Simona Antonacci

«Non voglio ridurmi ad essere un pezzo da museo come i Pink Floyd […] Non mi piace proprio l’idea in sé: trasformare dei percorsi artistici in oggetti. È sempre il solito discorso dell’industria discografica..»(1).
Questa dichiarazione del cantante dei Sex Pistols Johnny Rotten, in arte Johnny Lydon(2),, sagace e un po’ provocatoria, offre lo spunto per alcune riflessioni intorno alla mostra promossa l’anno scorso dal Victoria & Albert Museum e che da poco ha inaugurato il suo tour internazionale con una tappa romana. The Pink Floyd Exhibition: Their Mortal Remains, ospitata al MACRO fino al primo luglio, si presenta (fin dal prezzo del biglietto d’ingresso) come una grande mostra-evento, un progetto di sapore “blockbuster” il cui successo di pubblico è fuori discussione, trattandosi di uno dei gruppi musicali pop più amati di sempre. Ma se il legame di questo progetto espositivo con l’industria discografica non può essere sottovalutato, come lascia intendere Lydon, ci sono altri “nodi” più squisitamente scientifici, che la sua dichiarazione prontamente coglie.
L’inserimento di un’esperienza musicale come quella dei Pink Floyd in quel sistema interpretante che è la mostra - che in forza del suo potere legittima e attribuisce significato e riconoscimento storico, politico, estetico all’oggetto legittimato ad abitarlo - è un’operazione critica significativa. È una sfida su cui la museologia del contemporaneo si è già lungamente interrogata(3) e che in questo caso è amplificata dalla complessità dell’oggetto, un’espressione di patrimonio immateriale più che mai “living”. Non solo living, ma main stream.
Prima di entrare in mostra, dunque, gli interrogativi sono molti: in che modo il dispositivo allestivo può restituire l’attitudine creativa onirica e l’esperienza totalizzante offerta dalla musica dei Pink Floyd? Come può la narrazione espositiva dar conto della rivoluzionaria abilità della band inglese nel trasferire una travolgente sperimentazione sonora su un piano che è quello della cultura di massa (non va dimenticato che The Dark Side of The Moon è tra gli album più venduti di sempre..)?
E ancora: come si iscrive nella storia dei Pink Floyd stessi l’ingresso nel museo?
Parafrasando la dichiarazione di Lydon: stare nel museo fa vivere o morire?
The Pink Floyd Exhibition. Their mortal remains sembra voler rispondere a questa domanda fin dal titolo, che gioca ironicamente tra i concetti di reliquia, immortalità, celebrazione.
La mostra si apre con un percorso scuro, labirintico, avvolgente, che lancia il visitatore nella tana del bianconiglio, favorendo la perdita dell’orientamento e di qualsiasi contatto con l’architettura di Odile Decq. Negata è anche l’esperienza interattiva con gli altri visitatori: le cuffie che si attivano nei pressi dei video alternando parole e musica, isolano ogni visitatore dall’altro.
Immagini, suoni, voci fluiscono senza soluzione di continuità, ancorandosi ora ai numerosi documenti (materiali spuri, appunti, disegni) tratti dagli archivi, ora alle fotografie di backstage, ora ai video di concerti e alle vetrine con gli strumenti usati nei concerti (sintetizzatori, chitarre, batterie) questi, sì, nobilitati come preziose reliquie a soddisfare la fame voyeuristica degli appassionati.
La mostra ha un impianto cronologico strutturato per sezioni che, attraverso la scansione degli album pubblicati tra il 1965 e il 2014, ripercorre le principali fasi della storia della band: quella psichedelica della fine degli anni Sessanta, illuminata dalla visione creativa di Syd Barrett, la sperimentazione d’avanguardia dei Settanta, il ritorno sinfonico negli Ottanta e oltre.
La mostra si apre con l’albero genealogico della “famiglia” Pink Floyd, a testimoniare quanto l’identità del gruppo sia fluida e variabile nel tempo, soggetta com’è ai cambiamenti della formazione. La nascita ufficiale risale al 1965 dall’incontro di tre studenti di architettura del Regent Street Politechnic (Roger Waters al basso, Richard Wright alle tastiere e Nick Mason alla batteria) e uno studente di pittura originario di Cambridge, quel Syd Barrett (chitarra) che diverrà, nella breve ma rivoluzionaria parabola con i Pink Floyd, il deus ex machina del gruppo.
Nell’“era” Barrett (1967-68) che segna l’apice della fase psichedelica, la ricerca musicale sembra concepita come un percorso totalizzante, parte di un viaggio sperimentale per accedere a nuovi stati mentali e alterare la sfera percettiva e sensoriale. Porta d’accesso al subconscio e alla spiritualità, l’esperienza musicale è dilatata dall’uso di sostanze come l’LSD e dalla ricerca estetica visionaria di Barrett: è lui l’artefice dell’atmosfera onirica del primo album The piper at the gates of dawn , l’unico pensato e realizzato completamente sotto la sua direzione.
Nel giro di  pochi mesi i light-concert al club UFO, in cui musica e arti visive si integrano senza soluzione di continuità, catalizzano l’attenzione sui Pink Floyd che nell’arco di un paio di anni salgono alla ribalta della scena musicale londinese, proprio in un momento cruciale per l’industria discografica, in cui il mercato si amplia accogliendo un nuovo pubblico di consumatori tra le generazioni più giovani.
Intorno al 1968 i comportamenti stravaganti e imprevedibili del “Crazy Diamond”(4) Barrett  portano al suo allontanamento dal gruppo. Sarà David Gilmour a sostituirlo. Con lui l’esperienza musicale dei Pink Floyd vira sul versante della musica concreta e d’avanguardia, come testimoniano gli esperimenti sonori, la dilatazione dei tempi e le percussioni del secondo album, the Sourceful Of secret, del 1968, che apre il decennio della “formazione storica” (Gilmour - Mason - Waters - Wright).  Il periodo tra il 1968 a il 1979 segna il passaggio dal rock psichedelico di Barrett a quello “progressive” e sinfonico di Atom Heart Mother e del capolavoro Meddle.
L’uscita nel 1973 di The Dark Side of The Moon, attraversato da temi come l’incomunicabilità e la follia, segna l’apice dell’ascesa del gruppo ed è ampiamente ricostruito in mostra attraverso video, materiali d’archivio, interviste e qualche colpo ad effetto, come la ricostruzione in 3D del prisma protagonista di una delle più celebri copertine della storia della musica contemporanea.
Realizzata dallo studio Hipgnosis, fondato da Storm Elvin Thorgerson alla fine degli anni Sessanta, la copertina di The Dark Side of The Moon avvia un lungo e proficuo sodalizio artistico. Del resto il rapporto di mutua ibridazione con la creazione artistica è uno degli aspetti caratterizzanti la storia dei Pink Floyd e ben documentato in mostra. Oltre alla collaborazione con Hypnosis - che  realizzerà anche la cover di un altro caposaldo floydiano, Wish you were here - il gruppo britannico instaura un dialogo serrato con il mondo dell’arte e del cinema. La potenza visionaria dei Pink Floyd è colta tra gli altri da Michelangelo Antonioni che ne utilizza un brano nel finale del suo secondo film diretto in lingua inglese, Zabriskie Point: Come In #51, Your Time Is Up enfatizza la potenza immaginifica della celebre scena dell’esplosione di oggetti ambientata nella Valle della Morte.
Arte, spettacolo dal vivo e performance convivono, poi, nello straordinario concerto-evento senza pubblico a Pompei, un inedito della mostra romana. Il film, diretto da Adrian Maben, può essere considerato una sorta di summa della poetica visiva floydinana: le riprese dal vivo dei musicisti che suonano in un anfiteatro deserto sono sovrapposte ad alcuni capolavori di arte antica e moderna e alle sequenze girate da Maben a Pompei e Pozzuoli, in un dialogo serrato tra arti visive e sperimentazione sonora.
Il ruolo centrale che assume lo spettacolo dal vivo nella “poetica” dei Pink Floyd è celebrato in mostra dai mastodontici pupazzi progettati per il tour del 1980-81 The Wall. L’album, a firma Roger Waters, rimanda ad alcuni temi della biografia del musicista, il cui padre muore durante lo sbarco di Anzio nel 1944. L’alienazione dell’infanzia, l’isolamento, l’incomunicabilità sono personificati da figure mastodontiche come quelle della madre e dell’insegnante, che galleggiano sul palco come burattini. Il “collasso” del muro che divide lo spazio del palco dalla platea, assume alla fine del concerto un significato catartico e di condivisione con il pubblico.
Nel corso degli anni Ottanta il gruppo si sfalda. L’inizio del decennio è dominato da Waters, che abbandona il gruppo nel 1985 con un corredo di cause legali. Prenderà le redini Gilmour, che con The Division Bell nel 1994 rinnova la leggenda dei Pink Floyd. I grandi concerti-evento - come quello trasmesso in diretta mondiale il 15 luglio 1989, in cui la band suona su una piattaforma in mezzo alla laguna di Venezia - scandiscono gli ultimi decenni di vita del gruppo, fino ad oggi.
E proprio con un “surrogato” di esperienza live si chiude la mostra: in uno spazio audiovisivo immersivo viene riproposta la performance del gruppo al Live 8 del 2005, concerto nel quale dopo ventiquattro anni dalla formazione storica Gilmour, Masen, Waters e Wright si ritrovano insieme per suonare Comfortably Numb.
Dal “labirinto di Alice” alla monumentalità di The Wall, il percorso della mostra sembra restituire metaforicamente l’itinerario “identitario” dei Pink Floyd: dalla complessa esperienza psichedelica e visionaria dell’era Barrett a quella più scenografica e stupefacente degli anni Ottanta, attraverso un percorso che reinterpreta mediante il dispositivo allestitivo proprio la cifra espressiva dei Pink Floyd, che hanno fatto della “mise en scène”  e dello “show” il proprio core business.
La mostra tratta la vicenda culturale della band inglese come un’esperienza non solo musicale, ma creativa a tutto tondo, in quanto espressione di un progetto artistico complesso nel quale suono, immagine, performance, dialogano. Un viaggio avvolgente e “competente” che dà conto non soltanto della loro centralità nella storia della musica pop, ma anche di ciò che anima più profondamente la loro identità (nonostante cambiamenti di rotta e una storia tutt’altro che omogenea): dar forma, corpo, anima, vita, suono, immagine ad una “visione”.
La mostra appare dunque come un’ulteriore tappa (probabilmente non l’ultima) di un progetto ancora vitale che nel corso degli ultimi cinque decenni ha avuto il merito – o il demerito? - di trasferire sul piano della cultura popolare e del grande pubblico un’esperienza musicale sperimentale, visionaria, onirica. E ci è riuscita, con innegabile successo.
Aprile 2018

1) Si confronti l’intervista su:  http://www.repubblica.it/spettacoli/musica/2018/01/29/news/john_lydon_non_finiro_in_un_museo_come_i_pink_floyd_-187510000/?ref=RHPPBT-VZ-I0-C4-P13-S1.4-T1
2) Definizione di museo, Statuto dell’ICOM (Articolo 2. Definizioni), adottato dalla XVI Assemblea generale (L’Aja, Paesi Bassi, 5 settembre 1989) e modificato dalla XVIII (Stavanger, Norvegia, 7 luglio 1995)e dalla XX Assemblea generale (Barcellona, Spagna, 6 luglio 2001).
3) Cfr. E. Hooper-Greenhill, Nuovi valori, nuove voci, nuove narrative: l’evoluzione dei modelli comunicativi nei musei d’arte in Il museo relazionale. Riflessioni ed esperienze europee, a cura di Simona Bodo, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 2000; E. Hooper-Greenhill, Museums and Shaping of Knowledge, Routledge, London-New York 1992, trad. it. a cura di G. Bernardi, I musei e la formazione del sapere, Il Saggiatore, Milano 2005; D. Jalla, Il museo contemporaneo. Introduzione al nuovo sistema museale italiano, UTET, Torino 2003; C. Ribaldi (a cura di), Il nuovo museo, Il Saggiatore, Milano 2005.
4) Shine On You Crazy Diamond è il titolo di una canzone dedicata proprio a Barrett nel 1974, qualche anno dopo il suo allontanamento dal gruppo.