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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

La battaglia per il dominio del contemporaneo

Domenico Scudero

Qualcosa di molto maligno agita il territorio del contemporaneo. La linfa di questo male è probabilmente nelle dissennate politiche culturali che hanno impoverito e dilaniato l'ambito culturale, i risultati sono invece brutali metastasi che maculano la visione e la comprensione del nostro tempo. Tutto questo, in virtù di un moto malato che ha avuto origine nel ventennio forzista e che risulta assai difficile da guarire senza adeguate cure e che ha determinato la chiusura dello spazio del pensiero sul contemporaneo in una guerra fratricida fra storia e critica. Il tempo contemporaneo e le sue identità sono il soggetto centrale, comunque venga chiamato con didascaliche etichettature socio-antropologiche, dall'idea del postmoderno come congerie di stili, alla liquidità baumaniana, o all'etichetta iper che segna l'idea temporale di Lipovetsky (1)e che ha pervaso l'analisi critica degli ultimi decenni. Se l'analisi della genesi terminale di questo maleficio che sta deturpando l'idea di contemporaneità è naturalmente concentrata sulle pestilenziali politiche del discredito culturale, di cui la stessa società civile è responsabile, le origini vanno però ricercate in un tempo molto più remoto.

Il male incurabile da cui siamo affetti, ovvero una guerra incondizionata che si sta combattendo per distruggere la mera sopravvivenza della ricerca sul contemporaneo sopratutto in ambito universitario e accademico, ha origine infatti nel momento in cui la storia dell'arte ha cominciato ad affermarsi come disciplina scientifica. Se il movimento di cristallizzazione che ha normalizzato l'idea di una storia compiuta attraverso norme e regole codificate ha di fatto accresciuto il suo peso scientifico, già dall'identificazione della Scuola di Vienna(2), questo stesso movimento ha determinato una distanza specifica dalle prassi della critica, e in particolare di quella critica che si nutriva del suo immediato contemporaneo.

La nascita di un parallelismo critico poetico a sostegno dell'arte sperimentale era stata avviata già al tempo pre-impressionista, quando Baudelaire, visitando il Salon del 1859 scriveva che «un buon quadro, fedele e pari al sogno che lo genera, deve essere prodotto come un universo»(3). In questo flash descrittivo si intuisce già il desiderio di generare una sorta di autonomia dell'arte contemporanea che non poteva rispondere ad alcuna norma se non a quella dell'universalità; la critica, di conseguenza, non poteva avere altra forma letteraria al di fuori di una poetica sincronica all'arte. Inutilmente la storia e le sue tecniche fondate sull'astrazione positivista e sull'archiviazione archeologica, hanno tentato di rincorrere il desiderio di autenticità, scientificità e innovazione dell'arte. Il Kunstwollen  - la volontà di fare arte - col suo richiamo nicciano, che rese celebre la lettura storica della Scuola di Vienna attraverso il lavoro di Riegl, non riusciva a spiegare con le tracciabilità purovisibiliste e il successivo teorema filologico dello Stilfragen - i problemi di stile - le trasformazioni plausibili della storia artistica a lei contemporanea, lì dove la sperimentazione trasformava la forma, occludeva la tradizione, bistrattava lo stile. In ogni caso, anche quando lo sguardo purovisibilista si volgeva alla consequenzialità dello stile sovrapponendolo alle tempistiche di realizzazione, fra alto e basso sistema culturale, non poteva spiegare il valore in virtù di una fenomenologia della forma(4). Qui per l'appunto il teorema dell'autonomia dell'arte e la sua irrequieta diversificazione dal territorio regolato da norme e codici, per quanto criticabile dalla volontà retriva di ogni accademismo, non poteva spiegarsi attraverso la regola della storia.

Fénèon, nel ritratto che ne traccia Jean Paulhan, intuiva lo schematismo della storia e a questa sovrapponeva l'esistenza nella sua variegata irriducibilità ad un formulario, e anche la sua anarchia(5). Al bivio del nuovo secolo la complessità del ruolo dello storico impegna più che altro la profondità di una ricerca sulle fonti, e di questa ricerca la monumentale letteratura artistica dello Schlosser è la forma più compiuta. Non è un caso che la chiara intenzione dello storico dell'arte in anni in cui sperimentazione e avanguardia segnano il territorio del contemporaneo sia quella di individuare l'origine delle fonti della cultura artistica. Ne dirà anni dopo Lionello Venturi nella prefazione alla sua Storia della critica d'arte(6), sostenendo che, certo, la storia dell'arte è cosa ben diversa dalla critica in sé, ma che una storia senza critica non può far altro che misurare le distanze e non valutare i risultati.

All'alba del nuovo secolo, tuttavia, l'identità del letterato artista non era più una sola figura uniforme e conforme all'opera. Simultaneamente alla nascita dal professionismo e dello specialismo, anche nell'ambito dell'arte, l'unità della figura umanistico artistica si era trasformata. Dal Rinascimento al Barocco la storia pullula di uomini che hanno interpretato l'arte attraverso uno sguardo artistico, ma dall'epoca dall'Illuminismo in poi questo ruolo ha compiuto alcune digressioni. Si dirà che l'epoca contemporanea può esser fatta nascere in ambito romantico, Ruskin in fondo era già moderno, ultramoderno, ma la sua diversificazione dal ruolo dell'artista è ancora un piccolo dettaglio. Alla fine dell'Ottocento, invece, non si parlava già più di artista conoscitore, ma di storico, di critico, di curatore e artista.

Sebbene le avanguardie abbiano in qualche modo unificato nuovamente queste figure lo hanno fatto sempre scartando l'identità dello storico: le avanguardie sono in egual misura critiche, artistiche, curatoriali, ma non sono mai storicistiche, poiché contro l'idea della tradizione e della norma, contro la stessa ragione basilare della storia. Una storia senza tradizione è impossibile. D'altra parte essendo gà la storia dell'arte una disciplina totalmente avulsa dalla fucina creativa dell'arte, come si sarebbe potuto riammetterla nel novero delle attività dell'arte proprio nel momento in cui si cercava di delineare una nuova identità? E in che modo il moto secessionisa viennese avrebbe mai potuto accettare che la sperimentazione fosse parte del «metodo»? C'era, è vero, la tendenza all'idealizzazione, evidente anche nel fatto che lo stesso Schlosser introducendo il suo volume citasse Croce come riferimento comune al sistema storico(7). Lo faceva eludendo di fatto la ragionevole domanda se la storia avesse o meno un carattere eziologico, nel desiderio di spiegare l’origine di aspetti della realtà, dei quali non era in grado ancora di formulare spiegazioni scientifiche, ovvero di solo appannaggio di una ragione critica.

La letteratura artistica tuttavia non era un semplice casellario procedurale sulle fenomenologie storiche della scrittura artistica poiché in essa erano dispiegati anche alcuni significati che se non potevano descriversi come propriamente critici, di fatto, non erano nemmeno ragionevolmente storici. L'estraneità del sistema di giudizio sul contemporaneo tuttavia si era già affermata nell'impostazione metodologica della storia. Ingabbiata nel suo purovisibilismo, protesa alla descrizione di una voluta, necessaria, identità scientifica, la storia dell'arte evolve nella direzione iconologica, mantenendo una linearità votata alla lettura del passato. Sebbene la letteratura artistica fosse in buona parte una storia delle idee, e quindi di concetti legati al giudizio, di questo si era arginato il peso alla luce della convinzione storica che la critica non potendo sottostare ad un sistema metodologico puro poteva semmai essere soggetto al metodo statistico(8).

Nel suo incompiuto Apologia della storia (1993), Marc Bloch liquida il problema della critica come irriducibile al sistema scientifico e di conseguenza, nella sua forma pura, come momento essenzialmente filosofico del pensiero e di una filosofia molto particolare, poiché non riconosciuta come tale dai filosofi. Altra cosa l'estetica, sia pure sotto l'aspetto esperienziale husserliano, con le sue prensili testualità che, come nel caso di Heidegger, ha animato il discorso critico di alcuni decenni(9). Proprio nella lettura di Bloch possiamo intuire che il vero nocciolo della questione, nell'ambito della letteratura artistica, era quella di proporsi storicamente, separando quindi le questioni formali da quelle di una fenomenologia del sapere che non potevano essere spiegate se non in visione di una esasperata idiosincrasia soggettiva. La critica era un pensiero del tutto esterno a quello del metodo, d'altra parte anche il più erudito fra gli storici critici non avrebbe potuto opporre al sistema storico altro che l'idea epistemologica dell'identità dei saperi corrispondenti ad una determinata epoca, secondo il principio che Foucault ha reso esplicito nei suoi testi(10).

Anche Brandi introducendo la sua teoria generale della critica ha creato un parallelismo invalicabile fra ciò che è la storia, attraverso metodologie e dogmi procedurali, e ciò che potrebbe essere la scienza della critica(11). Una falsa scienza, in ogni caso, perché sebbene voglia adottare una prassi teorica che prevede la genetica delle idee, come quelle dei fatti, non può mai avere la certezza di giungere all'origine e di conseguenza dovrà adottare sistemi e metodi che analizzino strutture e caratteri interni alle opere in analisi. Di fatto, una resa incondizionata al metodo; ma come sostiene Feyerabend nel suo Contro il metodo la percezione di eventi e di intuizioni non può essere organizzata metodologicamente attraverso un formulario che astrattamente definiamo scienza(12).

Proprio questa battaglia condotta dalla storia per riuscire ad organizzarsi all'interno del cospicuo e nobilitato novero di discipline scientifiche, in un'epoca che ha rispetto solo per il calcolo dimostrabile, ha fatto sì che l'opera critica finisse con l'esercitare un ruolo totalmente estraneo al sistema di cultura empirica e pragmatica del contemporaneo. All'epoca delle sperimentazioni avanguardiste, al di là delle singole cronache, dal caratteristico assunto mondano, la teoria critica si esprime in un continuum fra poetica letteraria e vincolo esperienziale, la sorgente incompresa della militanza critica.

Quando gli eventi del dadaismo diverranno luoghi di scontro fra testo e azione la figura dell'artista agitatore avrà riassorbito il compito del giudizio, sotto varie forme di proclama, di genesi, di ideazione progettuale e di cura, di forma organizzativa. La storia dell'arte rimane alla finestra, attenta a cadenzare le tempistiche prospettiche affinché un oggetto sia ricondotto all'interno di uno schematismo o di una logica, quello che l'arte non può essere nel suo proprio tempo. La frattura delle avanguardie, dal Futurismo al Suprematismo, dal Costruttivismo al Dadaismo, si autodescrive e si autocelebra napoleonicamente, assume i suoi princìpi proclamandosi autonoma nel fluire di una storia che gli storici non riconoscono più. Perduto il potere del giudizio, la storia dell'arte sembra dunque arenata nello sguardo sbilenco verso tutto ciò che potrebbe essere costruito attraverso il metodo d'analisi.

Nel contesto francese la frattura delineatasi fra argomentazione critica e relazione storica non è così vistosa come appare in altri luoghi. La critica e la militanza francese hanno mantenuto un rapporto storiografico molto intenso con la storia dell'arte, inoltre la stessa storia dell'arte francese ha sempre guardato con attenzione alla voce critica. Quando alla fine del secondo dopoguerra ci si accorse che i tempi erano davvero cambiati, che il Surrealismo era oramai un elemento della disciplina storica, sul campo erano rimasti due corpi distinti ma non contrapposti. Quello della storia e quello della critica che raccoglieva al suo interno l'idea della cura e dell'ideazione. Un parallelismo che divarica la distanza fra due ambiti che prima erano stati sostanzialmente un unicum e che le nuove avanguardie, come Tel Quel o il Gruppo del 63 tenteranno di riallacciare. Da una parte la storia, dall'altra la critica: la storia con il suo sguardo proteso ai fatti a cui il giudizio era estraneo, un giudizio nel suo immediato relativo, nel suo campo d'esercizio temporale. Dall'altra parte la critica, con la sua pretesa d'essere la testimonianza reale di una storia che presto sarebbe divenuta materiale di studio degli storici.

In Europa fra le due guerre crescono le tendenze socioantropologiche, in particolare grazie alla Scuola di Francoforte(13). Adorno, Horkheimer, infine Marcuse, saranno l'ineludibile voce di un discorso critico che non può essere obliterato dalla ragione storica per via di un'indimostrabile origine del giudizio. Conclude il pensiero del libero arbitrio della critica il celebre La Forma del Tempo di Kubler(14), che insieme all'Uomo ad una dimensione di Marcuse(15) è il testo maggiormente impegnativo ed autorevole che la critica possa agevolmente mostrare per validare un percorso di indagine sul significato delle scelte e sul loro valore.

L'ipermodernità in anni successivi ha mostrato un ulteriore volto, che in ambito contemporaneo si è espresso in un tempo delle scelte, piuttosto che delle riflessioni. Un passo successivo alla postmodernità di Guattari, Lyotard, Deleuze, e l'idea della critica si ritrova priva di parole, in un tempo liquido in cui le cose risultano indimostrabili per via di vacuità ed è proprio lì che Lyotard mostra l'idea immateriale (1985)(16), che è anche critica sistematica e preludio all'iperspecialismo. La critica tramutata in azionismo dimostra la sua precipuità di carattere curatoriale. La volontà di rinnovare la coesistenza dei ruoli, fra artista, curatore e critico, che attraverso il pragmatismo aveva dato origine al concettuale americano, si ritrova schiacciata dalla forza imprescindibile dei fatti, contro cui la storia non può che arrendersi. Sono storie di ieri che parlano ancora la nostra stessa lingua; l'enfatizzazione del mercato, il ruolo di gendarme del curatore, come azionista culturale, e il discredito verso la critica culminata nel terreo e lapidario What Happened to Art Criticism? di James Elkins (2003)(17), testo che sancisce la fine dell'auraticità del discorso critico e distingue linguaggio e azione, fra critica e cura, fra storia e contemporaneo.

Cosa rimane adesso di questo territorio disarticolato? La critica ha inglobato la cura aiutata fattivamente dalla stessa identità della ragione curatoriale in quanto selezione. Se l'azione curatoriale è senza parole critiche, sostiene però la storiografia, allora non è altro che se stessa, ovvero mozione di potenza palesata con sistemi anche non ortodossi. I grandi curatori, coloro che avevano creato l'idea che la critica potesse essere svolta attraverso azioni curatoriali, Szeemann, Hoet, sono deceduti, mentre i più giovani stentano a creare quell'aura che possa ricreare plauso. Alcuni come Obrist rivendicano la possibilità che l'opera curatoriale sia essenzialmente un discorso interpersonale, ma sulle metodologie di attribuzione del valore non è rintracciabile alcuna letteratura(18). Su tutto grava l'oscura accusa che l'arte contemporanea sia null'altro che un sistema, un sistema di mercato ad uso e consumo di una ristretta cerchia di fruitori speculatori. Qui, in questo paradossale luogo di potere, enfatizzato dai risultati ottenuti dalle grandi manifestazioni di potere, ma alla luce della povertà di seguito letterario della disciplina critica, si incunea la domanda crescente di restituire alla storia il privilegio di giudicare, il potere di scegliere e di palesare la sua supremazia nel sistema delle arti. Ma ciò, sfocia inesorabilmente in una lettura cristallizzata dal pregiudizio storico secondo cui al contemporaneo è data credibilità solo in funzione di una dimostrazione filologica attraverso metodi di lettura che sono esterni alle pratiche della critica d'arte.

La disarticolazione dei ruoli ha riabilitato l'idea che la storia dell'arte sia in qualche modo l'unica autorità di pensiero sull'arte, in quanto disciplina non inficiata dalle polemiche innescate dalla diaspora fra cura e critica. In realtà, come abbiamo visto, l'origine della ferita non è nella contrapposizione fra critica e cura, poiché la cura senza critica altro non è che un manifestare l'azionismo privo di significato. Non è un caso infatti che l'azione curatoriale quando diventa occasione di critica selettiva, ovvero manifesti le sue scelte anche silenziose ma con ragionevole razionalità di logica narrativa, viene definita cura critica. Significa, in altri termini, che l'azione di selezione che sgancia la critica dalla storia, attraverso le modulazioni del giudizio, viene raffinata nell'azione curatoriale ma non si esaurisce in questa. Che l'azione curatoriale della Documenta 13, 2012, di Carolyn Christov-Bakargiev sia stata un'operazione di sola pratica manageriale sarebbe un falso storico; si è trattato invece di un'opera di sofisticata indagine critica praticata con gli strumenti della selezione curatoriale(19). Tuttavia l'onda qualunquista e dissennata dei nostri tempi ha frammentato la consapevolezza di un sistema critico che invece di difendere se stesso, in quanto ragione logica di una coscienza contemporanea, ha preferito lasciarsi trasportare nella comoda agiatezza dell'evidente superiorità sistematica, attraverso la dimostrazione di un'azione curatoriale che è anche funzione diplomatica sulle identità culturali, ma soprattutto macchina di interessi, mercato economico, fucina di consenso.

Tuttavia, sebbene i risultati di questa schiacciante superiorità sistematica siano evidenti a tutti, e mai come nel nostro presente la cultura figurativa ha goduto di tanta pubblicità gratuita sui mezzi di comunicazione, la risposta istituzionale non si è fatta attendere molto. Nel nostro piccolo circondario, la battaglia per la supremazia culturale nel territorio del contemporaneo ha lasciato libero campo alla storia dell'arte e all'archeologia, le quali, animate da un proposito di vendetta hanno congeniato la grande resa dei conti, liquidando istituzionalmente la critica. Poiché il contesto del contemporaneo è senza valore dimostrabile, si è detto, o tutt'al più è un sistema di valore che risulta estraneo al sapere incasellato dai metodi della storia, allora sarà possibile, doveroso, occuparne scientificamente il suo posto. Il risultato di questa manovra scellerata ha dato vita, grazie ad alcune riforme istituzionali di discutibile rilevanza culturale, alla grande rimozione della critica dal novero delle risorse accademiche. Sparita come disciplina dalle università, ridotta all'osso nelle accademie, è bastato poi indire un megaconcorso su basi falsamente scientifiche per decapitare in tutto e per tutto la ricerca e la speculazione critica, in altre parole il contemporaneo.

Il mega concorsone abilitante che ha falsamente ricostruito il paesaggio sul contemporaneo istituzionale a discapito degli esponenti più rilevanti della critica d'arte e della ricerca è stato oggetto di ricorsi conclusi con condanne ai danni del Ministero, colpevole di aver violato la dignità di un intero settore della ricerca incaricando commissioni di giudizio che nella fattispecie non possedevano i requisiti minimi per poter emettere alcun giudizio. Resta il fatto che la storia dell'arte contemporanea ha perduto adesso i suoi esponenti più noti, è stata riorganizzata come appendice monca della modernità, che nel linguaggio accademico ha una estensione che va dal Rinascimento sino al Neoclassicismo. Ridotta a soprammobile del moderno l'arte contemporanea, privata di critica, è adesso valore accessorio: la sua storia sembrerebbe terminare coi fragori del Futurismo. La critica intenta ad occuparsi di avanguardia, di postmoderno, ipermodernità e dei suoi contenuti, è ritenuta superflua, non inerente, com'è superfluo tutto il contemporaneo, salvo rimanere materiale d'occhiuto studio fra cent'anni, per futura incerta memoria.

Anche nel sistema culturale vale la regola che nulla è però da considerarsi definitivo. La dimostrazione di quanto ciò sia vero la si può fare considerando un periodo che tutti conoscono bene, gli anni della Scuola di Francoforte(20). Che questo momento sia stato fondamentale per la comprensione dell'opera, dalla riproducibilità tecnica di Benjamin alla Dialettica negativa di Adorno, dalla Dialettica dell'illuminismo di Horkheimer e Adorno sino al Marcuse dell'Uomo ad una dimensione, il contesto critico generato dall'Istituto per la Ricerca Sociale è stato determinante per la critica dell'opera d'arte contemporanea negli anni fra le due guerre. E lo capirono bene persino i nazisti i quali piuttosto che considerare l'opera contemporanea come un qualsiasi altro oggetto lo pensarono sintomatico esponendolo al ludibrio pubblico in Entartete Kunst. Oggi una schiera di dotti, immersi nella banalità del male burocratico,  non riconosce alcun valore all'opera e alla critica del contemporaneo; costoro, armati di format schematici, e di valutazioni fondate su codici e parametri che nulla possono comprendere della realtà umanistica, depennano cancellandola la storia del contemporaneo, la critica e l'arte, animati dal buon senso acefalo che li rende immuni ad ogni «critica». Il tutto con la spiacevole consapevolezza di vedere che la gestione tecnoburocratica della ricerca ha trovato nella storia dell'arte un grande alleato contro il contemporaneo. A dirla con Kundera la storia dell'arte si trastulla nel fare «il sorridente alleato dei propri nemici». Insieme al presente la storia dell'arte uccide anche quel recente passato della storia critica che non ha mai del tutto compreso. Tuttavia come sopra accennato, niente è da considerarsi acquisisto. La critica, si dice, ha esaurito il suo ruolo, e di conseguenza aggiungerei, l'arte ha finito di significare alcunché. Ne consegue che un'arte senza valore, coadiuvata da una critica senza spessore lasci libero campo ad una storia prospetticamente interessata solo ad un relativo presente e tutt'al più ritorta verso le sicure fonti del passato. La cancellazione come arma di dominio culturale, tuttavia, è strategia che ricorda altri fondamentalismi tuttora in divenire, con cui forse tra non molto tempo anche la storia dei vincenti, strateghi del dominio culturale nell'arte, dovrà fare i conti.

Note Bibliografiche

1 - Gilles Lipovetsky, avec Sébastian Charles, Les Temps Hypermodernes, Grasset, Paris, 2004.

2 - Gianni Carlo Sciolla, La critica d'arte del Novecento, Utet, Torino 1995. Roberto Salvini (a cura di), La critica d'arte della pura visibilità e del formalismo, Garzanti, Milano 1977.

3 - Charles Baudelaire, Scritti sull'arte, Einaudi, Torino, 1992, pag. 228.

4 - Cesare Brandi, Teoria generale della critica, a cura di Massimo Carboni, Editori Riuniti, Roma 1998. Storia e Critica pagg. 5-19, in cui Brandi chiarifica la differenza fra storia e critica.

5 - Jean Paulhan,  F.F. ou le critique,  éditions Claire Paulhan, Paris, 1998 (N.R.F., Gallimard, Paris, 1945). Si veda anche Joan Ugersma Halperin, Felix Fénèon, Art et Anarchie Dans le Paris Fin de Siècle, N.R.F. Galimard, Paris, 1991 (ed. or. Yale University Press, 1988)

6 - Lionello Venturi, Storia della Critica d'Arte, Einaudi, Torino, 1964 (History of Art Criticism, New York, 1936).

7 - Julius Schlosser Magnino, La letteratura artistica, ed. it. La Nuova Italia, Firenze, 1977 (ed. or. 1924, Wien).

8 - Marc Bloch, Apologia della Storia o mestiere di storico, Einaudi, Torino, 1998 (Ed. or. Apologie pour l'histoire ou Métier d'Historien, Armand Colin Editeur, Paris, 1993). L'opera incompiuta, pubblicata postuma è la somma di un vasto repertorio di appunti già organizzati in capitoli. Nella sua stesura iniziale l'opera sembrava avere una impostazione molto più dogmatica sui rapporti fra metodo storico e critica, ma alcuni appunti e determinati incisi nel testo, probabilmente risalenti agli anni 1940-44, sono stati interpretati come una possibile apertura al sistema di giudizio e sono probabilmente dovuti al fatto di essere stati scritti sotto l'impulso dell'emergenza creatasi in seguito alle leggi razziali. Jean Le Goff nella prefazione chiarisce la distanza che il metodo storico deve avere da quello critico, soprattutto in funzione di una storia scientificamente alla pari con le altre discipline.

9 - Martin Heidegger, Sentieri Interrotti, Ed. It. La Nuova Italia, Firenze, 1968 (ed. or. Klostermann, Frankfurt am Main, 1950). In particolare il saggio «L'origine dell'opera d'arte» è stato uno dei più citati nei testi di critica d'arte postmoderna.

10 - Michel Foucault, L’archéologie du savoir, Gallimard, Paris, 1969 (trad. it.  L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano, 1971).

11 - Cesare Brandi, op. cit.

12 - Paul K. Feyerabend, Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza, Ed. It. Feltrinelli, Milano, 1979 (Ed. or. Against Method. Outline of an Anarchistic Theory of Knowledge, NBL, 1975).

13 - Rolf Wiggershaus, La Scuola di Francoforte. Storia, Sviluppo poetico, Significato politico, ed. it. Bollati Boringhieri, Torino, 1992 (ed. or. Carl Hanser Verlag, München, Wien, 1986).

14 - George Kubler, La Forma del Tempo, ed. it. Einaudi, Torino, 1976 (ed. or. Yale University Press, 1972).

15 - Herbert Marcuse, L'uomo ad una dimensione, ed. it. Einaudi, Torino 1967 (ed. or. One Dimension Man, Beacon Press, Boston, MA, 1964).

16 - Les Immateriaux, 1985, Centro Georges Pompidou, Parigi, a cura di Jean–Francois Lyotard, Thierry Capu.

17 - James Elkins, What Happened to Art Criticism?, Prickly Paradigm, Chicago Ill, 2003. Il testo in forma di pamphlet apre uno squarcio critico sulle modalità di realizzazione e di affermazione del contemporaneo criticismo. Viene seguito dal più voluminoso e dettagliato James Elkins e Michael Newman, The State of Art Criticism, Routledge, New York, London, 2008.

18 - Hans Ulrich Obrist, A Brief History of Curating, JRP Ringier, Zurich, 2011.

19 - Il catalogo in tre volumi di Documenta 13 spiega il significato complesso di una mostra realizzata con criteri di cura critica. Cfr. The Book of Books, Documenta 13, a cura di Carolyn Christof-Bakargiev, Hatje Cantz Verlag, 2012.

20 - Rolf Wiggershaus, op. cit.