Intorno al progetto Viva Arte Viva della 57.Biennale di Venezia

Patrizia Mania

Il progetto espositivo della 57.Biennale Internazionale d’arte di Venezia appare imbastito come fosse un inno celebrativo all’arte in sé. Ne dà una prima conferma il titolo “jouissant”  Viva Arte Viva scelto dalla curatrice Christine Macel e che racchiude tutto il pensiero, o il non pensiero, intorno al ruolo del quale in questo nostro mondo l’arte e gli artisti sarebbero investiti nell’idea che ne rappresentino «l’ultimo baluardo, un giardino da coltivare (…) un’alternativa all’individualismo e all’indifferenza»(1). Difficilmente si può eccepire che i concetti chiave interpellati a sostegno della tematica non le si dimostrino congeniali e ne è riprova l’otium invocato come condizione ottimale della libertà dell’arte contrapposto al negotium – cui però per onestà si sottolinea come gli artisti stessi non si sottraggano- e che costituisce l’incipit di un racconto articolato in nove padiglioni intenzionati a succedersi «in maniera fluida come i capitoli di un libro»(2). E, se dunque da questa angolatura l’arte e gli artisti – con­ ­ ­ ­ ­ ­ ­ ­  il carico di emozioni che ogni lavoro porta con sé, nel rapporto che istituiscono con il pianeta che abitiamo, oltre che con le comunità, con il pubblico, con lo spiritualismo, con le memorie e le tradizioni, con la scienza e con l’infinito- sarebbero da intendersi come il deterrente critico del nostro mondo, quella risorsa irrinunciabile che andrebbe valorizzata e alla quale dovremmo riferirci; ciò che in questa congettura appare scarno è l’apparato critico propriamente messo in atto per tentare di percorrerne le pieghe più eloquenti.
Non è infatti l’impianto curatoriale e critico ad affiancare la densità delle opere migliori, piuttosto sono alcune di queste ultime a riscattarsi autonomamente, a prescindere dalla cornice che le ospita. Basti a dare conferma di questa congenita debolezza una rapida scorsa sui titoli dei Padiglioni: “Padiglione degli Artisti e dei Libri”; “Padiglione delle Gioie e delle Paure”; “Padiglione dello Spazio Comune”; “Padiglione della Terra”; “Padiglione delle Tradizioni”; “Padiglione degli Sciamani”; “Padiglione Dionisiaco”; “Padiglione dei colori”; “Padiglione del Tempo e dell’Infinito”, ciascuno dei quali rinviabile evidentemente ad ulteriori altri e tuttavia nella genericità degli enunciati non adeguatamente circostanziato. Nel magma proposto è forse ragionevole addentrarsi prelevando a nostra volta alcuni caratteri significativamente emergenti del percorso e allinearli in parallelo eludendo le insidie, sia teoriche che pratiche, di altrimenti troppo fragili categorie. Quel che qui si propone è dunque di scoprire sottotraccia alle indicazioni dichiarate gli assi nascosti della mostra. Quelli che, nonostante le premesse, ne costituiscono il portato più significativo e ne riabilitano componenti altrimenti opache.
Un primo rilevante e innegabile aspetto rintracciabile un po’ ovunque nella sequenza delle opere esposte si riconosce nella reiterata attenzione alle materie dell’arte. Materie organiche, ma anche e soprattutto materie legate alla tradizione e ai saperi artigianali. Le prime declinate con l’accortezza di ritenerle parti integranti del mondo naturale prese in prestito dall’arte per istruire quasi per loro tramite un’inchiesta sulle condizioni sociali, economiche, politiche della realtà globalizzata del nostro presente. In tal senso è eloquente all’Arsenale l’ espositore/parete abitato da scarpe di Michael Blazy (3). Queste ultime si presentano letteralmente invase da colture di piante vive che vi sono state innestate e che crescono affidate nel loro ciclo vitale all’ineluttabile destino di crescere, ammuffire, marcire, trasformarsi in qualcosa d’altro che sfugge al totale controllo. Ora, questa deperibilità e gli inarrestabili mutamenti del materiale organico ibridato nelle icone post industriali delle scarpe da ginnastica  ( peraltro usate, conformate dunque anch’esse da una vita di utilizzo ) genera un inevitabile cortocircuito tra la cultura materiale consumistica,  l’uso che ne fa l’uomo, e il suo rimodularsi nei processi naturali delle piante che le hanno colonizzate.
Sempre all’Arsenale un altro lavoro di Blazy (4) puntualizza questa riflessione: qui una risma di fogli stampati con immagini tratte da instagram è sottoposta all’azione di una goccia d’acqua che cade ad intervalli regolari dal soffitto e che la trasforma in un paesaggio inaspettato, via via reso irriconoscibile dai processi di corrosione indotti. “Ciò che è vivo” nella sua opera è dunque il processo naturale che nel mischiare artificio e natura, prodotti di consumo con cicli biologici naturali, fa crescere ibridi che replicano le modalità, solo apparentemente contrapposte e antagoniste, di natura e cultura. Come un giardiniere - un paragone nel quale Blazy peraltro si riconosce(5)- l’artista veglia sulle opere che progetta, se ne prende cura osservandone i cambiamenti ambientali - climatici che avvengono nel tempo e assecondandone sviluppi non programmabili.
La natura è anche la protagonista del lavoro di Julian Charrière che nel suo Futur Fossil Spaces (6) dà vita ad uno scenario futuribile utilizzando una materia non inedita ma inconsueta nei linguaggi dell’arte come il sale.  In questo caso è il sale proveniente da Salar de Uyuni che in aggiunta ad una soluzione di litio-sale è il materiale con cui l’artista costruisce un’installazione in bilico tra resti archeologici e immaginari paesaggi futuribili. Questo quel che ci appare. Quel di cui ci parla è invece la sostenibilità dell’ecosistema divorato dallo sfruttamento intensivo delle risorse energetiche naturali. Perché costruire dei parallelepipedi con queste materie istruendoci sulla provenienza e mostrandocene il dissolvimento è certamente un modo per metterci in guardia, dicendoci di come il litio sale -risorsa millenaria paragonabile al petrolio, non a caso chiamato anche il “petrolio bianco”- sia irreversibilmente destinato a dissolversi a causa dell’intervento smodato dell’uomo.
Il ciclo naturale nelle sue dinamiche anche fisiche è  invece il soggetto dei lavori di Edith Dekyndt che con One Thousand and One Nights(7) dà vita con un colpo di bacchetta magica ad una straordinaria visione decantando con un bagliore luminoso le particelle di polvere depositate in un rettangolo che periodicamente viene ricomposto grazie all’intervento di un addetto che con una scopa provvede a prendersene cura conferendovi e stabilizzando una forma che altrimenti verrebbe in poco tempo dissolta. Determinandone la forma e accompagnandone la sopravvivenza la strada scelta sembra quella quasi di un accanimento terapeutico.
Se i casi descritti ci consentono di parlare delle materie organiche e dello straordinario universo fisico che normalmente trascuriamo e del quale alcuni artisti mostrano di prendersi cura facendo della manutenzione del lavoro il loro stesso scopo, a costituire la parte più consistente del percorso espositivo sono però una moltitudine di lavori il cui carattere immediatamente percepibile è piuttosto quello di riesumare materiali e tecniche prelevate o ispirate ai saperi artigianali. In particolare, sono il filo, la tessitura, il telaio, le tecniche di lavorazione e di decorazione a configurarsi come orientamento dominante, a tratti ipertrofico. È il caso della prorompente installazione Scalata al di là dei terreni cromatici/ Escalade Beyond Chromatic Lands di Sheila Hicks(8), dove una montagna di balle di filo coloratissime, raggomitolate e costipate, crea un ambiente in cui ci si sente sottoposti dopo un primo impatto di immediato estatico stupore ad un’opprimente minaccia.
Della maestria della creazione con i fili rende eloquentemente conto il percorso di opere di Maria Lai che, nel quadro d’insieme del costrutto espositivo, risulta un irrinunciabile e doveroso omaggio. Le sono accanto numerosi altri lavori che ne declinano senso e possibilità in tantissime diverse direzioni. Per esempio nell’operato di Teresa Lanceta che si appropria sia di manufatti che di orditi preesistenti, inducendo in primo luogo una riflessione sull’anonimato delle comunità artigianali, tradizionalmente depositarie di questi saperi e trasmettitrici di racconti filati sul solco sia della perseveranza ai modelli tramandatisi, che dell’ innovatività creativa del singolo, quasi a volerne in tal modo riscattare l’identità negata. Cynthia Gutiérrez, ci parla invece dell’aporia tra l’ipotesi di una celebrazione monumentale e la sua disfatta. Le undici sculture del suo Cántico del descenso (9) constano di un basamento in pietra sul quale è montato un pezzo di tessuto filato. Ora la pietra che funge da base proviene da cave messicane ed è quella tradizionalmente utilizzata per costruire architetture monumentali e i tessuti di lana provengono prevalentemente dalla provincia messicana di Oaxaca dove esistono ancora maestranze femminili che impiegano una tecnica di tessitura di tradizione pre-ispanica. Sembrerebbe quasi il riscatto di un’identità territoriale se non fosse che il monumento è sostanzialmente anti-monumentale non essendo le pezze di lana issate come bandiere a celebrare le proprie radici linguistiche ma piuttosto afflosciate sulle loro basi a sottolinearne la condizione di disabilità.
Mescolando immagini, tessuti, colori, fogge e costumi di epoche e di luoghi diversi e forme, con le sue sculture realizzate con plastilina modellata su armature di acciaio Francis Upritchard ci invita a rivisitare il passato per immaginare un nuovo presente dove lo scambio, il dialogo, le opportunità di poter essere parrebbero infinite.
In Do you realise there is a rainbow even if it’s night? (10 )Petrit Halilaj -ritenuto il più meritevole artista tra i giovani presenti in mostra (11)- coniuga con una leggiadria incomparabile la memoria dei saperi artigianali della propria radice territoriale –i tappeti- con un immaginario personalissimo che lo porta a realizzare dei grandi insetti farfalle che si depositano negli spazi dell’Arsenale con un senso ludico e al contempo drammatico racchiuso nella metafora della metamorfosi della farfalla stessa sempre inafferrabile, costantemente in procinto di divenire qualcos’altro da sé. Halilaj, infaticabile sperimentatore è anche l’autore di una singolare carta da parati che impiega i testi di un abecedario quasi a voler fornire una pedagogica introduzione ai contesti di memoria identitaria della sua lingua (il kosovaro) (12).
La carta da parati, baluardo di un modernismo a rischio di estinzione, è anche il supporto nonché il tema del lavoro All of a tremble (Encounter I) di Anri Sala(13) in cui viene posta in dialogo con un dispositivo a carillon. Il suono di quest’ultimo nel punto di congiunzione tra i due motivi decorativi traduce la componente sonoro plastica dell’immagine. Qui come altrove, il recupero, il mantenimento in vita, la cura della memoria è il sottofondo tematico degli intenti.
Nel caso del lavoro Food for Thought “Amma Baad” di Maha Malluh (14) ci troviamo al cospetto di una critica alle accelerazioni tecnologiche del nostro tempo che travolge in maniera quasi compulsiva il vecchio per far posto al nuovo. La pratica del bricolage cui ricorre l’artista accumulando per raccolte cromatiche scarti di oggetti tecnologici di epoca recente ma ormai obsoleti e pertanto destinati all’eliminazione le consente con grande efficacia formale di riconvertire il riciclo di materiali tecnologici in pattern decorativi. Si tratta di un mosaico di audiocassette collocate dentro a delle teglie per cuocere il pane disposte a loro volta le une accanto alle altre. Ora i cromatismi di queste audiocassette nelle quali sono state originariamente registrate delle istruzioni indirizzate dai religiosi alle donne sul come devono comportarsi, delineano delle parole arabe che alludono a concetti chiave del suo mondo sostanziando dunque il lavoro di significati plurimi che investono una stratigrafia di questioni che spazia dalla vertigine tecnologica alla cultura religiosa e a quella decorativa e della calligrafia .
David Medalla Mondrian Fan Club, il cui nome corrisponde ad un artista (David Medalla) più un altro artista (Adam Nankervis) più un collettivo da loro fondato (Mondrian Fan Club) dà vita ad una performance aperta al pubblico della Biennale che concorre alla realizzazione dell’opera A Stitch In Time (15)cucendo letteralmente su un’amaca frammenti mnemonici del proprio transitare –biglietti da visita, biglietti di viaggio, cartoline, scontrini…-. La genesi del lavoro affonda la propria origine nel 1968 quando ad accendere l’idea è stata una circostanza casuale, un incontro fortuito di corrispondenze di segni, perpetrato poi nel tempo con dispositivi di cooptazione e condivisione.
Questa partecipazione attiva, prassi frequente nelle pratiche artistiche contemporanee, è chiamata da Christine Macel lo “spazio comune”. In mostra è peraltro presente un pioniere della partecipazione comunitaria al farsi dell’opera come Rasheed Araeen (16 ) che, come di consueto, propone un’idea che sarà poi la comunità a creare e anche Olafur Eliasson (curiosamente presente nel padiglione dell’arte e degli artisti e non in quello dello spazio comune) che con Green light-An artistic workshop(17) propone una piattaforma artistica in cui invita i visitatori ad assemblare e a fabbricare dei moduli di lampade concepiti dall’artista e messi a disposizione, e Lee Mingwei con The Mending Project (18) dove invita il pubblico a portare qualche abito strappato o scucito perché lui stesso o i suoi assistenti possano provvedere al rammendo e nel mentre instaurare una relazione prendendosi cura di qualcosa che ci è appartenuto e che diviene oggetto di relazione e condivisione proprio attraverso il filo del rammendo che ricompone il capo ma anche e soprattutto la relazione umana.
Si tratta di lavori esemplari cui se ne potrebbero aggiungere ancora altri e che proprio sul filo della cura dei rapporti cercati e rinnovati - con la natura, con la memoria, con la critica al nostro tempo- delineano il senso più profondo di una rassegna che deve proprio ad un buon numero di opere e alla loro capacità di farsi protagoniste, ben oltre gli intenti curatoriali dichiarati, l’opportunità di riabilitare un costrutto di altrimenti inane sterilità.

Luglio 2017

1)Christine Macel, “Viva Arte Viva”, in, catalogo 57.Biennale Internazionale d’Arte, Venezia, Marsilio, 2017, p.16.

2)Ibidem.
3)Michel Blazy, Collection de Chaussures, 2015/2017. Scarpe, piante, terra, acqua, tecnica mista, 375x510x80 cm..
4) Michel Blazy, Acqua Alta, 2017. Fotocopie a colori da Instagram, acqua distillata, 50 x 150x 150 cm..
5)Cfr. Michel Blazy, Falling Garden – Michel Blazy: Kunstraum Dornbirn, Verlag für Moderne Kunst, Nürnberg, 2007, p.15.
6) Julian Charriére, Futur Fossil Spaces, 2017. Sale proveniente da Salar,de Uyuni, soluzione di litio sale in contenitori di acrilico, dimensioni variabili.
7) Edith Dekyndt, One Thousand and One Nights, 2016. Tappeto di polvere illuminato da faretto300 x 200 x 2cm..
8) Sheila Hicks, Scalata al di là dei terreni cromatici/ Escalade Beyond Chromatic Lands, 2016/2017. Tecnica mista, fibre naturali e sintetiche, stoffa, ardesia, bambù, tessuto Sumbrella, 600 x 1600 x 400 cm..
9) Cynthia Gutiérrez, Cántico del descenso I-XI, 2014. Undici sculture, pietra cantera, tessuto, legno, dimensioni variabili.
10) Petrit Halilaj, Do you realise there is a rainbow even if it’s night?, 2017. Tappeti kilim/Dyshek/Jan provenienti dal Kosovo, poliestere, flokati, filo di ciniglia, acciaio inossidabile, ottone, dimensioni variabili.
11) Menzione speciale della giuria della 57.Biennale di Venezia.
12) Petrit Halilaj, ABETARE, 2017. Installazione di carta da parati, dimensioni variabili.
13) Anri Sala, All of a tremble (Encounter I), 2016. Rullo per stampa di carte da parati vintage modificato, pettine in acciaio, disegno a matita su carta da parati, motore elettrico e software di telecomando customizzato.
14) Maha Malluh, Food for Thought “Amma Baad”, 2016. Audiocassette, trenta teglie di legno per cuocere il pane, 272,5 x 636 x 8,5 cm..
15) David Medalla Mondrian Fan Club, A Stitch In Time, 1968-2017. Tessuto, rocchetti di filo di cotone, aghi, pannelli, 75x150x790 cm..
16) Rasheed Araeen, Zero to Infinity in Venice, 2016-2017. Legno dipinto, dimensioni variabili.
17) Olafur Eliasson, Green light – An artistic workshop, 2017. Progetto partecipativo realizzato in collaborazione con Thyssen-Bornemisza Art Contemporary.
18)Lee Mingwei, The Mending Project, 2009- 2017. Installazione interattiva con tecnica mista, tavolo, sedie, filo, articoli tessili.