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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

a cura di Francesca Gallo

La fortuna di un autore si registra nel tempo e come spesso accade può avere percorsi carsici. Alla popolarità della fase innovativa, talvolta segue una consacrazione tardiva che coincide anche con la trasmissione alle nuove generazioni di alcuni aspetti del lavoro, attraverso una mediazione didattica, magari fuori dai percorsi disciplinari.
Dal corpus di ricerche condotte da chi scrive attorno alla performance degli anni Settanta e alla peculiare declinazione che ne fa Giuseppe Chiari (1) sono germogliate diverse piste di studio, di cui questo dossier, dedicato alla vitalità della ricerca di Chiari negli anni Novanta e Doppiozero. è un primo esempio.
Un evento importante, da questo punto di vista, è la Grande improvvisazione realizzata al Centro Pecci di Prato il 29 settembre 1990(2), e a cui partecipano un centinaio fra musicisti, artisti e intellettuali, fra cui Luca Miti e Tommaso Tozzi.
Relativamente al quesito da cui prende le mosse il presente dossier – cioè la “riscoperta” di Giuseppe Chiari tra la fine del xx secolo e l’inizio del successivo – è indubbio che un contributo significativo si deve proprio a Tozzi, che ha eletto Chiari a proprio “maestro”, negli anni Ottanta e ne ha divulgato la filosofia in un’area di ricerca che dalla musica si estende al web [Fig. 1].
Per Tozzi al centro del lavoro di Chiari c’è l’indisciplina verso le convenzioni di un’arte, la musica, o di un genere, la musica colta. Tozzi è interessato alla dimensione politica dell’arte di Chiari: tutto è musica, chiunque può fare musica, fuori dal mercato discografico, dal conservatorio, dai teatri e dalle sale da concerto(3). In occasione di Grande Improvvisazione, infatti, Tozzi indica a Chiari diversi artisti da coinvolgere, e lui stesso partecipa proseguendo un’azione che stava portando avanti da qualche tempo in rete. Tozzi distribuisce una cartolina [Fig. 2] con cui chiede sostegno alla sua campagna contro le speculazioni economiche in campo culturale, inteso in senso molto ampio: la sua è una sorta di raccolta di adesioni per ottenere una nuova normativa in merito.
Nel 1997, in occasione del concerto per i 70 anni del maestro, a Bologna, Tozzi produce una originale interpretazione di Suonare la città (1969). L’artista pubblica quella partitura verbale – in cui Chiari indica alcuni modi non convenzionali di suonare la città, che nulla hanno a che vedere con le bande, i suonatori ambulanti, i cortei o le feste in piazza – e il proprio commento ad essa sulle pagine de Il Manifesto. La esecuzione di Tozzi consiste quindi in un testo molto interessante, utile anche a comprendere la portata “fecondatrice” di quella ricerca. «I brani di Chiari, scrive Tozzi, non sono sistemi chiusi», motivo per cui ascoltare l’esecuzione di Suonare la città «ha prodotto nel recettore (ascoltatore) di tale riflessione una nuova sensibilità verso l’ambiente (il sistema) che lo circonda tale che egli si trova prima o poi nella situazione quotidiana di esecutore del brano musicale Suonare la città»(4). Le opere di Chiari hanno ripercussioni sul pubblico, che diviene a sua volta esecutore, come nel caso di Suonare la città. Si ripropone quindi in chiave attuale la prospettiva politica e la componente anti-autoriale di Chiari: Tozzi assimila l’involontaria partecipazione dell’ascoltatore al feedback, inteso come retroazione. Un concetto di cui si nutrono molte sperimentazioni artistiche con le nuove tecnologie, ma anche diversa arte relazionale.
Tuttavia, al di là di alcuni punti fermi – come l’interesse di Tommaso Tozzi – rispondere in maniera complessiva alla domanda sulla vitalità della ricerca di Chiari negli ultimi trent’anni presuppone una cultura molto vasta, capace di spaziare dalla musica alle arti visive, su scala internazionale. Qui si è preferito considerare l’interrogativo da una prospettiva più circoscritta, che fa fulcro su Luca Miti, dal 1990 uno degli esecutori di fiducia di Chiari, accanto a Girolamo De Simone e Giancarlo Cardini, ad esempio. Partendo dagli esecutori, infatti, soprattutto quelli del Chiari anziano, che si mostra meno in pubblico, in particolare fuori Firenze, si possono ricostruire situazioni e problematiche di questi decenni, che evidentemente trovano nel lavoro di Giuseppe Chiari spunti attuali.
La conversazione con Miti – nata all’interno della mia frequentazione del lavoro di Mauro Folci che con Miti collabora spesso, dal 1996 in avanti (5) – quindi, ha messo in luce alcuni aspetti di Chiari compositore, in particolare le modalità della delega ad altri dell’esecuzione di propri pezzi, in una fase in cui la ricerca del fiorentino era in buona misura consolidata e, soprattutto, consacrata. Dall’intervista emerge anche una visione lucida della tendenza del compositore ad assecondare un collezionismo diffuso di pentagrammi schizzati, frasi vergate a mano, strumenti musicali manipolati in maniera quasi seriale, che per certi versi portano alle estreme conseguenze la diffidenza fluxus per l’opera d’arte oggettuale, dall’altro però hanno non poco offuscato la dimensione concettuale del lavoro di Chiari.
Miti, inoltre, dà conto dell’amicizia fra i due, che genera, in questo come in altri casi, opere di autorialità condivisa, per così dire. Le occasioni a me note risalgono agli anni Settanta (6), ma Miti racconta di alcuni pezzi nati durante le telefonate con Chiari, come Tre pezzi a Giovanna Sandri (2003), nonché di qualcosa che il compositore firma a nome di entrambi, senza neppure avvisare Miti. Tale rapporto culmina, idealmente intendo, con le composizioni, in parte verbali,  che Chiari dedica a Miti, nel 1998 e che qui si pubblicano per la prima volta.
Nella conversazione con Luca Miti intervengono Mauro Folci e Pasquale Polidori: entrambi gli artisti sono coinvolti in questo dossier sulla vitalità del lavoro di Chiari oggi.
Mauro Folci racconta la sua frequentazione del lavoro di Giuseppe Chiari e l’impiego che ne fa sia nella propria ricerca artistica, in particolare nella personale del 1996 al MLAC dell’Università La Sapienza di Roma [Fig. 3], sia nell’attività didattica. Talvolta, infatti, fa eseguire agli studenti dei pezzi storici del maestro, all’interno del corso di Arti performative all’Accademia di Belle Arti di Brera, da lui tenuto regolarmente dal 2001, uno dei primi in Italia.
Pasquale Polidori, invece, affronta un tema a lui caro, cioè la possibilità di leggere un testo verbale come spartito: in musica si chiamano partiture verbali, spiega Miti. Ma in realtà anche un copione per un attore contiene istruzioni, oppure un testo di arte concettuale che richiede un’esecuzione. Proprio sull’assenza di confini netti e di precise classificazioni riflette Polidori, mettendo in evidenza alcune somiglianze nella prassi compositiva eterodossa di Chiari e di Miti.
20 gennaio 2019



1) Ringrazio Cosetta Saba per avermi coinvolto nel progetto di ricerca che l’Università di Udine, in collaborazione con la Fondazione Ugo e Olga Levi di Venezia, sta portando avanti su Chiari, e i cui risultati sono in corso di pubblicazione. Tra i vari contributi che ho dedicato alla performance italiana mi permetto di segnalare il n. monografico di Ricerche di storia dell’arte, 114/2014.
2) Cfr. Libera Improvvisazione. Esperienza musicale per 70 solisti. Un’idea di Giuseppe Chiari, s.l., Exit, 1995. Ringrazio Tommaso Tozzi per aver condiviso con chi scrive molti materiali documentari risalenti alla sua amicizia e collaborazione con Giuseppe Chiari.
3) Cfr. D. Lombardi, Musica, in Continuità. Arte in Toscana 1945-2000. Regesto generale, Pistoia, M&M, 2002, pp. 81-107.
4) T. Tozzi, “Suonare la città”, in Il Manifesto, 9 febbraio 1997: a tale esecuzione fa riferimento anche Mauro Folci, citando il medesimo testo di Tozzi.
5) A. Cestelli Guidi (a cura di), Mauro Folci Vacanze. Il generico, l’incompetente, l’inutile tra il 1996 e il 2017, Macerata, Quodlibet, 2018.
6) Si pensi alla collaborazione con il fotografo e artista Gianni Melotti, che in questi casi – in cui si annoverano oltre a Chiari anche altri artisti – usa l’espressione di opera trasferita: c