che, nel bene e nel male, sono lo specchio più veritiero dell’informale.
20 luglio 2020
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1) G. Dorfles, L’arte del dipingere a parole, articolo uscito su “Corriere della Sera” del 25/06/2019, p. 31.
2) Lo studio, sviluppato da chi scrive, è in fase di pubblicazione per Aracne Editore con il titolo L’informale alle Quadriennali romane del dopoguerra. Un’indagine sul linguaggio della critica. Prefazione di Assunta Porciani. Il presente contributo intende introdurre alle questioni storico critiche sviluppate nel volume in uscita, con un approfondimento delle sue premesse storico-critiche e metodologiche.
3) G. Mathieu, F. Picabia, C. Byren, M. Tapié, H.W.P.S.M.T.M., 1948; M. Tapié, Veemenze confrontate, 1951 in E. Crispolti, L’informale. Storia e poetica, vol. IV, Ed. Beniamino Carocci, Assisi-Roma 1971, pp. 127-131.
4) L. Parrot, Jean Dubuffet, 1944 in E. Crispolti, cit., pp. 15-17.
5) E. Crispolti, cit., vol. I, pp. 21-22.
6) M. Tapié, Un’arte altra, 1952 in E. Crispolti, cit., vol. IV, p. 162.
7) E. Prampolini, Arte polimaterica (verso un’arte collettiva?), Edizioni del Secolo, Roma 1944.
8) M. Tapié, Un’arte altra, 1952, in E. Crispolti, cit., vol. IV, pp. 151-168.
9) R. Pasini, L’Informale. Stati Uniti, Europa, Italia, Clueb, Bologna 1992, p. 20.
10) L. Caramel (a cura di), Prampolini e Burri e la materia attiva, catalogo della mostra, Ed. Fonte d’Abisso, Milano 1990, p. 12.
11) L. Caramel (a cura di), ibid.
12) R. Pasini, cit, p. 40.
13) Si pensi alla mostra Pittura francese d’oggi, allestita nel 1946 alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna. Come scrive Caramel: “Quegli artisti […] -si pensi a un Bazaine a un Estève, un Le Moal, un Manessier- danno anzi la prima spinta alla liberazione dalle convenzioni che anche su quelli che saranno i protagonisti di Forma avevano pesato nella iniziale attività. Ci si emancipa, tra l’altro, da un qualsiasi condizionamento di Novecento, che continua ad essere attivo […] persino in un pittore come Morlotti.” L. Caramel (a cura di), Arte in Italia 1945-1960, Ed. Vita e Pensiero, Milano 1994, pp. 66-67.
14) L. Caramel, Segno, gesto, materia. Protagonisti dell’Informale europeo, catalogo della mostra presso la Galleria Arte 92, Electa, Milano 1990, p. 9.
15) Venturi nota che le forme astratte o pseudo astratte sono praticate da numerosi giovani in Francia come in Belgio, in Italia come in Inghilterra. In America sono legione. […] Si tratta anche in Italia di accordarsi su un linguaggio comune, in cui ciascuna personalità metta il suo accento individuale. Costruire un linguaggio pittorico comune, ecco il problema essenziale del gusto odierno. L. Venturi, Linguaggio attuale della pittura, 1947 in P. Barocchi (a cura di) “Storia moderna dell’arte italiana”, Einaudi, Torino 1992, vol. III, t. 2, p. 34.
16) L. Venturi, Otto pittori italiani, 1952 in L. Caramel (a cura di), cit., pp. 167-168. Il gruppo degli Otto annovera: Afro Basaldella, Renato Birolli, Antonio Corpora, Mattia Moreni, Ennio Morlotti, Giuseppe Santomaso, Giulio Turcato, Emilio Vedova.
17) P. Sega Serra Zanetti, Arte astratta e informale in Italia, 1946-1963, Clueb, Bologna 1995, p. 116.
18) T. Tapié, “Veemenze confrontate”, catalogo della mostra, Galerie du Luxembourg, Parigi 1951.
19) L. Venturi, Otto pittori italiani, 1952 in L. Caramel (a cura di), cit. pp. 167-168.
20) F. Ponge, Note sugli “Ostaggi”, 1945 in E. Crispolti, cit. vol. IV, pp. 18-29.
21) Come non lo sono Fautrier e Dubuffet, che vuole giocare sui tasti dell’evocatività e delle allusioni (J. Dubuffet, Note per fini letterari, 1946, in E. Crispolti, cit.) e come non lo saranno, tra gli altri, gli ultimi naturalisti di area lombarda (dal titolo dell’articolo di Francesco Arcangeli Gli ultimi naturalisti, pubblicato su “Paragone”, n. 59, 1954).
22) Cfr. M. Ballocco, Origine 1950; M. Ballocco, A.Burri, G. Capogrossi, E. Colla, Origine, testo programmatico del gruppo, 1951. Cfr. anche M. Ballocco, Il principio negativo dell’arte per l’arte, 1951 in L. Caramel (a cura di) Arte in Italia… cit., pp. 163-166.
23) M. Tapié, Un’arte altra, 1951, cit. Cfr. anche L. Parrot, Jean Dubuffet 1944, ibid., pp. 15-17; G. Mathieu, L’arte di dipingere 1949, ibid., pp. 115-116. Per Mathieu, più che di art brut, si tratta di un astrattismo stricto sensu che si distacca da quella che lui definisce conclusione logica del positivismo razionalista. Parla, piuttosto di un risorgere dell’arte astratta […] di ordine soprarazionale.  
24) Si fa riferimento al celebre articolo polemico a firma di Roderigo di Castiglia (Palmiro Togliatti), Prima mostra nazionale d’arte contemporanea, uscito su “Rinascita” a. v. n. 10, ottobre 1948.
25) Da Flavio Fergonzi apprendiamo che, tra i rari casi italiani di uso del lemma 
tachisme vi sono: R. Barilli, XXVIII Biennale di Venezia, “Il Verri”, I, 1, autunno 1965, p. 146; G. Dorfles, Teoria e pratica della Decima Triennale, “Civiltà delle macchine”, II, 5, settembre 1954, p. 47; É. Jaguer, Come vi furono un tempo dei poeti maledetti, “Il Gesto”, 2, s. d. [ma 1957], p.n.n.; E. Prampolini, 40 pittori e scultori non oggettivi, “I 4 soli”, I, 6, novembre 1954, p. 15; M. Radice, Risposte all’inchiesta in Sauvage 1957, p. 330. F. Fergonzi (a cura di), Lessicalità visiva dell’italiano. La critica dell’arte contemporanea, 1945-1960, Scuola Normale Superiore di Pisa 1996.
26) Scrive Enrico Crispolti nel 1971: “Da diversi anni “informel” è prevalso nell’accezione critica più generica presso la critica francese maggiormente divulgativa, mentre è suonato sempre più sfavorevolmente negli ambienti più interessati (dalle reiterate proteste di Jaguer alle riserve dello stesso Mathieu, in De l’Abstrait au Possible, 1959). In Italia, accanto all’”autre”, […] è venuto affermandosi criticamente, nelle polemiche e discussioni per l’impostazione della nuova poetica, senz’altro “informale”, particolarmente comune del ’57-’58.” E. Crispolti (a cura di), cit., vol. I, p. 49.
27) Flavio Fergonzi segnala come in Italia fioriscano quelle che diventeranno le parole-chiave della critica d’arte contemporanea della fine del sesto decennio in Italia: gesto, azione, operazione, comportamento, evento, intervento. Queste parole, che si infittiscono nella prosa di autori come Crispolti o Tadini, segnano un discrimine generazionale molto netto.” F. Fergonzi (a cura di), cit, vol. 1, p. XXVII.
28) In riferimento ad Afro, Consagra e Turcato. Silvio Marini, Itinerari dei contemporanei, “Il Giornale della Sera”, 31 marzo 1948.
29) A proposito di Santomaso. Leonardo Borgese, L’astrattismo imperante sulle pareti della Quadriennale, “Corriere della Sera”, 4 aprile 1948.
30) L’autore si riferisce a Corrado Cagli. Virgilio Guzzi, Dal caos al cosmo nella Quadriennale romana, “Il Tempo di Milano”, 13 maggio 1948.
31) C. E. Oppo, Sotto le elezioni s’è aperta la Quadriennale, “Il Sud”, 18 aprile 1948.
32) Albino Galvano, La Quadriennale delle Arti figurative, “Il Progresso d’Italia”, 1948.
33) Vice, Invito alla Quadriennale, “Il Popolo”, 8 aprile 1948.
34) G. Marchiori, Emilio Vedova in “XXVI Biennale di Venezia” Catalogo, Alfieri, Venezia 1952, pp. 147-148. Cfr. anche G. Testori, Ennio Morlotti, ibid., pp. 118-119; U. Apollonio, Afro, ibid., pp. 149-150.
35) N. Ponente, Antonio Corpora, ibid., pp. 142–144; R. Barilli, XXVIII Biennale di Venezia, “Il Verri”, I, 1, autunno 1956, p. 146; F. Arcangeli, “De Gregorio, Marignoli, Orsini, Raspi, Toscano”, Galleria del Fiore, Firenze, 23 marzo 1957.
(36) M. Tapié, Mattia Moreni, “XXVIII Biennale di Venezia”CatalogoAlfieri, Venezia 1956, pp. 215-216. Cfr. G. Di San Lazzaro, Giuseppe Capogrossi, in “VIII Quadriennale d’Arte Nazionale di Roma”, Catalogo, De Luca Roma, 1955, pp. 126-127.