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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Lucilla Meloni, autrice di un libro sulle comunità d'artista in Italia dal 1945 al 2000, in dialogo con Domenico Scudero

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Domenico Scudero
. Il titolo del tuo ultimo libro “Le ragioni del gruppo” è anche, volutamente, un omaggio ad un celebre articolo pubblicato da Giulio Carlo Argan e a me sembra un gesto di grande rilievo. Argan è stato un grande interprete della storia dell'arte italiana, sebbene poi non abbia ricevuto molte attenzioni nella sua ultima parte di vita e dopo la morte. Probabilmente ha scontato anche la sua partecipazione politica, ricordo vividamente le scritte "Argan Boia" sui muri di Roma durante il suo incarico da sindaco della città. Eppure grazie ai suoi testi sono molti ad essere cresciuti professionalmente, e immagino anche tu, riconoscendo la sua importanza.  Argan è stato fra i più convinti sostenitori del "gruppo artistico" come proposta politica eppure nonostante i gruppi si siano moltiplicati il suo sostegno non è servito molto. Come scrivi, è anche una particolare congiuntura quella che vede crescere l'impegno dei gruppi, in particolare di arte programmata, e il parallelo successo della Pop americana.
Lucilla Meloni.  Nella storia dei gruppi italiani, per il loro stesso riconoscimento, Argan ha avuto un ruolo centrale agli inizi degli anni Sessanta, come testimoniano, tra l'altro, i suoi diversi articoli dedicati all'arte di gruppo, pubblicati nel corso del 1963 su "Il Messaggero" e l'acceso dibattito che segue la IV Biennale d'Arte di San Marino Oltre l'Informale (dove il Gruppo N e il Gruppo Zero vincono ex-aequo il primo premio) che si snoda in occasione del XII Convegno Internazionale Artisti, Critici e Studiosi d'Arte di Verucchio. Argan individuava nella corrente gestaltica e nell'arte di gruppo una risposta alla "tecnocrazia industriale" e alla massificazione, vi vedeva l'affermazione di quella "cultura del progetto", ancora legata all'avanguardia funzionalista dei primi decenni del secolo, contrapposta a quello che aveva definito come il "non progetto" della Pop Art. Giudizio, quest'ultimo, che dopo alcuni decenni lo studioso rivide. La fortuna critica dei più importanti gruppi italiani, programmati e non: Gruppo T, Gruppo N, Gruppo Uno, Mid, è stata notevole nella prima metà del decennio, come documentano numerose mostre internazionali e l'attività teorica e propulsiva svolta dal raggruppamento delle Nuove Tendenze, con sede a Zagabria, che riuniva l'avanguardia cinetica e programmata; al Gruppo T e al Gruppo N sono dedicate sale personali nella XXXII Biennale di Venezia del 1964.
La vita dei gruppi degli anni Sessanta è stata breve; entro il 1966 la loro storia può dirsi conclusa fondamentalmente per cause interne, tra cui l'emergere di posizioni individuali, ma certamente anche per le trasformazioni in essere. Si consolida, anche in Italia, la società dei consumi, il portato ideale di un rapporto possibile fra arte, tecnica e industria si va stemperando; si afferma una nuova generazione di artisti che a sua volta cercherà segni diversi per altri linguaggi.
D.S. Mi è apparso estremamente importante rilevare la rimozione, quasi totale, delle esperienze dei gruppi anni '70. Appare inevitabile che oggi riflettiamo su quegli anni, che sono anche il tempo della nostra giovinezza, con un distacco temporale ma anche con una nostalgia irriducibile. Essere consapevoli di quanto lavoro sia stato fatto, adesso, dopo quattro decenni di rimozione, non conclude lo scopo di queste ricerche. Erano consapevoli anche gli "operatori artistici" di rappresentare un luogo utopico, come scrivi di Antonio Davide del Gruppo Salerno '75, ma la cancellazione brutale di tutta quella parte di storia non può essere compresa solo con il generico sentimento di estraneità alla realtà viva e nel successivo ritorno all'ordine dei neo-ismi postmoderni. Se oggi il Macro di Roma riapre con la palese citazione di quell'"Immaginazione preventiva" di Benveduti, Catalano e Falasca stiamo forse scoprendo una nuova avanguardia, seppellita dal turbine postmoderno ma riaffiorata grazie all'inesausto rapporto con gli anni '90 e le nuove pratiche artistiche che oggi, sia pure difficilmente riconoscibili, appaiono strettamente connesse con quegli anni.
L. M. Hai ragione a parlare di cancellazione brutale, ma considera che la stessa sorte era già toccata all'arte cinetica e programmata, che si è tornata a studiare dopo alcuni decenni di oblio (fatta eccezione per la mostra ad essa dedicata, curata da Lea Vergine nel 1983), con l'arrivo dell'arte tecnologica, dell'arte immersiva e interattiva.
Per quel che riguarda le esperienze collettive degli anni Settanta, imprescindibilmente legate alla cultura movimentista e politica del decennio, queste sono state archiviate ancora più facilmente, nonostante la loro presenza alla XXXVII Biennale di Venezia del 1976, nella sezione curata da Enrico Crispolti e Raffaele De Grada Ambiente come sociale, dal connotativo sottotitolo Proposte/azioni/esperienze. Documenti di una ricerca per nuovi modi di intervento creativo nell'ambiente sociale.
Purtroppo gli anni Settanta, gli anni del Femminismo, che hanno visto il Paese conquistare importanti diritti civili e sindacali: dalla Legge sul divorzio allo Statuto dei lavoratori, dalla Riforma del diritto di famiglia  alla Legge Basaglia e alla Legge sull'interruzione volontaria di gravidanza, che hanno sperimentato inedite forme di aggregazione sociale, come l'Estate romana inventata da Renato Nicolini, che hanno registrato l'esplosione, nelle masse giovanili, di molteplici forme di creatività, segnalate tempestivamente da Umberto Eco e da Maurizio Calvesi, hanno pagato il conto lasciatoci in eredità dal terrorismo armato. Come scrisse Alberto Grifi: "con la lugubre frase 'anni di piombo' furono seppelliti insieme al ricordo del terrorismo armato anche i portatori di idee nuove".
Tuttavia, poiché la storia è composta di fili più o meno sotterranei che legano le diverse vicende, con il riaffiorare, fin dagli anni Novanta, di pratiche volte a fare del territorio il proprio campo d'azione e a pensarsi come soggetto collettivo, appare evidente il rapporto con quelle azioni poetiche-politiche, in parte effimere, che avevano caratterizzato gli anni Settanta. Come tu dici, è evidentemente viva e contemporanea a noi quell'idea di "immaginazione preventiva" di cui parlavano Benveduti, Catalano e Falasca cinquanta anni fa, tanto da animare oggi, concettualmente, un progetto curatoriale. Va anche segnalato, positivamente, che da qualche anno a questa parte sono stati dedicati diversi studi a quella parte "non ufficiale" della storia dell'arte.
D.S. Fra le esperienze che hai analizzato mi sembra molto indicativa quella relativa al Gruppo di Piombino. Mi colpisce la strutturazione di base del gruppo perché al suo originarsi sembrava già completo prospetticamente per poter raggiungere obiettivi altisonanti, anche di rilevanza internazionale. Coesisteva la matrice operaia, politica, quella sociologica sperimentale, quella critico espositiva. La partecipazione di Domenico Nardone e di Daniela De Dominicis quali critici galleristi interamente dediti al sostegno teorico e alla documentazione del lavoro di Falci, Fontana e Modica ne tramanda una natura costruita adeguatamente anche al confronto col sistema dell'arte postmoderno e i suoi artifici. Inoltre fra i gruppi d'artista anni '80 quello di Piombino è stato anche il più discusso, recensito, è stato poi presentato in Biennale e ha conquistato un discreto mercato. Eppure la sua immagine risulta sbiadita, come se nel meccanismo qualcosa non avesse funzionato, sebbene ad osservare da questa distanza i lavori proposti fossero di grande impatto e lo sono ancora oggi. Io vedo quel progetto vitale dei piombinesi come un pressante invito al superamento di un’impasse reazionaria che era presente nel mondo dell'arte di quegli anni.
L.M. Indubbiamente il Gruppo di Piombino, durante la sua attività, ha riscosso grande attenzione, come attestano, oltre alle partecipazioni alla Biennale di Venezia (XLIII, 1988; XLIV, 1990), importanti mostre dell'epoca che facevano il punto della situazione, anche a livello generazionale. Ha messo in opera una ricerca davvero originale, a partire innanzitutto dal principio della partecipazione involontaria del pubblico; fatto, quest'ultimo, che lo distingueva dalle azioni di natura partecipativa portate avanti dai collettivi del decennio precedente. L'apporto teorico di Domenico Nardone, che proveniva dall'Eventualismo, è stato fondamentale per il suo stesso costituirsi. I lavori dei piombinesi, rivisti oggi, non hanno perduto la loro potenza, come ha dimostrato la recente mostra personale a Roma di Salvatore Falci; non solo, ma hanno anche, in una certa misura, anticipato alcuni aspetti delle successive pratiche relazionali. Senz'altro, nel pieno ritorno autoriale che ha caratterizzato la prima parte degli anni Ottanta, il Gruppo di Piombino ha indicato una strada alternativa e molto interessante e avrebbe indubbiamente meritato una maggiore attenzione, successiva al suo scioglimento, sia da parte della critica che della storia dell'arte.
D.S. La differenza che hai sottolineato sulla conformazione dei gruppi fra un'identità scaturita dalle connotazioni gerarchiche post avanguardiste e un'idea di fluidità derivata da un'ipotesi collettiva e politicizzata a me sembra che investa assai bene le qualità del nostro immediato contemporaneo all'interno del quale entrambe le ipotesi sembrano coesistere. Da una parte la tendenza a radicalizzare le poetiche attraverso la chiusura in gruppi ortodossi, come spesso avviene nelle tendenze ad alto tasso tecnologico, dall'altra una consistente permanenza di ipotesi pragmatiche atte a ricomporre il quadro di riferimenti socio-politici. Con questo vorrei dire che la complicata gestione degli anni '90, di cui hai iniziato a dare un quadro chiarificatore, si presenta adesso come risultato estremo del postmoderno, le cui esperienze non sono per questo da ritenersi deboli o superficiali. Incamerano però quelle connotazioni di appropriazione, nel senso processuale, e di sistematizzazione attraverso l'uso del gruppo e del collettivo praticate piuttosto strategicamente.  Essere gruppo nel generico tentativo di affermare una posizione escludendo qualsiasi struttura identitaria ha inevitabilmente portato alla diaspora. Difficile poter coniugare in un insieme gli artisti di Via Lazzaro Palazzi, fra la forza costruttiva di Rüdiger e l'aulica visione di Airò. D'altra parte questa connotazione ibridata dei gruppi anni '90, con le dovute eccezioni, ha portato all'emersione di individui.
L.M. Infatti per gli artisti di Via Lazzaro Palazzi non si può parlare di gruppo e gli artisti stessi non ne parlano. Si trattava piuttosto della condivisione, certamente basata su alcune affinità, di uno spazio autogestito in cui lavorare. L'esperienza di Via Lazzaro Palazzi (1989-1992), così come quella precedente della Brown Boveri (1984), testimonia proprio l'emergere di nuove modalità di stare insieme, lontane dalle rigorose piattaforme programmatiche teoriche o politiche che avevano segnato i decenni Sessanta e Settanta. Più che di gruppi, si tratta piuttosto di spazi autogestiti: mentre la Brown Boveri era uno spazio occupato, quello di Via Lazzaro Palazzi era affittato, e questa è una differenza non da poco… che restituisce il mutato clima generale, la venuta meno del conflitto. Se già i gruppi degli anni Sessanta erano molto critici rispetto alle dinamiche che regolavano la produzione e la circolazione delle opere d'arte, se negli anni Settanta questo rapporto era vissuto fondamentalmente in termini conflittuali, nel decennio successivo, per certi versi grazie alla liberazione dal rigore ideologico, il sistema dell'arte diventa un interlocutore.
D.S. Nelle ipotesi di gruppo ci sono due possibilità, o che sia verticistico, anche se non al suo interno, ma nei confronti della situazione contestuale dell'arte; o all'opposto che sia collettivistico, inclusivo. Fra le due ipotesi opterei per la seconda perché nel primo caso il "gruppo" rappresenta un soggetto chiuso, anche ostile. Inclusivo lo è stato Museo Teo, bistrattato, relegato a note marginali, e invece a mio avviso molto indicativo di quello statuto libertario che era nell'idea un po' "fanzine" dei gruppi anni '90 alle prese col moloch del sistema dell'arte, che era in Italia un sistema chiuso, direi patriarcale. Non mi sembra un caso che Museo Teo continui la sua lenta ma inesorabile avventura sempre caratterizzata da una visione condivisa, a volte paradossale. Mi meraviglia che stia in attesa di una lettura successiva, perché rispetto a tante altre realtà sia stato considerato un organismo di contorno, e proprio la sua allusiva lateralità è forse una chiave interpretativa propositiva. Un po' quello che mi pare stia succedendo adesso nei confronti del lavoro dell'Ufficio per l'immaginazione preventiva, rimasto sepolto per decenni e ora nuovamente attuale.
Mi chiedo quanto abbia influito nel “racconto” di questi decenni aver avuto una miope politica espositiva e una pessima cultura del gallerismo, tutto proteso a salvaguardare la tradizione del vendibile, lì dove avrebbero dovuto trovare spazio e visibilità quelle esperienze che manifestano ancora adesso una evidente coesione internazionale. Se questi direttori di musei e il loro solidali galleristi avessero quanto meno studiato le strategie di Seth Siegelaub forse adesso non saremmo qui a meravigliarci di aver dimenticato un'intera storia dell'arte contemporanea e di quanto sia significativa questa rilettura.
L.M. Concordo con te sul fatto che molto sia stato oscurato da una visione dell'arte mercantilistica che ha tagliato fuori dai circuiti espositivi e dunque anche dalla storia dell'arte vicende che non si presentano affatto come marginali, residuali. Ed è altrettanto vero che esiste una differenza enorme tra il concetto di gruppo espresso negli anni Sessanta come adesione collettiva a rigorose piattaforme teoriche e metodologiche, a manifesti e dichiarazioni e l'essere gruppo inteso come esperienza aperta a una pluralità che si definisce di volta in volta.
L'Ufficio per la Immaginazione Preventiva aveva aperto diversi "uffici",  con S.p.A. - Società per Azioni, "iniziativa libertaria e autogestita", aveva invitato circa 80 artisti a realizzare un proprio lavoro su un foglio ciclostilato, che poteva essere inviato per posta alle istituzioni deputate: dalle gallerie ai musei, agli operatori del settore; era intervenuto sul tessuto urbano con il progetto N.d.R. - Nota di Redazione utilizzando abusivamente un cartellone stradale per ospitarvi gli interventi di 33 artisti; aveva fondato la rivista "Imprinting": rivista senza comitato di redazione, dove ogni autore invitato gestiva il suo spazio. In base a un analogo criterio di apertura agli altri, vent'anni dopo Museo Teo, secondo la definizione di Giovanni Bai: "museo senza sede e senza opere […] una iniziativa non-profit […]  per riunire il lavoro collettivo di vari artisti ", si appropria di luoghi comuni dove portare l'arte contemporanea, si presenta come soggetto nomade che organizza situazioni collettive spesso della durata di un giorno, si definisce come museo e edita la rivista "Museo Teo Art Fanzine", che ne è l'organo ufficiale. Rivista autofinanziata, è concepita come "opera d'arte collettiva in continua trasformazione", ogni numero è diverso dall'altro a seconda della scelta del curatore del fascicolo.
Si afferma allora un'idea dell'arte come critica (non a caso un lavoro di Catalano si chiamava Arte come arte come critica), un'attitudine alla "lateralità" (per citarti) che permette una visuale più ampia…
Fortunatamente nella storia nulla è perduto, e che il Macro sia ora diventato il Museo per l'Immaginazione Preventiva, lo conferma.
20 luglio 2020                       
 
Lucilla Meloni, Le ragioni del gruppo. Un percorso tra gruppi, collettivi, sigle, comunità nell'arte in Italia dal 1945 al 2000, Postmedia, Milano, 2020.