Un lavoro di condivisione che abita e costruisce i luoghi attraversati.

Patrizia Mania  in dialogo con Claudia Losi

I modi.
Seguire il modo di lavorare della natura, assecondarne la vita sembrerebbe essere il tuo modus operandi. Fin dall’inizio il tuo lavoro ha avuto come sestante quello di prendere spunto dall’osservazione di alcuni processi naturali, biologici, di accrescimento, generazione e rigenerazione trasposti in un “fare” spesso attinente ai saperi artigianali come il cucire e il ricamare. Le Tavole vegetali dal 1995 introducono nel rifacimento di licheni, delle loro immagini prima fotografate e poi restituite con strati sovrapposti di ricamo. Proprio la scelta di replicare le dinamiche di crescita e di espansione che connotano il paesaggio naturale e che ti proponi di riprodurre con altri mezzi sollecitando dinamiche sociali di condivisione mi sembra un aspetto imprescindibile del tuo lavoro. A partire dalla fotografia che ne rappresenta la prima annotazione…
Ho iniziato a riprodurre licheni, tramite un ricamo inventato, che ben poco aveva delle tecniche precise della tradizione. Ancora studente ho cominciato a riflettere, insieme a due compagni di viaggio (Matteo Meschiari e Francesco Benozzo), su come tradurre visivamente alcune nostre considerazioni sul rapporto uomo-terra tanto da co-fondare nel 1995-96 e portare avanti per circa 4 anni lo Studio Italiano di Geopoetica, legato all'esperienza pluridisciplinare che lo scrittore scozzese Kenneth White  aveva inaugurato anni prima con l'Istitut International de Géopoétique.
E’ in questa occasione che ho deciso di usare ago e filo per riprodurre la struttura di alcuni licheni, “pegno di un luogo”, come diceva Camillo Sbarbaro. Prima fotografati e poi riprodotti con una non-tecnica mimetica, il ricamo, ricalcando idealmente le dinamiche e i tempi di crescita e morte di queste forme vegetali di simbiosi mutualistica. Consultavo guide scientifiche per la loro identificazione, o per capire su che terreno loro crescevano e io camminavo. Mi muovevo, come ora, tra carotaggi di terreni e ghiacci reali e perforazioni metaforiche di luoghi immaginari.
È  il dinamismo il punto. Riprendendo le parole di Matteo Meschiari: “Nel paesaggio è ritmico il modo di accadere, non il suo mostrarsi. Movimento e tempo si incontrano e producono figure ritmiche, e noi percepiamo le tracce di movimento di queste figure. Tracce di movimento, o macchie di movimento, o «macchie di crescita».” (...) “il soggetto logico è «crescita», cioè un movimento complesso e relazionato, mentre le «macchie» sono il limite di visibilità di questa crescita complessa, sono il residuo in superficie di dinamiche profonde”. [Matteo Meschiari, Macchie di crescita, in Études de lettres, 2013]
I licheni, certi licheni crostosi, per esempio come il Rizocarpo Geografico, diventarono in quegli anni un paradigma visivo su cui “annodare” questa riflessione. Tesserla. Ripercorrerla. Imitarla.
Che in qualche modo si può applicare ad altri miei lavori, di costruzione di comunità temporanee. Macchie mobili di relazioni più o meno brevi, più o meno intense. Verrebbe da dire il quotidiano vivere.
I tempi. Le trasformazioni lente che incorrono nel paesaggio naturale sono dunque la fonte primaria che captata dal tuo sguardo si offrono ad una riflessione su quel che di loro può essere di guida per una conoscenza che si compone di livelli plurimi: imitarne i percorsi, scoprirne e riprodurne le accidentalità e proporne una possibile rappresentazione. In questo addentrarsi c’è la misura del paesaggio e specularmente quella di chi la ripropone con altri mezzi. Una sorta di imitazione a tutto tondo che non si limita a riconfigurare un’immagine ma ne ripercorre le fasi costitutive dilatando il proprio tempo di realizzazione alle necessità operative richieste, sia le proprie che quelle demandate ad altri.
Quale motivo spinge noi “Homo Sapiens” a rappresentare i pattern con cui decifriamo, anche e soprattutto linguisticamente, il mondo in cui e con cui viviamo? Le risposte che stiamo raccogliendo sono sempre più interessanti e aperte per formulare altre domande. Come ha scritto recentemente Ugo Morelli: “ Il paesaggio è dentro di noi e intorno a noi; è il frutto delle nostre proiezioni e lo introiettiamo divenendo quello che siamo nella nostra continua individuazione. Inizia nelle nostre connessioni sinaptiche, laddove prende forma la nostra mente incarnata, situata ed estesa, e giunge fino a dove la nostra immaginazione ci conduce”. (U. Morelli, Carlo Rovelli, “Le cose non sono, accadono”, Doppiozero, giugno 2017)
Apprendere imitando. Ricalcare i tempi in cui siamo immersi e partecipi, attraverso un gesto, della mano sul tessuto, del passo sul terreno. Forse ha qualcosa a che fare con la danza, generatrice di spazio, tempo e relazione. Ci dovrei riflettere su.
I luoghi. La sinergia con i luoghi mi pare un punto nevralgico a partire dalla relazione di immedesimazione che tu stessa istituisci. Penso a Etna Project del 2001 anticipato da un soggiorno di un mese nella primavera del 2000 sulle pendici dell’Etna. Come a voler entrare nel paesaggio, scoprirne e conoscerne gli anfratti più reconditi, stabilendo un tessuto di connessioni con il suo presente morfologico, biologico, climatico e culturale. Nei tuoi appunti sull’Etna riferisci di come l’esperienza di attraversare quel paesaggio sia fondamentale “Quando cammini il rumore della lava sotto i tuoi piedi è quella di miriadi di frammenti vetrosi che si spezzano”, e anche di una memoria storica quale quella di Pitea da Marsiglia che nel IV secolo a.C. parla in proposito di “mare coagulato”. A memorizzare l’esperienza del paesaggio etneo sono le foto delle colate laviche, delle mappe quasi documentarie che divengono la base della sollecitazione per il rifacimento che poi affiderai a gruppi di ricamatrici. Non del luogo etneo, però, ma di un altrove, che è l’altrove sopraggiunto, quello dei migranti con cui entri in contatto in un altro luogo ancora, a Piacenza dove risiedi. Qui l'amicizia con una donna peruviana e una donna marocchina fanno scattare l’idea di dislocare la realizzazione del lavoro in quei lontani paesi di loro provenienza…
Un luogo si può cercare di conoscerlo in tanti modi. Se non è il proprio luogo madre, lo si leggerà sovrapponendolo strutturalmente ed emotivamente all'esperienza che ha formato la  prima lettura del mondo di ognuno. “Come la lingua madre, il paesaggio è originario (…) Il paesaggio, infatti, è come la lingua madre: non decidiamo di apprenderla né possiamo non apprenderla; non possiamo decidere intenzionalmente di non capirla; non possiamo dire di non appartenervi; non possiamo dire che non la conosciamo; non possiamo conoscere altre lingue se non a partire da quella che ci ha reso animali di parola”.(Morelli).
Nello specifico del progetto che citi, ho scelto un luogo, le pendici dell’Etna come un terzo luogo: importante per me, in quel periodo, avendoci speso qualche tempo, provandomi a usarlo come una sorta di laboratorio immaginifico e geologico, di amicizie e relazioni con chi vi aveva formato la sua lingua madre, tra quelle sciare.
Ma era un terzo luogo anche per le persone coinvolte donne e uomini che, coinvolti da queste amiche, mi hanno spedito qualcosa di sé, per costruire un'altro luogo ancora. Dove lava e identità si mischiavano in un racconto unitario.
Come corpo nel paesaggio.
Ti posizioni e guardi. Il tuo corpo si posiziona e guarda. Il punto da cui osservare, il sistema dal quale lanciare lo sguardo mutano di continuo. Noi cambiamo. Il nostro corpo cambia e si muove. In quanti modi puoi scegliere di descrivere un’esperienza vissuta? L’infinito possibile, una vertigine di possibili. Ognuno poi sceglie una pista. Percorre quella, devia da quella. Ogni essere vivente porta alla vita un sistema osservativo unico.
La condivisione autoriale. Sempre per Etna Project, prima ancora di far eseguire il ricamo delle immagini delle colate da te fotografate, chiedi alle ricamatrici di presentarti un’immagine, una fotografia, un disegno della “cosa che meglio ti rappresenta”. Chiedi cioè di fornire un’identità, che la loro manodopera non resti dunque sconosciuta ma che si possa avvicinare anche per altra via che non sia solo la “mano” del ricamo. Del resto, è tua prassi riportare nelle didascalie dei tuoi lavori l’elenco dei nomi delle co-autrici, di coloro che con le loro conoscenze e abilità hanno consentito al progetto - del quale resti ovviamente l’ideatrice e la regista- di prendere corpo. L’identità liberamente declinata delle diverse autrici segna indiscutibilmente una loro compartecipazione attiva e talvolta affettiva al definirsi del risultato finale che contempla processualmente il definirsi di questo campo di relazione sociale dislocata.
Mi ha sempre interessato cercare di restituire anche solo nominandola  la presenza delle voci che hanno reso possibile il prendere corpo del progetto. Potrei continuare con questo parallelo con la danza. Il corpo di ballo. Diventare un coreografo-regista d'esperienze altrui, di storie da riattivare in una nuova scrittura.
Una relazione sociale dislocata, come dici, che precipita poi in una mia riscrittura degli elementi. Come raccogliere esperienze per raccontare nuove storie.
La cura. L’attenzione ai luoghi, alla loro identità, alle stratificazioni delle memorie culturali sottese e simmetricamente a quelle di quanti concorrono alla realizzazione è la costante dei tuoi progetti. Le relazioni non programmabili che si vengono di volta in volta a creare come è avvenuto anche per  altri lavori come Places/Appennini del 2003 o Places/ Bidassero/Ittiri/Sardegna del 2004 e soprattutto Balena Project del 2004-ongoing  -concepito quest’ultimo come un lavoro in progress- ci dicono anche dell’intento di creare situazioni partecipate sia dagli esecutori del lavoro che dalle comunità con cui interferiscono. Quasi come a voler includere nei racconti delineati ulteriori e altri immaginari.
Cura è un termine che mi è molto caro.
Avere cura, portare cura.  Fare attenzione. Considerare, da cum-sidera (intorno alle stelle), guardare da fuori per una visione ampia e poi andare al dettaglio, cercando di individuare i movimenti, le dinamiche con cui i vari elementi interagiscono.
Così progetti come Balena Project, in particolare, si espandono, si complicano, se arenano poi ritornano in rotta. E devi avere cura che continui, non si sperda. Che la fiducia, l'ascolto che tante persone hanno prestato, il loro aiuto alla costruzione della tua piccola ossessione mobile, vedano riconosciuta la loro attiva partecipazione.
Ho trascorso anni immaginando come si potesse chiudere questo “ur-progetto” al quale ho dedicato parte della mia vita, molta energia e coinvolto un numero imprecisato di persone, in varie parti del mondo.
Mi sono chiesta come questa macroforma balena abbia potuto innescare una tale quantità di eventi, connessioni, amicizie e nuove traiettorie e soprattutto come potere raccontare e quindi chiudere tutto questo.
Non è infatti la sola forma-balena in tessuto ad avere agito da induttore immaginifico, ma la sua ombra, la sua dimensione narrativa che nell'immaginario comune occupa porzioni di mondi diversi, si riempie e accumula, come riserve di grasso, tante storie possibili e straordinarie.
Concludo con una parafrasi di un concetto espresso dall’antropologo scozzese, Tim Ingold (che mi capita di rileggere  spesso) il quale ha lavorato molto sulle tematiche del cammino, del lavoro manuale, della tessitura, del luogo:“L’imprescindibile desiderio umano di fare senso” /The fated human desire for sensemaking
non possiamo farne a meno.

Luglio 2017