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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Lucilla Meloni in dialogo con Enrico Castelli Gattinara

Nel suo ultimo libro La forza dei dettagli (Mimesis 2017)(1), Enrico Castelli Gattinara propone una riflessione sul dettaglio, inteso come concetto: come luogo che apre, sempre, nuovi orizzonti interpretativi. Distinto dal frammento, che indica in sé un’assenza, il dettaglio, che invece si presenta inserito all’interno di un contesto definito, rappresenta “una delle possibilità del pensiero”, proprio per la capacità di portarci fuori dal suo ambito. “Il mondo stesso è pieno di dettagli (...). Possiamo ignorarli, possiamo trascurarli, possiamo persino cancellarli; ma non possiamo far sì che non ci siano, ossia che in ogni cosa non sia possibile distinguerli, e in questa distinzione aprirsi al loro ‘andare oltre’ che è ad un tempo un entrare e un uscire, uno star dentro stando fuori e un eccedere incedendo”, scrive l’autore. Una scrittura sapiente e limpida attraversa i punti di vista di pensatori che, partiti da ambiti d’indagine differenti, hanno individuato nel dettaglio un’inedita complessità; autori all’origine del pensiero contemporaneo dal punto di vista dell’estetica, della epistemologia, della filosofia, della storia e della filosofia della scienza. Attraverso gli scritti di Warburg, di Benjamin, di Kracauer, di Bachelard e di Deleuze si snoda l’indagine sul concetto di dettaglio, declinato come particolare iconografico in grado di collegare ciò che è lontano nel tempo e nello spazio, come segno da cui emerge l’altra faccia della storia, come senso che si annida negli spazi interstiziali e come fattore di deterritorializzazione, come microanalisi della scienza e della storia. Se l’osservazione del dettaglio appare come uno dei tratti peculiari della modernità, la fotografia e il cinema, per le loro caratteristiche tecniche, formalizzeranno all’interno delle arti visive un’inedita immagine della realtà, capace di svelare, attraverso nuovi punti di vista, la complessità che la compone. Abbiamo incontrato l’autore.
Lucilla Meloni. Innanzitutto ti vorrei chiedere quali sono le ragioni che nel corso del Novecento hanno reso il dettaglio, fino a allora considerato un elemento marginale, un concetto filosofico.
Enrico Castelli Gattinara. La filosofia ha da sempre prestato attenzione ai dettagli, solo che in forme e modi sempre differenti. Penso al clinamen di Lucrezio, oppure alla cura estrema del dettaglio nell’Etica di Spinoza. Penso alle “piccole percezioni” di Leibniz, che sono veramente l’essenza di una ipotetica filosofia del dettaglio, oppure, risalendo molto indietro nel tempo, alle lunghe catene diairetiche di Platone. Solo che nel Novecento la questione ha assunto un nuovo, ulteriore aspetto che mi è parso importante evidenziare. L’enorme sviluppo tecnico e industriale che ha coinvolto il mondo occidentale a partire dalla seconda metà del XVIII secolo, ma che è trionfalmente esploso nel XIX, per poi rimbalzare nel XX ed espandersi in tutto il mondo, ha imposto una duplicità nei confronti dei dettagli su cui è inevitabile ragionare: da una parte il dettaglio viene inteso come estrema accuratezza del lavoro, reso possibile da un controllo tecnico portato al parossismo (basti pensare alle incredibili potenzialità di controllo robotico, o a quelle fornite dagli apparecchi digitali di uso quotidiano), dall’altra parte invece la standardizzazione tecnologica e la produzione di massa ha portato alla scomparsa delle differenze di dettaglio in nome di una globalizzante uniformità sempre più generalizzata. Questo ha riportato in luce la tradizionale opposizione assiologica nei confronti del dettaglio (cioè la sua ossimorica valorizzazione): per un verso la cura del dettaglio viene intesa come indice positivo di competenza e capacità, per l’altro verso il dettaglio assume un valore negativo, come trascurabile aspetto di un problema più grande (da cui il giudizio sprezzante: “E’ solo una questione di dettaglio”). Nel Novecento alcuni studiosi provenienti da discipline diverse, comunque capaci di profonde riflessioni filosofiche, hanno posto una terza possibilità, che si è come incuneata fra questi due giudizi opposti: hanno inteso il dettaglio come elemento dirompente rispetto al contesto generale in cui appare (o viene creato) proprio grazie alla sua essenza “minoritaria” di dettaglio. Hanno cioè posto il dettaglio come elemento scardinante l’apparente e tracotante sicurezza unitaria e unificante dell’insieme: esso è sfuggito così al giudizio negativo, che lo relegava come aspetto trascurabile di un reale più importante, ma anche al giudizio positivo che lo riconosceva come il segno della qualità superiore dell’insieme al quale apparteneva. Aby Warburg, Walter Benjamin, Siegfrid Kracauer, Gaston Bachelard, Gilles Deleuze così come alcuni storici che sono stati alla base della cosiddetta microstoria mi hanno colpito in maniera particolare perché hanno saputo valorizzare i dettagli “in quanto dettagli”, senza trascurarli, ma anche senza riportarli completamente al loro insieme di appartenenza. E’ su questo che ho cercato di costruire il mio libro, cercando di tracciarne una sorta di percorso alla luce non solo del pensiero filosofico, ma anche – e per certi autori come Warburg e Kracauer soprattutto – alla luce di pratiche artistiche in cui la presenza tecnologica era in quei primi decenni del Novecento particolarmente importante.
L.M. Nella letteratura, nell’arte visiva e con la nascita della psicoanalisi il Novecento ha fatto del dettaglio un concetto fondamentale che ha aperto la strada a un nuovo modo di interpretare e rappresentare la realtà. Nella scomposizione formale operata dal cubismo questo diventa l’elemento centrale per ricomporre la totalità dell’immagine, nei quadri di De Chirico esso è, come scrive Jean Cocteau, quasi un “indizio”, così come, diversamente, accadrà nella pittura surrealista. Se nella pittura il dettaglio è stato sempre importante, ma prima di allora spesso era trattato come elemento iconologico (ad esempio un frutto avvizzito o un fiore appassito nel tema delle Vanitas), dalle avanguardie in poi, nell’epoca della fotografia, del cinema e del montaggio, tutto cambia.... Quanto ha influito la nascita del cinema e ancor prima della fotografia, su quella nuova sensibilità?
E.C.G. Moltissimo, ovviamente. Perché il cambiamento, come ho detto prima, è dovuto all’irrompere della tecnologia nel campo operativo dell’arte, dove non contava più solo la mano, il cuore, la sensibilità e il talento dell’artista. Il secolo della svolta è senza dubbio l’Ottocento, ma non solo per la nascita della fotografia e del cinema. Pensiamo all’architettura, e alle straordinarie possibilità che le nuove tecniche ingegneristiche garantite dai nuovi modi di lavorazione del ferro e dell’acciaio hanno aperto. L’architettura si è potuta finalmente liberare in un certo senso della gravità, ha potuto puntare all’altezza, ma anche alle curve, alle torsioni e all’interrelazione degli spazi a prescindere dai vincoli imposti dalla pietra e dai materiali leganti. Il punto di svolta è stato proprio questa grande libertà che viene quasi improvvisamente aperta dalla tecnica (nel corso di pochi decenni): una libertà che permette di sviluppare l’attenzione in direzioni nuove, prima inimmaginabili. Nell’arte succede un po’ quello che era accaduto nel XVII secolo con le invenzioni del telescopio e del microscopio: si aprono mondi che prima erano completamente sconosciuti, ma si aprono anche grazie a certi dettagli che permettono di esulare dall’insieme in cui venivano convenzionalmente considerati. Quando la fotografia diventa rappresentazione, e non solo più ripresentazione (ossia quel particolare fenomeno quasi da baraccone che riproduce fedelmente una realtà esterna, soprattutto nella ritrattistica), usa la tecnica per esaltare certi aspetti del reale che prima non venivano considerati (che venivano giudicati solo questioni di dettaglio, cui non occorreva prestare attenzione). Il rapporto con la realtà stessa cambia profondamente proprio grazie alla possibilità tecnica di riprodurla “fedelmente”: questa fedeltà diventa l’elemento scardinante della sua unità, perché ne apre tutte le inquietudini che i fotografi non esitano a cogliere. Roland Barthes lo ha scritto con grande chiarezza, quando ha spiegato che nella fotografia un dettaglio trascurabile può diventare invece l’elemento che rende proprio quella foto indimenticabile, facendo della fotografia “la scienza impossibile dell’essere unico” (uno dei cui maestri è stato Nadar). Mentre un dipinto può “alterare” la realtà, la fotografia la mostra nella sua alterazione e nella sua intrinseca differenziazione: è un’operazione del tutto differente, che rende fotografia e pittura due arti assolutamente non sovrapponibili. La realtà, nella foto, grazie al gioco tecnico della riproduzione (e poi della riproducibilità, su cui Benjamin ha giustamente insistito), mostra un nuovo aspetto e si apre alla possibilità di un altro sguardo. I suoi dettagli aprono mondi che si pensavano ormai talmente conosciuti da essere trascurati, e che invece fanno vibrare il reale di dimensioni molteplici e irriducibili. Con la fotografia, e poi con il cinema, è proprio la tecnologia a permetterci di rifare i conti con la realtà e la sua verità, che fino ad allora sembravano cose pacificamente acquisite. La fedeltà alla realtà diventa inquietante, perché ormai irriconoscibile. Con l’illusione del movimento, e poi con la tecnica del montaggio, il cinema apre e sconvolge il rapporto binario e uniforme fra realtà e verità proprio grazie alla potenza del dettaglio, del primo piano, dell’ingrandimento composto in sequenze impossibili per il nostro occhio naturale. Non è un abbandono della realtà, quindi, ma un suo incremento e un suo spostamento differenziante. Deleuze parlava in questo senso di “deterritorializzazione”. Ed è per questo che ho voluto accostare (warburghianamente) queste due pratiche non solo alla filosofia, ma anche all’epistemologia e alla riflessione sulla conoscenza scientifica. C’è un nesso – che a molti non piace, soprattutto a livello accademico dove i lavori alle frontiere delle discipline non sono molto apprezzati – che lega questi sguardi nuovi sulla realtà alle nuove scoperte e alle nuove teorie scientifiche, e alle nuove verità che ne sono seguite. L’epistemologo francese Gaston Bachelard ne è stato un importante teorico, ed ha saputo riconoscere nei dettagli proprio l’elemento dirompente rispetto a una scienza staticamente ferma nelle sue certezze.
L.M. Nel libro citi il Giardino delle Delizie di Bosch come un esempio in cui il dettaglio eccede ciò che lo contiene, e porta verso altre, molteplici suggestioni. Nell’arte contemporanea sono molte le opere il cui significato emerge dai dettagli, come ad esempio nel ciclo di opere di Andreas Gursky attualmente esposto da Gagosian, intitolato Bangkok. Le vedute fotografiche del fiume Chao Phraya che attraversa la città, rivelano, viste da vicino, un pullulare di oggetti di scarto, di rifiuti di varia natura galleggianti tra le increspature e il tremolio dell’acqua. Quello che da lontano poteva apparire come un segno tra i segni, in realtà veicola il senso primario dell’opera; in questo caso il dettaglio ci porta fuori dall’immagine seducente, da una bella fotografia che sembra una pittura, memore dell’Impressionismo. Non pensi che l’arte, per sua vocazione, possa essere uno dei territori che si sottraggono alla reductio ad unum, e pertanto indichi altri sentieri percorribili per l’interpretazione?
E.C.G. Sono perfettamente d’accordo, ma nel mio libro ho voluto di proposito evitare di trattarne direttamente, perché mi sembrava una via troppo facile da percorrere, e ho voluto invece attirare l’attenzione su un percorso più filosofico e meno apparente. Basta leggere un libro bellissimo come quello di Daniel Arasse, Il dettaglio, La pittura vista da vicino, per sapere tutto sul rapporto fra pittura e dettagli. Non avrei avuto nulla da aggiungere alla sua intelligenza e alla sua erudizione, solo tutto da imparare. Certo, il libro si ferma alle soglie dell’Ottocento e non fa alcun riferimento all’arte contemporanea, neppure alle avanguardie storiche, che sono piene invece di dettagli proprio nel senso che hai appena detto. A questo proposito mi viene in mente una situazione curiosa e divertente, che però mi permette di inoltrarmi nel ragionamento sul ruolo e il significato dei dettagli in quanto dettagli, come vettori che ci portano fuori dall’immagine e dal suo pacificante equilibrio. Nel libro di Arasse c’è un capitoletto dedicato alle mosche. Vasari ne aveva parlato alla fine della sua vita di Giotto, riportando un aneddoto spurio e impossibile, ma significativo: Giotto da giovane, nella bottega di Cimabue, avrebbe dipinto di nascosto una mosca sul viso di una Madonna cui stava lavorando il suo maestro, e questi aveva tentato di scacciarla via ritenendola vera. L’aneddoto serviva a mostrare la grande maestria realistica di Giotto fin da giovane, ma si rifaceva anche un dato reale che si era imposto fra il XV e il XVII secolo, dove molte mosche appaiono in maniera più o meno incongrua in diversi dipinti italiani, francesi e fiamminghi. Il dettaglio della mosca, su cui hanno scritto anche André Chastel o Georges Didi-Huberman, porta il tema del dipinto molto fuori di sé, vuoi in una trascendenza volta a ricordare la morte e la corruzione, vuoi in una dimensione realistica esterna però all’insieme della rappresentazione, vuoi per un vezzo relativo alla perizia pittorica dell’artista. Arasse esamina vari esempi, da Petrus Christus a Georges de la Tour, notando proprio l’inesauribile polisemia di queste immagini di mosche. Il dettaglio, per riprendere quello che dicevo prima, è qualcosa che “porta fuori” o che spinge altrove rispetto all’insieme in cui compare e di cui è parte. Può rimanere inapparente e trascurato, ma non per questo scompare. Anzi, può diventare fastidioso e insistente come una mosca. Il suo effetto è sempre potenzialmente attivo: una volta che vi si sia posta attenzione, non se ne può sfuggire e si è costretti comunque a interrogarsi sulla sua funzione e il suo significato. Con l’avvento del cinema e della fotografia questa pratica è diventata comune, ma nelle arti plastiche si è inevitabilmente trasformata. Continuando a parlare di mosche, va notato per esempio che la loro presenza (sempre solitaria, come un dettaglio) è tornata nel cinema. Massimo Carboni ci ha scritto un intero libro, La mosca di Dreyer: in alcune inquadrature del film Giovanna d’Arco di Dreyer, sul viso dell’attrice protagonista Renée Falconetti c’è una mosca che casualmente vi si era posata durante le riprese, e che il regista, in fase di montaggio, invece di eliminare ha voluto conservare di proposito (forse per il suo “effetto di realtà” alla Barthes? o piuttosto per la potenza intrinseca all’irruzione di quel dettaglio imprevisto?). E c’è infine anche un’ultima mosca, questa volta nuovamente in pittura, assai più recente e sotto certi aspetti analoga alla mosca di Dreyer. Si tratta di un insetto vero e proprio che è rimasto imprigionato, ed è morto, in una sgocciolatura di colore (dripping) che Jackson Pollock aveva colato sulla tela di "One: Number 31” del 1950: ancora oggi è visibile sul suo fondo violaceo. Qui la casualità alla Giovanna d’Arco si è fusa con l’inconsapevolezza dell’artista (se ne è accorto? l’ha lasciata apposta?) e con la morte, che non è certo una questione di dettaglio, ma che nel dettaglio di quella mosca là ci porta assai lontano dall’intenzione esplicita di Pollock, eppure anche estremamente vicino a quello che la sua pittura voleva dire (sulla casualità compositiva, sull’espressione dei colori, sull’alea inevitabile che parla ad ognuno e di cui la morte stessa fa parte). Quello che voglio dire è che i dettagli, anche nell’arte contemporanea, anche negli esempi che hai fatto tu stessa, possono essere cercati, voluti, inseguiti, ma anche raccolti, accettati o inconsapevolmente integrati: mantengono la loro forza e immergono le opere nel mondo, in tutta la sua inesauribile complessità, aprendo e mostrando relazioni che non sarebbero altrimenti percepibili e concepibili. Le foto di Andreas Gursky sono bellissime, e la loro dimensione permette di perdersi nei loro stessi dettagli. A me piacciono anche molto i lavori dei suoi maestri (la coppia Becher), che con il bianco e nero riescono a evidenziare un discorso aperto all’architettura e all’uso che se ne può fare proprio per sottrarre il tema del dettaglio alla sua riduzione minuziosa, alla particolarità infima, all’infinitesimale: voglio insomma attirare l’attenzione anche sul dettaglio tecnico legato all’industrializzazione dove l’occhio, in quelle immagini tutte così ben strutturate, si perde nella misura in cui vi entra dentro. Mi piace l’accostamento che fai fra Bosch e Gursky, perché è veramente molto azzeccato (le sue foto sono “guardabili” da più punti di vista, e a distanze diverse, e ciò conferma il valore spiazzante dei loro dettagli), ma non vorrei che con questo si pensi che i dettagli siano esclusivamente nei particolari (anche se nel mio libro comincio proprio da lì, tramite Warburg): ci sono dettagli che non sono sempre così facilmente identificabili, come il tono di un colore, la posizione di un’opera o il luogo di un’esposizione, che non vanno trascurati. L’attenzione ai dettagli è una pratica che va costantemente esercitata e su cui la vigilanza critica deve sempre essere pronta.
L.M. A proposito delle mosche, penso anche all’opera di Jannis Kounellis Motivo Africano, che l’artista presenta nel 1970 alla galleria L’Attico in occasione della mostra curata da Maurizio Calvesi Fine dell’Alchimia. Qui una donna in gravidanza era seduta, svestita, su uno sgabello e aveva dei mosconi sulla pancia: gli insetti, apparentemente di dettaglio rispetto alla maestosità del corpo femminile, davano forma a un’immagine al contempo di vita e di morte. Negli anni Settanta del Novecento, soprattutto nella poetica di alcuni artisti, come ad esempio Vettor Pisani, là dove il significato eccede sempre la sua formalizzazione, il dettaglio assume un ruolo fondativo fino a confondersi con ciò che, concettualmente, dettaglio non è... ll dettaglio appare, dunque, ciò che permette la comprensione delle cose, ciò che potenzialmente riduce o annulla lo sguardo di superficie, in cui nostro malgrado siamo immersi. Nelle Conclusioni del libro scrivi: “La forza dei dettagli mette in movimento ordini di comprensione e di ricerca differenti, sposta il fuoco dell’attenzione impedendo alla visione d’insieme la reductio ad unum, mobilita l’esperienza mettendola sotto scacco e mostra la fragilità delle generalizzazioni razionali” . Trovo che interrogarsi su questo tema implichi una riflessione che pur partendo da lontano, giunge inevitabilmente alla nostra contemporaneità e possa suggerirne una diversa, più attenta, interpretazione. Quali le ragioni che ti hanno portato a scrivere un libro che ha per oggetto il dettaglio?
E.C.G.L’idea del libro è nata dal lavoro che abbiamo fatto nella rivista Aperture. Punti di vista a tema (liberamente accessibile online) in un numero dedicato completamente ai dettagli. Scrivendo il mio articolo, mi sono reso subito conto che le cose da dire erano troppe per quelle poche pagine. Così ho cominciato a sviluppare il mio scritto, arricchendolo con tutto ciò che non avevo potuto inserire nel mio articolo. Ma le cose erano talmente tante che mi sono reso conto di nuovo che mi rimanevano due strade sole davanti: scrivere un libro ponderoso, completo per quanto possibile, e che avrebbe avuto molte centinaia di pagine, oppure scrivere un libro più agile, dove sviluppare la mia idea argomentandola trasversalmente, anche a costo di trascurare apparentemente molti aspetti del problema. Nello stesso periodo mi era capitato di discutere con Gea Casolaro di alcune sue opere, e le avevo chiesto come faceva a scegliere le foto che sentiva rappresentare al meglio il suo lavoro di un certo periodo. E’ un sacrificio inevitabile, mi aveva risposto (riporto a memoria, non so se mi ha detto proprio così, ma così l’ho capito), in cui entrano insieme la testa e la pancia. Nelle sue foto infatti c’è una grandissima tensione emotiva e al tempo stesso intellettuale. Ho scelto la seconda strada non solo perché volevo esprimere la mia idea con chiarezza e con la speranza di essere letto fino in fondo, ma anche perché alla fine non avrei mai avuto il coraggio di portare a termine un lavoro che avrebbe voluto essere il più possibile completo ed esaustivo. Così, per non rischiare di rimanere fermo a metà di fronte all’enorme quantità di “dettagli” e di prospettive in merito da inserire e discutere (e sono veramente tante!), ho deciso di tagliar corto e limitare il discorso ad alcuni autori e pochi settori della nostra cultura. Non so se ho fatto la cosa giusta, perché ogni volta che parlo del mio libro, dico sempre cose che nel libro non ci sono e che certamente avrebbero dovuto esserci. Ma forse, quando si parla della forza dei dettagli, non può che essere così (e nel mio libro penso di averlo spiegato): i dettagli ci spingono sempre in un altrove che non possiamo arginare. Permettimi però di precisare quanto hai detto in quest’ultima domanda. Certo, i dettagli permettono di comprendere le cose, però non lo possono fare da soli. Nel senso che non sono l’unica (o la privilegiata) via della conoscenza delle cose, o di una loro più intima e completa comprensione. Quello che ho cercato di mostrare è che il dettaglio, in quanto dettaglio, ha una forza inaspettata di cui troppo spesso non si tiene conto. E qui hai colto veramente nel segno, perché pur partendo da lontano ciò che mi interessa di più è riflettere sull’oggi, sul nostro modo di vivere spesso stancamente o distrattamente le cose. Ma la forza di un dettaglio gli è propria solo in quanto dettaglio di un certo insieme: se il dettaglio viene isolato e viene reso dominante (per esempio quando lo si isola in un ingrandimento o lo si ritaglia per farne un’opera indipendente), perde immediatamente questa sua energia. Mi vengono in mente alcune incisioni che mio padre amava comprare presso certi negozi di antiquariato: alcune erano scene di battaglie navali che il furbo commerciante (o chi per lui) aveva ritagliato da un paesaggio evidentemente più ampio, oppure ne comprava altre che erano paesaggi, anche molto belli, con grandi distese marine che presentavano però nel mezzo una lacuna (appunto una piccola scenetta di battaglia navale ritagliata e finita chissà dove). C’era qualcosa che non funzionava in entrambe le immagini, e che provocava in me un certo fastidio che non sapevo bene come spiegare. Il fatto era che i dettagli hanno senso nell’insieme cui appartengono, o meglio “fanno senso” insieme, e la loro forza non è dello stesso ordine di quella dell’insieme stesso. Si ha bisogno di entrambe le forze, non di una o dell’altra. C’è bisogno dello sguardo di superficie e di quello in profondità. E c’è bisogno, soprattutto, del passaggio continuo dall’uno all’altro, con tutte le sfumature intermedie che queste forze diverse permettono e aprono. L’arte è da sempre stata capace di mobilitarle insieme, e l’arte contemporanea non fa eccezione. Se il mio libro riesce a ricordarlo, o a darne consapevolezza, allora rispetta il compito per cui l’ho scritto.
Gennaio 2018

 
1)Enrico Castelli Gattinara, La forza dei dettagli. Estetica, filosofia, storia, epistemologia da Warburg a Deleuze, Mimesis, 2017.