Natalia Gozzano

«Quello che mi resta dei tuoi giorni …» sono le parole di una canzone di Claudio Lolli, nell’album Aspettando Godot, uscito nel 1972. Il mio ricordo però risale al 1977, l’anno in cui esplose il movimento studentesco, “il movimento del ‘77”, a cui oggi è dedicata la bella mostra al Museo di Roma in Trastevere con fotografie di Tano D’Amico e disegni di Pablo Echaurren (a cura di Gabriele Agostini, fino al 14 gennaio 2018). Sono andata a vedere la mostra e queste righe che scrivo non sono una recensione. Sono il mio film, della mostra e delle emozioni che mi ha suscitato, e delle tracce di memoria che mi ha evocato. All’uscita della mostra ho chiesto al curatore Gabriele Agostini e a Tano D’Amico perché non avessero accompagnato le fotografie con didascalie esplicative (alla base della foto c’è solo la data e il luogo). Mi hanno risposto che è stata una scelta motivata dal taglio emozionale che hanno voluto dare alla mostra, privilegiandolo rispetto al taglio storico, a cui comunque lo spettatore può accedere tramite un computer a disposizione del pubblico, in cui è stata scansionata l’intera annata del 1977 del quotidiano Lotta continua. «Non ho voluto mostrare “la storia” – mi ha detto Tano D’Amico – ho voluto offrire il mio punto di vista. E’ come vedere un film: non ci sono didascalie in un film, lo si guarda e ognuno lo fa proprio».
Capisco. La mostra è divisa in sezioni, ognuna incentrata su un tema: i volti, le feste, le donne, il rapporto uomo-donna, le manifestazioni e le proteste, la morte e il sangue, la creatività urbana, le lettere, la poesia visiva. Temi attraverso i quali ritroviamo le visioni di D’Amico e i disegni di Echaurren fatti nel 1977. Fatti nel 1977, fatti del 1977. Fatti. Storie. Vediamo, ora, quei disegni e quelle fotografie ma la storia che raccontano, i volti, le parole, le fantasie che li percorrono sono oscuri reperti di un passato che non è passato perché è stato troppo presto oscurato e rimosso. Rimozione è un termine che ricorre spesso nelle testimonianze di alcuni letterati, storici, fotografi, riportate in mostra. E rimozione è la sensazione che ben conosce chiunque, credo, abbia vissuto quel periodo. Per caso ho incontrato una giovane fotografa alla mostra e lei mi chiedeva se anche io fossi stata presente alle manifestazioni delle foto di D’Amico: quel 2 febbraio all’Università, quel 12 marzo a piazza Esedra, quel 12 maggio a piazza Navona e poi alla manifestazione contro il nucleare a Montalto di Castro… Sì, c’ero anch’io. La mia amica si stupisce: sì, avevo solo 14 anni ma c’ero. C’ero e ho un ricordo fortissimo non solo di quegli eventi ma anche delle situazioni, del pensiero, delle discussioni, dell’atmosfera, delle pratiche, degli slogans di quel 1977. Lei non capisce: cosa significano le parole della lettera di una compagna pubblicate in un libro e riprodotte in mostra: la difficoltà, le contraddizioni dell’“essere donna”, nei confronti delle altre generazioni, ma soprattutto nei confronti degli uomini. Mi tornano in mente i collettivi femministi, non solo gli slogans che vengono solitamente ricordati (“io sono mia”) ma quelle sensazioni un po’ inebrianti e un po’ confuse di ricerca di un’identità femminile alternativa agli stereotipi piccolo borghesi, alla sessualità “maschilista” (o forse semplicemente maschile). Una ricerca costante di un modo di essere nuovo, forte, indipendente eppure (solo più tardi ho potuto rendermene conto) pesantemente condizionato da un dettame ideologico altrettanto limitante. Ma non è questo il punto. Non voglio fare un’analisi storica o politica. Come dicevo, voglio raccontare il mio film, stimolato dalla mostra. Le conoscevo già tutte le fotografie di Tano D’Amico esposte. Alcuni di quei ragazzi e ragazze fotografate li conoscevo personalmente. Molte di quelle foto hanno avuto la forza di diventare l’immagine stessa del movimento, e del 1977. E rivederle adesso rende ancora più chiaro il perché: perché ancora adesso quelle immagini sono vive. Non sono storia, non sono racconto. Il mondo che vediamo in quegli occhi di ragazza, negli atteggiamenti fieri ed energici delle donne che difendono le case occupate (fig. 1), nei cordoni dei cortei, non è un mondo che è morto perché ha esaurito il suo percorso vitale, è un mondo che è stato spento. E’ stato oscurato, è stato rimosso. Come se non fosse mai esistito. Qualche ricordo altrimenti ne sarebbe rimasto, sarebbe passato di bocca in bocca, di padre in figlio. Non sarebbe sembrato così alieno, alla mia giovane amica, così come alla visitatrice che davanti alla foto datata 12 maggio mi chiede: - Mi scusi, lei sa cosa successe il 12 maggio? Non sto parlando solo di memoria di fatti, ovviamente. Quella si può ricostruire grazie all’annata di Lotta continua scansionata, se si vuole. Sto parlando della difficoltà di lanciare, sulla spinta di questa mostra, lo sguardo e il ricordo oltre il baratro che ci allontana da quel 1977. Baratro che è stato scavato, con una determinazione e un’oscura sotterranea violenza, subito dopo quell’anno. E nel quale sono state buttate le energie creative degli “indiani metropolitani”, così come quella fantasia visionaria e sarcastica che vediamo espressa nei disegni di Pablo Echaurren. Dichiarato è il rimando alla non-logica del Dada e del Surrealismo, e forte è stato anche l’influsso dell’esperienza dei Situazionisti, degli Happenings, del teatro di strada, nello stimolare un pensiero e modalità performative opposte al discorso razionale. Tutto questo trapela dalle foto e dai disegni esposti al Museo di Roma in Trastevere. La matita ironica e delicata di Echaurren compone immagini che si richiamano alle tavole parolibere futuriste, all’anomatopeia, aggiornandola alle parole-simbolo dell’ideologia, del potere e del contropotere. Difficile concepire oggi un vademecum che circolava in quel periodo: Contro la famiglia. Manuale di autodifesa e lotta per i minorenni, edito nel 1975 da Stampa Alternativa, esempio significativo di quella “controcultura” che così fortemente ha caratterizzato quel periodo. Tra i tanti temi trattati, fra cui la sessualità e la contraccezione, si potevano trovare informazioni e consigli utili ai ragazzi che avessero voluto scappare di casa… Oggi che, se non partono per l’estero, non scappano nemmeno dalla loro camera, se non spinti dai genitori. Ma al di là di facili differenziazioni tra Ieri e Oggi, tanto consuete quanto inveterate (addirittura al XVII secolo data un testo che ironizzava sulla retorica degli antichi sempre migliori dei moderni, l’Hoggidì overo Il mondo non peggiore ne più calamitoso del passato, di Secondo Lancellotti, In Venetia: appresso Giovan Guerigli, 1623) è indubbio che nelle opere di Echaurren si condensano alcuni tratti peculiari della cultura giovanile del 1977: la leggerezza negli accostamenti illogici tra la retorica dei discorsi e degli slogans e le immagini fumettistiche degli indiani (figg. 2-3), delle armi, di oggetti accostati in maniera apparentemente incongrua. L’estro grafico e concettuale di queste composizioni, così come dei collage, esprime la stessa energia vitale dei ragazzi fotografati da Tano D’Amico, sia quando li coglie distesi a leggere o a mangiare una mela, sia quando scappano dai lacrimogeni (fig. 4) o marciano nei cortei.
A corredo testuale e informativo, in mostra sono riportati anche alcuni brani scritti da Gabriele Agostini, Claudia Salaris, Diego Mormorio, Raffaella Perna, Kevin Repp e Gianfranco Sanguinetti e un testo di D’Amico sulla rimozione del 1977;  in una saletta è proiettato il documentario Indiani metropolitani. Ironia e creatività nel movimento del ’77, prodotto dalla Fondazione Echaurren Salaris, con testi di Claudia Salaris e regia di Antonella Sgambati. Ma uno dei testi esposti, la lettera di una compagna, è parte integrante della mostra, risale cioè al 1977, e ne abbiamo già fatto cenno. E’ una testimonianza importante di quel periodo, quando l’uso della parola prevaleva sull’immagine. La facilità e la economicità del mezzo fotografico digitale attuale è ben lontana dall’impegno che richiedeva fotografare con la macchina analogica: ogni scatto era prezioso. Conservo la mia agenda di quell’anno: è fitta di scrittura, non di immagini, come invece, plausibilmente, raccontano il loro presente gli adolescenti odierni. E quindi l’uso della parola, e in particolare il suo uso politico-creativo-personale, era parte integrante della controcultura che circolava nel movimento. La lettera in mostra pone l’accento su un elemento delicato di tutto il fenomeno, riassunto nell’affermazione elaborata dal pensiero femminista “il personale è politico”. Parlare di se’, dei propri rapporti con l’altro sesso, veniva portato in una dimensione pubblica cioè politica, sottolineando in tal modo come i comportamenti sociali e dunque anche interpersonali fossero espressione di una determinata cultura e come tali andassero letti ed elaborati. 
I testi in catalogo esplorano la densità rizomatica del movimento del 1977, portando alla luce le componenti politiche, culturali, sociali, linguistiche che, proprie della struttura del rizoma, si intrecciano e si sviluppano non in maniera gerarchica e verticale bensì in modo condiviso, coesistente, orizzontale. La ricchezza di questo movimento viene così evidenziata rilevando non solo come e quanto le energie creative che lo caratterizzarono subirono negli anni successivi un processo di rimozione e condanna –riducendolo alla reiterata definizione di “anni di piombo” – ma riconoscendo quanto di quella carica ironica, anticonformista, libera (le radio libere, le fanzine, i fogli ciclostilati composti di testi e disegni) abbia poi alimentato, fra le altre cose, il nuovo fumetto sperimentale, la grafica, il design. Sotto l’aspetto sociale, la pratica di condivisione degli spazi e di gestione di un modo di essere alternativo ai paradigmi precostituiti e imposti pone i centri sociali odierni in linea di continuità con quelli del ’77.
La densità dialettica, politica e artistica del movimento del 1977 si manifesta con nitore e bellezza nelle fotografie di D’Amico e nelle tavole di Echaurren. I testi esposti e quelli nel catalogo ci fanno capire (e spero lo facciano capire anche a chi quel movimento non lo ha vissuto) la complessità e il senso di un agire collettivo che, nonostante la cupa rimozione di cui è stato vittima, ha detto e continua ad avere molte cose da dirci.

[Ottobre 2017]