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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

La (ri)costruzione del contesto nella mostra Post zang tumb tuuum alla Fondazione Prada

Brunella Velardi

I.

“Questo è il momento degli archivi”, ho sentito dire qualche settimana fa visitando la nuova sezione del MAXXI dedicata ai fondi di Graziella Lonardi Buontempo: non c’è dubbio, è così. Per la precisione, è il momento che precede il ‘boom’, quello del lavorio che prepara il terreno per una ribalta. Almeno, questa è la sensazione (e la speranza), visto il crescente numero di progetti, convegni, pubblicazioni, notizie che proliferano intorno agli archivi. Riscoperto il loro ‘valore assoluto’ di serbatoi di memorie e di fascino, gli sforzi della comunità scientifica internazionale sono tutti tesi all’ ‘estrazione’ dei documenti dai faldoni e alla loro esposizione al pubblico. Ma qual è la forza degli archivi? Come, uscendo fuori da scaffali polverosi, possono cambiare il nostro modo di leggere le cose? La risposta per ora sembra essere: intanto, facciamo sapere al mondo che non mordono; esibiamoli in tutta la loro caducità, i bordi smangiucchiati, le carte ingiallite, scatti improvvisati, grafie disordinate, caratteri mal stampati sui fogli economici di un quotidiano – hanno un aspetto assai meno impositivo di oggetti sacralizzati come le opere d’arte. Dimostriamo che hanno una forza comunicativa intrinseca e lasciamo che il popolo del web gli dia una sbirciata.
Poi però tocca dargli un senso, cioè un contesto e uno scopo, perché possano riconquistare davvero la fiducia di chi non bazzica l’ambiente. Accade spesso che nella foga di dire qualcosa ci si dimentichi del contesto, e allora linguaggi, atteggiamenti, oggetti, diventano ‘fuori luogo’, si collocano in territori indefiniti, spiazzanti, ambigui, più simili a non-luoghi che a nuovi contesti. Basta pensare a certe espressioni del lessico politico o agli assemblage di informazioni alla Frankenstein che si trovano su internet. Il contesto: meglio se resta al suo posto, ma guai se non c’è.

II.
Cosa accade in Italia dopo il chiassoso, rivoluzionario Zang tumb tumb delle prime avanguardie? Finita la Grande Guerra, quali le nuove ideologie, le nuove estetiche, i racconti e le ambizioni? Difficile a dirsi, per certi versi gli avvenimenti del secolo breve asseriscono tutto e il contrario di tutto. La narrazione storica ne ha ripercorso fasi e contraddizioni, cause ed effetti; i suoi momenti salienti costituiscono i capisaldi della nostra consapevolezza di 'esseri contemporanei'. Nell’arco di trent’anni si definiscono l’assetto geopolitico e gli equilibri economici occidentali: quasi tre decenni che la mostra Post Zang tumb tuuum. Art Life Politics: Italia 1918-1943 curata da Germano Celant alla Fondazione Prada di Milano attraversa con l'approccio della vivisezione, scandagliando i prodotti molteplici e diversissimi della cultura italiana tra il primo e il secondo dopoguerra e indagandone il rapporto con il fascismo in ascesa prima e al potere poi. Uno spaccato dai confini ampi, in cui alla storia dell'arte si intrecciano storie di artisti e di mostre, cronache politiche, vicende testimoniate da lettere, ritagli di giornale, registri, fotografie.
Entrando a capofitto nelle questioni cruciali che negli ultimi anni hanno portato gli archivi al centro dell’attenzione di critici e musei (restituzione della memoria, ricostruzione di nessi storici, valore iconico del documento...), Celant mette in piedi una vera e propria scenografia degli eventi. E costruisce una mostra di contesti. Il percorso espositivo mette in scena l’identità di documentazione, contesto e allestimento, ricalcando fedelissimamente il lavoro curatoriale: l’opera non è altro che un tassello di un mosaico polimaterico all’interno del quale si muove il visitatore, catapultato in una dimensione di scoperta diretta, assimilabile per certi versi a un’esperienza immersiva in cui gli artefatti vengono osservati in modalità macro.
La scelta di innestare all'interno del percorso ventiquattro 'set' che ricostruiscono specifici contesti espositivi delle opere presentate, chiarisce con immediatezza l'intento critico dell'operazione. Il punto di partenza è la documentazione fotografica in cui compaiono le opere in mostra, dagli studi d’artista alle gallerie private, alle maggiori esposizioni del periodo. Ingrandite fino a raggiungere le dimensioni reali degli ambienti in cui erano state scattate e riprodotte nelle sale della Fondazione tra gli edifici Podium, Nord, Cinema, Sud e Deposito, le fotografie sono le grandi protagoniste di questa esposizione, filo conduttore dell’allestimento che accoglie opere, progetti e documenti d’archivio.
È un esperimento museografico che suona in realtà come manifesto, un proclama contro le pareti asettiche del white cube, ancora così di moda, che isolano l’oggetto esposto lasciandolo galleggiare in pareti depurate da ogni interferenza, rumore di sottofondo, insomma contesto. D’altra parte l’intento, metacritico, è esplicito nelle parole di Celant, che nel contributo in catalogo significativamente intitolato “Verso una storia reale e contestuale” – in cui il corbusieriano ‘verso’ si propone come prospettiva percorribile della prassi curatoriale – sottolinea con fermezza la necessità di ricollocare l’artefatto nel sistema d’uso, svolgendo «un ruolo critico contro la decontestualizzazione espositiva, con la sua pratica d’isolamento, funzionale solo all’ubiquità del valore mercantile» e scagliandosi contro la neutralità del fondo sul quale le opere dialogano solo tra di loro, in nome dell’arte per l’arte(1). Come non riconoscere un tentativo di fare un passo indietro rispetto all’autoreferenzialità del mondo dell’arte – e in particolare della critica d’arte contemporanea – proprio attraverso la riproposizione di un modello espositivo?
Qui entra in gioco l’archivio e tornano in mente le domande dell’incipit (Ma qual è la forza degli archivi? Come, uscendo fuori da scaffali polverosi, possono cambiare il nostro modo di leggere le cose?): riportando alla luce «le tracce informative lasciate da parole e fotografie, pubblicazioni e disegni, modelli e cartoni preparatori [si intende] attivare la visione, l’interpretazione e la conoscenza degli aspetti sociali e pratici delle vicende dell’arte italiana nel periodo preso in considerazione»(2). La risposta di Celant è chiara e forte, i documenti d’archivio costituiscono l’innesco che dà avvio ai processi consequenziali di visione, interpretazione e conoscenza. C’è di più: questi tre step non rimbalzano da opera d’arte a opera d’arte, vale a dire da prodotto finale a prodotto finale (usando anche la metafora economica), ma al contrario attraversano gli aspetti di realtà che conformano il contesto, e in particolare, in quel periodo, quelli culturali e politici. Di qui l’esigenza di includere in mostra piani urbanistici e progetti architettonici, filmati e servizi televisivi d’epoca, analizzando le politiche espositive, le manifestazioni di adesione e, più raramente, di dissenso rispetto al fascismo, e più in generale le testimonianze dell’interdipendenza tra arte, società e politica, con l’effetto di restituire storia e ‘umanità’ a dipinti, sculture, oggetti di design, architetture, mostrandone la genesi e la vita originaria, i loro autori e i contesti precedenti. Fotografie che ritraggono non solo gli artisti ma anche architetti, scrittori, intellettuali (Marinetti, Balla, Depero, Carrà, Carlo Levi, Adalberto Libera); documenti che aprono focus tematici su figure ed episodi specifici: la parabola del Teatro Gualino di Torino, Margherita Sarfatti, la sua vicinanza al regime e il gruppo di Novecento, Alberto Moravia e Gli indifferenti – il cui successo portò all’apertura di un fascicolo sullo scrittore da parte della polizia politica, la posizione antifascista di Lionello Venturi, l’arresto di Carlo Levi; vedute delle più importanti esposizioni, dalle Biennali di Venezia alle Quadriennali di Roma, alle mostre futuriste, alle Triennali di Milano, a quelle organizzate dal sindacato fascista degli artisti, all’E42 a, naturalmente, la mostra della Rivoluzione Fascista del ’32 – cui è dedicato un ampio approfondimento; riproduzioni proiettate in formato ambientale di edifici, disegni di progetti architettonici e urbanistici. Sono questi i temi e i materiali che articolano il percorso tra l’esuberanza del futurismo e il rigore del ritorno all’ordine, tra Boccioni, Tato, Prampolini e Casorati, Sironi, Martini, tra gli eterogenei realismi di De Chirico, Fontana, Guttuso, Leoncillo e l’altera esaltazione propagandistica di Wildt.
Con un approccio strettamente filologico, le fonti divengono qui opera in mostra, strumento espositivo e dispositivo di fruizione, conferendo non più al testo scritto, ma all’immagine stessa un ruolo primario di comunicazione intorno a oggetti a carattere sostanzialmente visivo. Le gigantografie in bianco e nero delle esposizioni dell’epoca sono, di fatto, il layout storico su cui si dispongono gli oggetti della mostra d’oggi, conferendo alla mostra una dimensione metatemporale che è, in fondo, il principio implicito che sottende a buona parte delle operazioni museografiche improntate alla ricostruzione storico-critica.
La coincidenza letterale tra curatela e allestimento attraverso la riproduzione del documento non è infatti solo una scelta funzionale all’amplificazione della funzione dell’architettura delle sale come di sito deputato alla comunicazione. Né soltanto un escamotage per raccontare la storia espositiva, e dunque in molti casi le reciproche implicazioni tra politica e arte in quel periodo. L’elaborazione di un diaframma esplicito, che rende visibile e immediatamente leggibile il processo intellettuale a monte dell’ “evento mostra”, è il tentativo di tendere una mano al pubblico del museo, la dichiarazione, scevra di ogni sottinteso tipico del “per gli addetti ai lavori”, che il lavoro del critico non resta nella penombra di segrete stanze ma è tutta lì, in mostra – what you see is what you see – fino alla fine, con la bibliografia che chiude il percorso, in una definitiva identificazione tra esposizione e catalogo.
Aprile 2018


1)G. Celant, “Verso una storia reale e contestuale”, in Post zang tumb tuuum. Art Life Politics: Italia 1918-1943, Fondazione Prada, Milano 2018, pp. 553-557.
2) Ibidem.