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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Domenico Scudero

Ci sono pochi eventi artistici nel territorio italiano che riescono a coinvolgere in modo così tanto pervasivo il sistema dell'arte come la Biennale di Venezia. Tuttavia è sempre difficile poter riassumere il significato di una rassegna tanto ampia, inedita in alcuni suoi organismi. Possiamo dire che l'ampiezza della Biennale, la sua vastità anche geografica coniugata con la difficoltà di movimento implicito nella città di Venezia fa sì che raramente possa azzardarsi uno sguardo complesso e autorevole sul significato e l'interpretazione di una edizione. Se sino a pochi anni fa era relativamente più semplice organizzare un discorso critico che riunisse e sintetizzasse il significato di una singola edizione oggi questo non può esser fatto se non a discapito di una eccessiva personalizzazione interpretativa. Si può sostenere però che se giudicare in generale la Biennale di Venezia attraverso le sue opere esposte non è più fattibile è però possibile analizzare e giudicare il contenitore.
Mi riferisco in prima analisi al sistema prettamente aziendale e mercificatorio cui è “finalmente” giunta la Biennale Arte, forse la madre delle varie edizioni, dal Cinema all'Architettura, che ha creato problemi maggiori nella trasformazione da contenitore di cultura a strumento di turismo culturale. Così ad esempio l'inaugurazione della Biennale non è più il luogo di incontri internazionali, com'era anni addietro, occasione per rivedere amici e colleghi di tutto il mondo richiamati fra i padiglioni anche per la possibilità di incontri offerti da questa evento. L'inaugurazione della Biennale diventa invece una voce di bilancio che per tendere al segno positivo ha bisogno di coinvolgere quante più persone possibili, dando addirittura la possibilità a quanti non possono ambire ad un invito, o ad un accredito, di pagare un biglietto per entrare nel vivo dell'arte. Il biglietto molto salato lo pagano tutti, anche chi arriva con invito e accredito stampa, solo lo si fa in modo sottile, sotto forma di abbonamento traghetto, tasse di soggiorno, cibo scadente, stanze formato loculo mortuario pagate a peso d'oro e anche acquistare il fantomatico catalogo. Non sono lontani gli anni in cui era dato gratuitamente agli addetti ai lavori, in particolare a coloro i quali ne scrivevano, era una speciale pubblicità; poi le cose sono cambiate. Non è la Biennale che ha bisogno di pubblicità, quantomeno non quella della critica sia pure paludata in riviste a grande diffusione, ammesso che ne esistano ancora, ma è la rivista, il critico ancorché giornalista ad aver bisogno della Biennale per poter esistere. La Biennale segue un sistema di appartenenza ad un mondo che è tutto fuorché quello dell'arte, sia pure imbalsamando opere, artisti, chiacchiere sull'arte. Il suo fine non è più quello di descrivere orizzonti della cultura, relazionarsi con le nazioni, le società, ma di essere piuttosto un'azienda come altre, una specie di ditta import export che bada soltanto al coefficiente di resa del pubblico, e questo pubblico è dato anche da chi espone, e da chi riesce a coinvolgere. Ne è conferma la penosa realizzazione del catalogo, sempre più simile ad elenco istupidito e per nulla consultabile, almeno non con i parametri di una ricerca seria ed affidabile. Evidentemente realizzato con lo stile approssimativo in voga nelle grandi case editoriali egemoni dell'editoria.
Non si tratta di moralisticheggiare sul tempo presente; che faccia orrore, dal terrorismo fanatico alle tenebre di odio scaturite per raggiungere successo e benessere parassitario, lo sappiamo bene. Lo sappiamo anche quando le cose ci vanno bene, siamo, se solo lontanamente intelligenti, informati sulla vacuità di ciò che prima era considerato permanente, il lavoro, lo status sociale, il valore della cultura, in questo siamo infatti tutti precari. Lo sono anche le multinazionali della new economy, nate in un soffio e destinate a crollare altrettanto velocemente soppiantate da innovazioni sempre più accentratrici. La Biennale seguendo la lezione è così riuscita finalmente a divenire un ente finanziario autonomo, pilotato nelle sue scelte soprattutto al fine di produrre incassi, generare profitti, usando oggetti e azioni con palese disinvoltura. Potrebbe rendersi necessaria la riflessione se continuare ad insistere, oppure lasciare che il carrozzone vada via per la sua strada, in attesa di venir bocciato come fosse una grande nave in viaggio dentro le fragili strutture architettoniche della città lagunare.
In anni e anni di biennali non si era mai visto un afflusso così generoso e una risposta così arcigna, spesso maleducatamente contrastante con i consueti costumi signorili propri della popolazione veneziana. Ma così va il mondo. Paradossale se si pensa, che la più grande istituzione culturale italiana, con vocazione internazionale, sia diventata provocatoriamente una fucina del peggiore antiumanesimo, come fosse una società di telefonia coi suoi giochetti furbi per spillarti soldi in modo nascosto. Ma è questa l'identità di una struttura che mira a diventare una fabbrica di soldi giocando sui contenuti e sul lavoro dell'arte. Farne spettacolo per i media, gestire la fame di ambizioni dando a ciascuno una fetta di cibo culturale precotto e ben confezionato. Non è lecito parlare qui di fallimento della cultura artistica ma basti ricordare gli artisti schierati contro la Biennale nel 1969 e riportare lo sguardo sull'oggi dove la guerrilla performance di MOTA ha tutto il sapore di voler correre dietro le istituzioni, anche se queste sono diventate peggiori del peggiore degli incubi sognati. Così, a me pare, il soggetto curatoriale di questa Biennale fallisce, anzi non lo si riconosce proprio. Diventa un calenbour per gli addetti ai lavori e poi miscelato per dar fiato alle peggiori visioni di un'epoca. Lo si vede anche dall'effetto, spesso schizofrenico, imposto dal grandioso carrozzone alle singole opere, molte delle quali meritevoli. Così l'installazione di Rasheed Araeen svanisce nel giro di un mese, sopraffatta dalla potentissima valanga di visitatori eruttata dai traghetti traboccanti che viaggiano col rischio di finire in fondo alla laguna. Così le aromatiche spezie e le friabili legnose fragranze di Ernesto Neto svaniscono per lasciare il posto a un persistente cattivo odore originato dalle bollenti sneakers che i visitatori sono invitati a togliersi.
Allora meglio osservare alcuni luoghi, padiglioni o aree, che segnalano la possibile quanto improbabile salvezza. In primo luogo lo stupendo Giardino delle Vergini. Appendice poco frequentata per via della sua collocazione limite all'Arsenale, peraltro non all'interno degli spazi propri della Biennale; sono molti i visitatori che non vi accedono, sia perché bisogna ricontrollare il pass e anche per la sua distanza, posto com'è dopo l'ultimo edificio condiviso da Italia e Cina. Si tratta comunque di un luogo ameno, raccolto, dove le opere hanno un respiro maggiore e vengono collocate in angusti locali dismessi, vecchi magazzini o ampi spazi esterni protetti da alte siepi. Qui è stato allestito uno dei lavori più apprezzati, Composition for a Public Park di Hassan Khan, artista egiziano formatosi in Gran Bretagna, e che ha ricevuto il premio della critica per questa edizione. Composition for a Public Park (2013 -2017) consiste nell'istallazione sonora di una composizione multitraccia ad alta densità che si integra nel contesto ambientale trasformandolo in una esperienza di musica ambiente. Poco distante, racchiuso in bel cortile abbandonato il gigantesco Shipyard, 2017 di Michael Beutler. Un enorme lavoro che simula un cantiere navale d'altri tempi con vasto uso di macchinari rudimentali ma efficaci, definendo lo spazio produttivo come luogo stesso del divertimento e trasformando l'edificio cantiere in una sorta di giocattolo galleggiante che sulle prime produce una sensazione di sbandamento percettivo per via della sua instabilità.
Di grande impatto anche il Padiglione Italia, finalmente. La presenza di Roberto Cuoghi e di Giorgio Andreotta Calò ha fatto la differenza, una volta tanto. Certo è anche un padiglione che fa pensare alle reali condizioni della cultura italiana, immerso com'è nel sentimento di un disfacimento assoluto ma contegnoso allo stesso tempo. Roberto Cuoghi in Imitazione di Cristo, 2017, descrive la consunzione apocalittica del segno della storia attraverso la produzione in forma laboratoriale del corpo di Cristo realizzato con tecniche seriali. I macchinari, gli essiccatoi, gli espositori, ci riportano ai vari stadi della consunzione del corpo, e già un paio di settimane dopo l'inaugurazione molte delle sculture in materiali sintetici erano calcolatamente aggredite da un disfacimento per certi versi impressionante. Bella anche l'azione vista durante il vernissage, nella quale il processo di produzione delle forme era realizzato dal vivo da alcuni giovani artisti.
Ancora più complessa per la sua messa in opera Senza Titolo (La fine del mondo) (2017) di Giorgio Andreotta Calò. In questa occasione l'artista ha trasformato una grande parte del padiglione oscurandolo e costruendo un soppalco in robusti tubi Innocenti da impalcatura al fine di sostenere un'enorme vasca rialzata colma fino al suo orlo di acqua immobile. Completa l'installazione un grande specchio opposto all'unico punto di osservazione, una specie di tribuna da cui osservare la scena. Sulle prime, in particolare nei giorni dell'inaugurazione, l'oscurità quasi totale, il divieto di fotografare con flash, dava un senso di smarrimento, poiché era davvero difficile comprendere cosa si stesse guardando. Una volta abituati all'oscurità la forma dell'opera iniziava a diventare più chiara. Ci si trovava così immersi in una complicata amplificazione dello spazio di cui difficilmente si riusciva a comprendere l'identità. Molto grave nel suo senso descrittivo, complesso nella realizzazione, il lavoro di Andreotta Calò traspone in tridimensione il sogno paranoico di Piranesi, la vertigine della profondità e ne riporta le istanze in questi nostri anni di disperata crisi e antagonismo della cultura con la realtà. Bisogna anche dire che a causa di alcuni piccoli incidenti determinati dall'oscurità del luogo l'artista è stato successivamente obbligato a aumentare il coefficiente luminoso della sala, rendendo l'opera più visibile e meno pericolosa, meno enigmatica. La sua potenza sentimentale rimane tuttavia ancora e ne è testimonianza anche la grande cura dedicatagli dai custodi.
Il Padiglione della Nuova Zelanda presenta il virtuoso Pursuit of Venus (Infected), 2015 – 2017, di Lisa Reihana. Si tratta di un enorme schermo per proiezione digitale su cui sono narrate alcune scene incentrate su eventi determinati dall'incontro fra coloni britannici e indigeni. La scena è costruita con una tecnica di sovrapposizione che mixa alcune scene recitate e vari sonori relativi su fondali disegnati con la tecnica dei cartoni animati. Il filmato produce una vasto paesaggio in cui storia e mito, arte e natura si fondono in un video di 32 min. costruito da sei tracce proiettive sincronizzate e uniformi che creano una sorta di papiro digitale lungo una ventina di metri su cui scorrono orizzontalmente le storie di questo incontro/scontro.
Di grande interesse anche il padiglione della Georgia con la partecipazione di Vajiko Chachkhiani che presenta Living Dog Among Dead Lions, 2017, un'autentica casa georgiana in legno, smontata e ricostruita integralmente all'interno del padiglione, corredata da mobilia, oggetti, come fosse stata appena abitata e abbandonata. Dal tetto sentiamo scrosciare una pioggia che batte incessante su tutta la superficie interna della casa; la possiamo osservare soltanto spingendo lo sguardo dalle alte finestre da cui si vede l'interno destinato a distruggersi in questi pochi mesi per via della pioggia. Un lavoro che ci parla dei cambiamenti politici e istituzionali, dell'irrisolvibile complessità del nostro presente e del pessimistico presentimento del domani.
In qualche modo vicino, anche se con mezzi e strumenti diversi è anche l'allestimento di Cevdet Erek, Çın, 2017, proposto dal padiglione della Turchia. In questo caso il progetto viene descritto dall'artista in modo molto formalista e istituzionale, tuttavia recandoci nella Sala d'armi dell'Arsenale, dove ha sede il padiglione, non ci si può non accorgere che la costruzione si conclude in una complessa ambientazione che simula una gabbia d'accusa in tribunale, un allestimento che fa ripensare sicuramente alla recente deriva autoritaria intrapresa dalla Turchia di Erdogan e ai rapporti difficili determinati da questa situazione politica sia con la variegata galassia della protesta giovanile interna e anche con la più ampia gestione dei rapporti politici con Occidente e Oriente.
Ugualmente politica l'installazione Lost and Found (2017) di Sislej Xhafa per il padiglione del Kosovo. Una semplicissima casetta costruita con pallet riciclati funge da ufficio identificabile da un vecchio telefono nero con componitore girevole. Anche se siamo tratti in inganno non si tratta di uno scalcinato ufficio di ricerca d'oggetti smarriti simile a quelli in uso in aeroporto, qui si cedono e ricevono informazioni sulle persone scomparse durante gli anni delle guerre che hanno portato alla dissoluzione della Yugoslavia e alla formazione del Kosovo. Una sorta di elenco telefonico appeso ad una parete elenca infatti tutti i nomi e le date delle persone sparite. Un lavoro duro, severo, che, comunque, non si discosta di molto dalla plumbea rilevanza di altri qui sopra descritti.
Bisogna dire che presso i Giardini le cose cambiano, ci sono, come nel caso del Padiglione della Germania, Leone d'Oro 2017, per la partecipazione di Anne Imhof, atmosfere non certo rilassate, ma anche diverse. La possente visione performativa di Anne Imhof abita l'intero maestoso padiglione della Germania, all'interno del quale si succedono varie azioni interpretate da attori sempre sul tema della costrizione, della separazione, del pericolo. Bisogna anche dire che evidentemente la paura e l'angoscia pagano in termini di successo; l'altro padiglione premiato, quello Brasiliano, ha avuto la sua menzione speciale proprio per via del senso di angoscia che riesce a provocare al pubblico. Analisi, a mio avviso in qualche modo discutibile. A far sorridere, dopo il pieno di un'angosciante sequenza performativa di Anne Imhof, ci pensa un altro artista di lingua tedesca, il ben noto Irwin Wurm per il Padiglione Austria che costruisce un terrazzo su un camion rivoltato in verticale e da cui poter vedere l'orizzonte mediterraneo, lavoro gonfio di quella nostalgia che pervade spesso gli austriaci a Venezia ricordandola come sbocco naturale verso il mare; ma Wurm ci presenta anche una varietà di nuove One Minute Sculpture che lo hanno reso “celebre”. Sono oggetti reali concepiti come piedistalli su cui occasionali visitatori possono sperimentare di divenire per un minuto delle sculture viventi. E la cosa, bisogna dire, riesce ad appassionare e divertire un gran numero di visitatori.
I padiglioni anglofoni, quello americano e quello britannico, per una volta hanno fallito la loro missione d'essere centrali; di loro si diceva che rispecchiassero l'effetto Brexit per la Gran Bretagna e l'effetto Trump per gli USA. In realtà a ben vedere le opere di Bradford presso il Padiglione degli Stati Uniti hanno qualcosa di raziocinante; sono realizzate con materiali di scarto, così come il cortile d'ingresso punteggiato da rifiuti volutamente abbandonati lì; un'arte che invade lo spazio con la sua presenza, che costringe quasi ad inchinarsi, e che poi diventa una specie di calandra calata dal soffitto, come una caduta di catrame per introdurre alle piacevoli pitture realizzate con foglietti di carta riciclati incollati su tela e dipinti. Conclude il percorso un video irrisolvibile, in cui si vede un vicino di casa di Bradford che sembra allontanarsi in una scena fissa, dalla colorazione sbiadita, e che attraverso il loop del montaggio sembra non svanire mai.
Il Padiglione Coreano, proprio nascosto fra quello giapponese ed il tedesco, si fa notare per una gigantesca insegna al neon simile a quelle che possiamo trovare nei quartieri a luci rosse delle grandi città. Ma qui al posto del sesso si mostra l'arte, un'arte svelata. Così l'artista più arguto Cody Choi, in Episteme Sabotage, Shit (2017) fa opera di svelamento dei meccanismi del sistema dell'arte, in modo palese, per l'appunto pornografico.
Ma più di ogni altro si fa notare il Padiglione della Danimarca. L'insieme strutturale è stato smontato da Kirstine Roepstorff, che propone Influenza: Theatre of Glowing Darkness, 2017. Fra le rimanenti strutture portanti l'artista ha creato un lussureggiante giardino corredato da stuoie appese, quasi a coniugare il dualismo contrapposto di natura e cultura. Interessante anche il padiglione francese con la proposta di Xavier Veilhan il quale allestisce Studio Venezia, un mega studio musicale performativo corredato da prestigiosi strumenti musicali e dentro il quale musicisti sperimentali sono invitati a realizzare spericolati eventi.
Una menzione a fatta anche al Padiglione dell'Australia allestito da Tracey Moffat con fotografie e video sul tema della storia e della finzione, con un effetto museale, quasi una tradizione per questo padiglione e al padiglione del Sudafrica con l'impegnata partecipazione di Candice Breitz.
Vista dai padiglioni nazionali è questa una bella edizione formalista. Ci sono opere e allestimenti che ci inducono a pensare e che si lasciano ammirare. Come sempre ci sono padiglioni particolarmente interessanti e altri meno, ma ancora una volta è evidente la cura disposta dagli uffici culturali nel voler affrontare questa rassegna internazionale. Ma questa biennale, sia nell'aspetto curatoriale, o anche nell'identità dei padiglioni non ci parla del nostro presente. Non ci pone soluzioni e domande in questa complessità del mondo dominato dai media, non ci propone idee che ci aiutino a comprendere, non sollecita alcun senso critico su cosa potrà diventare la nostra vita di artisti, intellettuali, quando la concentrazione di potere e denaro sarà nella mani di una decina di persone iper-pluri-miliardarie e nessuna soluzione si propone a questo circolo vizioso. Il potere della rete e le urgenti tematiche ad essa collegate rimangono sullo sfondo come un leviatano in attesa di compiere il suo mostruoso destino. Noi intanto continuiamo a trastullarci con le forme “interessanti” del nostro tempo.

Luglio 2017