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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Franco Falasca in dialogo con Lucilla Meloni
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Lucilla Meloni: Il 18 febbraio 1973 si comunica la costituzione dell’Ufficio per la Immaginazione Preventiva con sede a Roma in Via di Monserrato presso la galleria GAP di Gianni Fileccia e le sezioni in cui esso è articolato. Ti chiedo innanzitutto cosa significava per te, Tullio Catalano e Maurizio Benveduti, il concetto di “Immaginazione Preventiva”.
Franco Falasca: Sorvolo il rischio di interpretare, modificare o chiarire una azione culturale realizzata in passato, se mai posso la mimo: ogni esperienza ha un suo futuro, una esperienza che non ha un futuro ha un passato e se avesse solo un passato si limiterebbe a inserirsi in qualcosa di precostituito piuttosto che inglobare questo qualcosa, come dire pesce grande mangia pesce piccolo, idee grandi inglobano idee piccole, una guerra continua e infinita, noi gruppo lasciammo aperto questo infinito, a differenza di chi in doppio petto entrava nel salotto buono, cioè nella Storia, per noi il salotto buono era e rimane l’immaginazione preventiva come idea estetica infinita.
Sia la prassi che la finalità non era quella di guardare il mondo dell’arte per trarne idee, era quello di guardare le idee per suggerirle al mondo dell’arte e tramite esso alla società in generale.
Nessuno ha mai capito cosa fosse l’immaginazione preventiva, e non è il caso di saperlo. Può essere utile per intuirla questo mio aforisma “Vita è tutto ciò di cui non ci si accorge, il resto è cultura.”
I concetti chiave sono “l’immaginazione liberatoria” contrapposta alla “immaginazione repressiva” con riferimento alle emozioni ed ai significati.
Immaginazione preventiva è anche questa intervista.
L.M. Cosa intendevi ed intendi esattamente in questo caso per Estetica?
F.F. L’estetica (da non confondere con la superficiale bellezza) sottolinea nella vita di un essere umano quel “quid” che ci appare a volte assolutamente vero ed evidente tanto da non poterne dubitare, altre volte e più frequentemente assolutamente inventato e fantasioso, nel dubbio ci si innamora di esso e lo si trasla in tutto ciò che si muove intorno a noi,  persone, oggetti e vicende, fino al limite dove normalità e follia si fondono, nello sguardo che ci rende noi stessi, in quell’equinozio tra amore e aridità, tra conformismo e rivoluzione, tra prassi e immaginazione, in un tunnel buio dove combaciano oggetti ed idee, poesia e matematica, performance e gesto, arte e non arte, smarriti e congelati nell’interdipendenza sia ossessiva che semantica.
L.M. Come funzionavano, concretamente, gli Uffici?
F.F. La sede fisica era nella Galleria GAP, via Monserrato 120 Roma, nel cuore della zona di Campo dei Fiori, galleria fondata da Gianni Fileccia e Adriana Miccolis. Era una sede dove si incontravano altri artisti, critici, e alcuni frequentatori fissi, il critico più assiduo era Emilio Villa. Si discuteva sui temi dell’arte, della vita, della filosofia e della politica; c’era un tono di fondo comune, ma le sfumature si alternavano. La proposta era quella di fare dell’UIP un modo di essere e di pensare da diffondere tra la popolazione, e questo ci riempiva di gioia. I progetti e la loro attuazione avvenivano sia nella galleria che nei nostri studi personali, usando le tecnologie dell’epoca, la fotocopia, il ciclostilato, la posta, il telefono, la pittura, l’installazione, il collage, la fotografia. Io frequentavo i luoghi con al collo sempre la mia fedele Leica M2 con sopra montato l’esposimetro Leicameter ed un’ottica Summilux, la serie morbida delle ottiche della casa, densa di sfumature.
L.M. La vostra storia come gruppo inizia alla fine degli anni Sessanta; è interessante il fatto che provenivate da ambiti disciplinari diversi: tu dalla letteratura, Benveduti dalla pittura e Catalano dalla critica. È una storia originalissima nel panorama italiano, che mette al centro del suo procedere l’idea della critica, della riflessione sui linguaggi e dell’apertura come fattore basilare, che ha preso forma negli anni attraverso azioni, installazioni, conferenze, dibattiti, organizzazione di mostre, interventi sui temi dell’arte visiva, della letteratura e della poesia.
F.F. Raccontare la nascita e lo sviluppo del progetto è riprogettarlo non raccontarlo: guai pensare che il passato sia passato.
 Io mi interessavo di filosofia e di scrittura creativa (la chiamo così e non letteratura perché non avevo alcun interesse per la scrittura prolissa banale e noiosa della saggistica non creativa e del romanzo naturalistico). Dopo qualche anno anche la fotografia entrò tra i miei interessi primari.
Catalano era interessato all’arte in ogni sua forma, atteggiamento che egli sintetizzò negli anni seguenti in “Arte come arte come critica”.
Allegro, ironico, rassegnato ma testardo, intelligente e (o ma) affettuoso, non interessato al mercato ed al successo, ma entusiasta della comunicazione. Il suo stile difficile evidenzia il suo desiderio di voler portare contenuti complessi alla superficie, e non il desiderio di voler conquistare il consenso: mai ha voluto conquistare il consenso ma ha sempre cercato di rimestare in quel buio oscuro dell’inconscio. come diceva Freud, un inconscio pieno di icone concrete e astratte ed anche icone dell’inconscio culturale che si mescolavano e si confondevano in un caos non catalogabile.
Sui banchi di scuola manifestava la sua vitalità e la sua anarchia anche mormorando “oh when the saints go marching in” e tamburellando sul banco durante le lezioni; a volte ciò provocava la reazione del professore.
Negli anni successivi alla scuola iniziammo a frequentare le mostre degli artisti più innovativi come Alberto Burri ed Emilio Vedova, ed a frequentare artisti quali Pascali, Lombardo, Kounellis, Emilio Villa, Fabio Mauri.
Benveduti si occupava di pittura, arte e implicazioni politiche della pittura e dell’arte.
Nel 1969 Catalano incontra Gianni Fileccia che aveva aperto a Roma la galleria GAP in via Monserrato: da lì Tullio inizia una avventura artistica che con la galleria copre tutti gli anni ’70; organizza mostre, Joseph Kosuth ed altri; sempre in quegli anni progettiamo insieme (l’idea è sua, le didascalie sono mie, le implicazioni politico-sociali di Benveduti) un’entità artistica denominata
UFFICIO PER L'IMMAGINAZIONE PREVENTIVA di C. Maurizio Benveduti, Tullio Catalano e Franco Falasca
18/02/1973: A seguito dell'Ufficio Consigli per Azioni s.r.l. si comunica la costituzione di un Ufficio per l'Immaginazione Preventiva suddiviso nelle seguenti sezioni:
1) Tullio Catalano (sezione per lo sviluppo e la futura saturazione dell'immaginazione analitica).
2) Franco Falasca (sezione per i rapporti tra l'immaginazione liberatoria e l'immaginazione repressiva con riferimento alle emozioni).
3) Carlo Maurizio Benveduti (sezione per i rapporti tra l'immaginazione liberatoria e l'immaginazione repressiva con riferimento ai significati).
4) Giancarlo Croce (sezione per l’immaginazione nuova).
Con questa denominazione io, Tullio e Maurizio abbiamo realizzato una serie di mostre (compresa la partecipazione alla Biennale di Venezia 1976) nelle quali la progettazione individuale e quella collettiva si incrociavano ed entrambe implicavano una nozione di comunismo e riflessioni non individualistiche che hanno attraversate illese questi anni.
L’altro rappresentante del gruppo, Giancarlo Croce, con lo sguardo rivolto alla cultura orientale ed alternativa, elaborava opere che risentivano sì del clima collettivo ma che egli firmava individualmente e che avevano a che fare con il soggetto artista e le sue proiezioni nell’immaginario.
Questa collaborazione a tre è durata fino al 1980, anno in cui ognuno di noi ha seguito una propria strada. Altri artisti in quegli anni hanno partecipato alle nostre rassegne ed iniziative editoriali, e noi di rimando alle loro; contrariamente a come scrivono taluni in modo fraudolento, l’Ufficio per la Immaginazione Preventiva è stato fondato in quella occasione, e da quei quattro artisti. Adesioni postume sono frutto di falsificazione filologica, con il pretesto del nostro disinteresse per la filologia.
Catalano, sia prima di queste iniziative, che dopo, ha continuato una sua ostinata produzione pittorica, in parte astratta ed in parte con tecniche di collage e fotografia abbinate, opere alcune delle quali sono in collezioni private, altre sono state smarrite, altre sono state distrutte.
L.M. Dal 12 maggio 1972 al 15 agosto 1975 date vita al progetto S.p.A. – Società per Azioni, un’iniziativa “libertaria e autogestita”, dove invitate circa 80 artisti a realizzare un proprio lavoro su un foglio ciclostilato che poteva essere inviato per posta alle istituzioni deputate all’arte: dalle gallerie ai musei, agli operatori di settore.
I duplicati dei lavori ciclostilati sono stati poi raccolti nell’omonimo volume, che, privo di menabò, le vedeva accostate senza alcun nesso. Mi racconti la nascita e lo sviluppo del progetto?
F.F. Lo descrivo con le parole di Tullio Catalano:
“12.5.1972, inizio dello S.p.A., inteso come registrazione autogestita di esperienze (azioni, cfr. titolo) singole e/o collettive, documentate e sollecitate mediante spedizione preventiva e/o successiva, attuate al di fuori di qualunque controllo reale, codificato o codificante, prevaricante la matrice stessa (azionista).
Lo S.p.A. è tuttavia un libro privo di menabò che afferma una capacità politica ed editoriale in assoluta estraneità con qualunque processo di determinazione quantitativa (pagine – capitoli - paragrafi) che inevitabilmente ne ridurrebbe la capacità di autodeterminarsi dialetticamente con lo strumento di capienza di una teoricamente infinita disponibilità di incidenza, di volta in volta inerzialmente adottata mediante una prassi sistematica consequenziale di valutazione esente da giudizio.”
L.M. L’accostamento dei linguaggi differenti e la loro analisi critica rispetto alla realtà è alla base della rivista “Imprinting”, dal sottotitolo “Sperimentazione e Linguaggio sul (dentro) il linguaggio”, che esce dal 1975 al 1979 con 29 fascicoli, poi riuniti in volume. Rivista senza note di redazione, dove ogni autore gestiva il suo spazio, le sue pagine davano vita a un territorio semantico conflittuale. Come era concepita questa rivista?
F.F. IMPRINTING. Sperimentazione e linguaggio – sul (dentro il) linguaggio
“Una volta avvenuto l’imprinting solo l’oggetto che l’ha causato sarà in grado di stimolare la risposta.”
Insieme a C. M. Benveduti, T. Catalano e F. Falasca il gruppo che organizza e discute il lavoro si riunisce regolarmente a Roma. Chiunque è interessato può partecipare alle riunioni.
“La proposizione può rappresentare la realtà tutta ma non può rappresentare ciò che, con la realtà, essa deve avere comune per poterla rappresentare – la forma logica. Per poter rappresentare la forma logica dovremmo poter situare noi stessi con la proposizione fuori della logica, vale a dire, fuori del mondo” (Ludwig Wittgenstein).
Rivista autogestita, uscita in 29 estratti (“dalla A alla Z” dal dicembre 1975 al marzo 1979) e poi in volume rilegato
Così la descrive Maurizio Benveduti nel 1978:
“L'Imprinting è una rivista autogestita che si occupa di ricerca sul linguaggio. Essa, nella sua struttura abituale, è divisa in due parti. La seconda parte è coordinata da noi del gruppo insieme, quando se ne presenta l'occasione, ad altre persone, si è sempre riferita ad analisi delle più diverse realtà così come sono state interpretate dai suoi più attenti osservatori: storici, economisti, politici, sindacalisti, movimenti di massa e d'opinione.
La prima parte invece è sempre stata affidata agli artisti. Noi del gruppo di coordinamento ci siamo rivolti loro dandoci come indicazione di lavoro non solo l'individuazione di diversi linguaggi, ovunque fossero emergenti, ma anche l'obiettivo privilegiato di collegarli a quella storia cui potessero direttamente od indirettamente riferirsi.” (C.M.Benveduti)
La rivista “Imprinting” rappresentò per noi redattori discreti il superamento del concetto di “editoriale” visto come una ingenua riduzione della complessità alla schematizzazione scolastica. La rivista rimase e rimane sospesa nella modestia dei linguaggi che appena si incrociano e si abbinano, incominciano a sfiammare come fili di un circuito elettrico assemblato male, facendo trasparire in modo terapeutico la malattia della presunzione dei linguaggi, forti, predominanti e tuttavia inutili.
Ad un certo punto scoprimmo che i linguaggi più che interagire secondo le regole dello storicismo hegeliano, si accostavano soltanto e convivevano ignorandosi su un piano orizzontale e temporale, non verticale, e che per chiarezza nessuno osava citare un linguaggio nel contesto di un altro linguaggio: contraddire questa regole diede origine alla rivista che divenne una specie di orgia semantica proibita e non più ripetuta se non in certi assemblaggi della poesia visiva e del cinema d’artista.
La cultura è formata da lingue e linguaggi, ognuno recintato in modo da non scontrarsi mai con l’altro, è una norma che le scuole dalle elementari all’università usano normalmente. Quando qualcuno mi si avvicina e mi fa un discorso io gli dico “prova a dire il contrario!” intendendo che il contrario di quello che lui dice ha lo stesso impatto emotivo, linguistico, passionale, energetico, umano, culturale.
Si possono costruire opere con una scenografia, una seconda scenografia dentro la prima o di lato, una terza scenografia dentro la seconda scenografia o di lato.
L’equilibrio mentale è la soluzione che rimette al posto giusto ogni contenuto, antropologia, arte, etnie, fisica quantistica, letteratura, filosofia, mondi paralleli. Al contrario il disturbato mentale è il presuntuoso, il quale stabilisce gerarchie tra un linguaggio e l’altro. L’editoriale (nel giornalismo) ad esempio, o il dibattito in generale, è il parente rompiscatole, che gerarchizza la famiglia e il mondo, con se stesso in primo piano. Tentativo impossibile, inutile ed antiscientifico. “Imprinting, sperimentazione e linguaggi” fu forse l’unica rivista al mondo di linguaggi senza gerarchie.
L’anticomunismo culturale sconfina pari pari nella patologia: crea gerarchie accademiche ed inganna il popolo!
Del metalinguaggio si sono appropriati arbitrariamente ad esempio (tra altri) i capi religiosi, gli esteti nell'arte, i dittatori di destra ed i populisti democratici in politica, i pubblicitari.
L.M. In quegli anni Settanta c’era, da parte degli artisti, una profonda disponibilità alla produzione collettiva di opere e di azioni, e l’idea di collettività appare come il brusio di fondo del decennio. Sono stati molti gli autori che hanno preso parte alle vostre iniziative pubbliche. Penso a N.d.R. Nota di Redazione, un’operazione che si inseriva nel tessuto urbano mediante l’occupazione abusiva di un cartellone stradale sito a Roma a Porta Portese, che dal 14 marzo 1974 al 18 luglio 1977 diventa il supporto delle opere di 33 artisti destinate ai passanti (esperienza proseguita poi a Milano e a Parma fino al 1979).
F.F. Il tema era l’ambiente, il linguaggio, l’accostamento dei significati all’interno del cartellone e tra il cartellone e l’ambiente esterno. Gli artisti invitati elaboravano un’opera per collocarla sul cartellone stradale.
In uno spazio deputato alla pubblicità, tutto quello che non è pubblicità diventa opera d’arte, rovesciando il canone artistico che imporrebbe una prassi repressiva.
L.M. Penso anche al successivo Di.A.Rte Divulgazione Effimera, realizzato con diapositive d’autore proiettate durante l’intervallo pubblicitario del film Coming Home dal 16 al 30 aprile 1979 al cinema Quirinetta di Roma.  Come erano strutturati questi interventi?
F. F. Di.A.Rte DIVULGAZIONE EFFIMERA di C. Maurizio Benveduti e Tullio Catalano
- proiezione di diapositive al cinema Quirinetta di Roma, via Marco Minghetti, 4.
- 140 secondi di proiezione di diapositive d’autore durante il film: COMING HOME/ TORNANDO A CASA – 1978, regia di Hal Ashby, con Jane Fonda e J. Voight.
- la diffusione delle immagini è avvenuta nello spazio pubblicitario previsto durante la proiezione del film.
- l’iniziativa è stata presentata da Achille Bonito Oliva (riferimento al testo “Passo dello strabismo sulle arti”, editore Feltrinelli, marzo 1978), Carlo Maurizio Benvenuti, Tullio Catalano, Franco Falasca.
- la manifestazione è stata effettuata con la collaborazione editoriale di “Biancoenero di Gianfranco Giorgirossi”.
Catalano parlava spesso di ridondanza (l’eccesso inutile) per arrivare ad una sintesi talmente sintesi da diventare contenuto non solo forma. Occhio alla luce, allo spazio, alle parole, ai sentimenti congelati, alle passioni sottintese, il festival dei significati e dei significanti, l’orgia della percezione.
Nella presentazione di “Di.A.rte” c’era questo mio testo:
“Il messaggio diretto al mondo, questo messaggio presente nella coscienza appassisce al cospetto del mondo, arcano fatto di riferimenti a persone, a culture, ad esperienze e il tutto a memorie diverse: il dramma tra possesso (attivo: possedere, passivo: essere posseduto) e contestazione tiene l’artista leggermente teso sulla soglia di un discorso di cui non riesce a trovare le parole conclusive; ogni dramma, il dramma storico, quello individuale, la ricerca meticolosa e perspicace, rappresenta una sublimazione dell’idea che egli ha di essere posseduto da qualcosa e che le sue cognizioni gratificano; è uno stimolo insistente e masturbatorio, che coagula i sistemi e li indirizza verso un modulo di ricerca nuovo e rigorosamente oggettivo, almeno per lui; la insistente passività che caratterizza le sue azioni può essere interpretata con la stessa attendibilità come coerenza e umanesimo, oppure come alienazione e disintegrazione, costretta alle soglie di una pretesa razionalità a darsi una veste sacrale non convinta (non convincente).
La presenza della razionalità, in un certo senso in minoranza, al limite della sua stessa auto-contestazione e della sua estinzione, rappresenta per lui, in contrasto con la materia, con i ricordi, e con la sua sperimentabile e apparente inefficacia, oggetto di riflessione poetica, demitizzazione delle matrici storiche sublimate e riconquistate del quotidiano, del dispersivo, dell’assenza di tonalità. La materia si confonde per lui nel fatto che egli non è prodotto storico e una struttura definitiva ma volta a volta rappresenta l’oggetto della evoluzione sociale e in parte anche l’osservatore di questa evoluzione: la materia è divenuta pertanto l’oggetto incandescente che contiene verità quantitativamente rilevanti di cui la singola coscienza non riesce a dominare il contenuto, né scientificamente, né moralmente, né affettivamente (un impasto sacrale, genuino, attendibile)”. (16/30 aprile 1979)
L.M. All’interno della storia dei gruppi degli anni Settanta, l’Ufficio per la Immaginazione Preventiva non rinunciava all’autorialità: accanto ai progetti comuni, tu, Catalano e Benveduti avete eseguito opere individuali. Come si definiva tra voi la relazione tra l’ambito autoriale e quello collettivo?
F.F. Non c’era la retorica del collettivismo né contestazione. L’U.I.P. non ha mai contestato alcunché, ha voluto pesantemente sottolineare, con la presenza, la nostra ed altrui drammatica individuale diversità che altri organizzatori di cultura presentavano e presentano ancora oggi come canone da copiare. Ogni opera d’arte, da sola è l’assoluto, interlacciata con altre opere è o l’assoluto infelice oppure una nuova opera, variegata come l’universo: era questo che avevamo proposto al futuro per superare il brivido a volte delirante della solitudine solipsistica o del collettivismo livellatore.
L.M. Recentemente hai dichiarato che quello che resta oggi, a tanti anni di distanza, della Immaginazione Preventiva è: “il sogno e la realtà di una continua pulsione dell’umanità, tra surrealismo e pulsione al comunismo, e l’idea che tuttavia sempre in ogni dove e in qualunque sensazione culturale l’immaginazione è sempre preventiva, ingiustificata e ingiustificabile, che precede se stessa e non ha bisogno di pacificazione storica e borghese (…)”.  Oggi il MACRO - il Museo di Arte Contemporanea di Roma – è stato intitolato da Luca Lo Pinto, suo nuovo Direttore, Museo per l’Immaginazione Preventiva per gli anni 2020/21/22: una espressa citazione della vostra esperienza, tanto che la targa dell’Ufficio per la Immaginazione Preventiva che era da GAP, è esposta adesso in mostra. Cosa ne pensi?
F.F. L’immaginazione preventiva come idea infinita, questo ha intuito Lo Pinto e quindi ha permesso che fosse esposto il progetto e non le opere, un progetto che non si esaurisce in una serie di opere ma che “prevede” una serie di opere infinita. È la prima volta che si espone l’idea di un gruppo di artisti con le opere di altri artisti, senza che ci sia contaminazione diretta, in ossequio al principio che le nostre azioni non sono quelle che noi crediamo che siano, ma sono quelle che sono.
La genialità o meno dei contenuti non è mai decisiva, decisiva è sempre la genialità o meno del fantasma invisibile che abita in essi, l’effetto liberatorio o repressivo sulla società e la ritrosia dell’artista ad aderire ad uno schema che si può individuare ed insegnare, per proiettarsi invece in un luogo dove ancora non c’è nessuno, esploratore di un passato e di un futuro nello stesso tempo.
20 gennaio 2021