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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Il lavoro Estremo Occidentale nelle parole dell'artista stesso

Serafino Amato


Provare a fare sempre una fotografia differente e riuscire a duplicarsi sempre con poche variabili, qualcosa che si pone a metà strada fra ossessione e destino.
Passare attraverso una tecnologia impone ripensamenti sulla padronanza dello strumento e sulla sua efficacia o efficienza. Personalmente non sono mai stato ossessionato dalla tecnica ma ho considerazione per il mezzo e rispetto per il progettista che ha disegnato strumenti con una loro “anima” che permettono modifiche infinite, nella combinazione, meccanico/fisico/chimica. Lo ammetto: un elogio del modello analogico.
Modelli lontani dalla “configurazione” tecnologica a cui siamo abituati nel “menù” del digitale dove l’elemento meccanico rotante o flottante è ridotto al minimo, ad eccezione dell’ottica, che non può fare a meno di grimaldelli meccanici, espressione che perfettamente spiega l’azione del compiere un atto al fine di modificare la forma dell’oggetto.
Serrature, quindi, dedite alla comprensione, le macchine meccaniche.
Ormai, nel contemporaneo tecnologico, unicamente le componenti estetiche si differenziano, tutto il resto, l’apparato, è prodotto da un unico soggetto, così, una immagine è registrata in modo indifferenziato se non fosse che per poche variabili selezionabili.
Questa introduzione, così poco tecnica ma direi appassionata, per dire che Visioni Estremo Occidentale, poi rinominato Estremo Occidentale, è un lavoro che ho realizzato in fase di ripresa con una macchina meccanica Zeiss, dal nome simbolico “Tenax” che utilizza negativi 35 mm e impressiona foto nel formato quadrato. E’ stata prodotta fra il 1941 e il 1949 ma preferisco pensare che la mia sia stata fabbricata dopo la seconda guerra mondiale… e se le lenti avessero memoria?
L’ho comprata in un periodo in cui, in preda a un certo fare compulsivo, acquistavo ad aste on line, macchine di tutti i tipi per “salvarle" dai cassetti dei nipoti inconsapevoli, così dicevo, mentendo.
La tecnica con cui ho realizzato VEO è quindi anziana, mentre la scansione e la stampa sono il prodotto di tecniche digitali avanzate, senza le quali, difficilmente sarei riuscito a definirle.
Il fotogramma, è “invaso” dai dentini di trascinamento della pellicola e il fotogramma quindi, in fase di stampa, è stato mantenuto per intero, e nell’immagine compare la sagoma del bordo del fotogramma.
Nessuno degli scatti della serie è stato invertito, e quindi, l’errore meccanico ha prodotto serie di fotografie immodificabili sul piano della sequenza.
L’azione tecnica, del mantenere la sequenza intatta è stata assecondata da un mio incedere lateralmente, passo dopo passo, spostando l’asse della ripresa scorrendo alla mia destra, proprio come stessi scrivendo su una riga, espandendo il campo, fotografia dopo fotografia. Delle immagini panoramiche, in definitiva, dove però, il mio movimento, e la disposizione nello spazio rispetto al soggetto, assume un rilievo determinante.
Ho riflettuto sul perché, dall’incedere, elemento fisico predominate del mio lavoro per tanti anni, abbia cominciato a scartare di lato, a spostarmi lateralmente rispetto al soggetto. Quando si cammina per via diretta, si supera, si determina, si decide, e quello che appare una volta superato al più si fa ricordo, se va bene. La volontà è una spinta, si sale, si percorre, qualcuno arriva fino in cima. Quando decidi di non passare oltre scegli l’ostacolo, lo guardi e decidi di fermarti, forse solo per riflettere, per capire i confini di quello che ti è di fronte ma che è invariabilmente dentro di te, perché è a quel luogo in quel momento che appartieni e non ne verrai fuori fino a quando non lo avrai esplorato, circoscritto, può darsi anche ammirato. Ti ferma e tu cosa altro puoi fare se non spostarti alla ricerca di una fessura o un margine slabbrato?
E’ commovente l’inconsapevolezza di chi staziona. Ci sono immagini di ogni tempo che toccano il profondo per quanto è spaesante, in definitiva sempre uguale, il muovere degli attori, di chi fa qualche passo avanti e poi si ferma e guarda in basso o in alto o da qualsiasi parte fuori dalla fotografia. Questi protagonisti sembrano sempre a un passo dall’ultimo secondo ma sono li, invece, statuari o fugaci come un ricordo originario. Fotografare è come raccogliere conchiglie sulla sabbia, dopo che le hai spolverate, difficilmente le riporrai di nuovo nella sabbia, il più delle volte le metterai in tasca e li staranno fino a quando, a stagione ritornata, la tua mano non sentirà qualcosa di ignoto che diventerà familiare solo a te mentre la tieni fra le mani, e questo potrà accadere molto lontano da dove la conchiglia era stata raccolta. E ci saranno ancora, sopra, forse uno o due granelli di sabbia dorata.
In questo momento il sapore della mia vita è come quella di chi appena sceso da un treno che ha viaggiato veloce aspetta alla stazione qualcuno che lo verrà a prendere e nell’attesa si domanda se l’appuntamento sia davvero a quell’ora, se il punto concordato sia proprio quello, per finire, nell’attesa, a domandarsi addirittura se la stazione sia quella giusta.
Nel tempo atteso si fanno tanti pensieri sbagliati, eppure, rimanendo forzati nello stesso posto, si può osservare quello che ti capita davanti, e si sta a guardare, fino quasi a dimenticare che ci si era dati un appuntamento, proprio a quell’ora, e forse proprio fuori da quella stazione.
Smarrimento, qualcuno lo chiama, non hai niente da dire, non hai più mete da raggiungere, solo, guardi e talvolta gioisci del mistero che offre la ripetizione.
Visioni estremo occidentale è per me un lavoro finale, un lavoro che raccoglie e semplifica, un’estensione amorosa che passa per il novecento, secolo scellerato e meraviglioso.

aprile 2017