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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Anselm Kiefer, Mircea Cantor e la mostra Beirut. Home of Neighbors

Patrizia Mania
 
Oggi come ieri, le rovine continuano ad occupare un posto di primo piano nella nomenclatura dei temi maggiormente considerati dall’arte. All’interesse per le rovine antiche segno di una decadenza evocata con afflato nostalgico si è andata accostando nel tempo l’attrazione per i segni del declino contemporaneo. Ciò che sembra differenziare il rinnovato interesse per il tema delle rovine è l’originalità di alcuni aspetti che lo discostano nettamente dalla precedente tradizione. Appare infatti evidente come siano andate progressivamente affievolendosi alcune sue prerogative: alla quasi esclusiva fonte delle vestigia antiche si è venuta affiancando e in certi casi a sostituirsi la riflessione sulle rovine più recenti. Ai cambiamenti subiti dal paesaggio nel corso del tempo, sfondo delle testimonianze frammentate del passato, hanno visto sommarsi o subentrare le frantumazioni del presente, spesso peraltro difficilmente astraibili dal preesistente.
Nel suo pamphlet sulle rovine Marc Augé ha in qualche modo evocato l’ “aura” delle rovine spiegando come, quasi inesorabilmente, attraverso il mestiere dell’antropologo le rovine gli siano quasi precipitate addosso e per tale strada gli abbiano fatto incontrare l’archeologia e pur non potendosi spingere a definirsi archeologo si sia trovato nella necessità di interrogarle facendone stimolo di invenzione(1). Una necessità che secondo Augé sarebbe da ritenersi per tutti incalzante soprattutto quando ci si misura con il paesaggio. “Il paesaggio delle rovine, che non riproduce integralmente alcun passato e allude intellettualmente a una molteplicità di passati, in qualche modo doppiamente metonimico, offre allo sguardo e alla coscienza la duplice prova di una funzionalità perduta e di un’attualità massiccia, ma gratuita. Conferisce alla natura un segno temporale e la natura, a sua volta, finisce col destoricizzarlo traendolo verso l’atemporale” (2).Una sorta di “tempo puro” estraniato dall’oggi e che ci porterebbe piuttosto alla necessità di “reimparare a sentire il tempo per riprendere coscienza della storia”(3) e in tal senso si verrebbe ad assecondare quella che lui delinea come la “vocazione pedagogica delle rovine”(4). Seguendo il suo pensiero, dunque, questa sorta di “atemporalità” ci consentirebbe di guardare alle rovine attribuendovi il senso di una condizione di perenne scivolamento verso la formazione testimoniale della nostra coscienza del mondo. Nella memoria iconica delle rovine contemporanee un ruolo imprescindibile alla sua conservazione è stato svolto dalla documentazione fotografica che, in particolare, nel restituire la testimonianza delle macerie delle guerre e delle catastrofi naturali ha delineato la nascita di una nuova forma di “paesaggio con rovine”. Diversamente dalla suggestione esercitata dai paesaggi con rovine antiche, le fotografie hanno di fatto rappresentato la prova perpetuante l’istante di ciò che è stato. Nello specifico dei disastri, il documento visivo della ferita inferta al paesaggio. Non le ha accompagnate però nessuna aspirazione alla “durata” del paesaggio immortalato, nessun desiderio di mantenere lo status quo e men che meno di salvaguardare quella condizione come un bene tra i beni. Gli stessi reportages su quegli eventi disastrosi che di volta in volta hanno compromesso il paesaggio riducendolo a cumuli di macerie riconoscono nella rovina una condizione di parentesi temporanea, un passaggio transitorio, in qualche modo la prova testimoniale, presupponendo una successiva, auspicabilmente rapida, rimozione dei detriti e ricostruzione. Di quei paesaggi fissano dunque uno stato momentaneo di frantumazione e perdita del preesistente. La dimensione della transitorietà è una condizione non trascurabile dal momento che per quel che attiene la ricerca artistica contemporanea si presenta come un dato irrinunciabile.
Proprio nei confronti della fotografia l’interesse attuale per le rovine mostra un debito particolare. A partire da questa considerazione, un primo spunto di analisi del tema può ragionevolmente rinviare agli scatti che hanno immortalato i resti degli edifici delle città demolite dai bombardamenti della seconda guerra mondiale. Immagini la cui tragicità è innegabilmente accresciuta dallo stridente accostamento dei detriti a ciò che invece si è salvato. Si pensi, come esempio tra i tanti, a quella fotografia di un autore rimasto anonimo che nel febbraio del 1946 congela l’istante in cui in una Dresda ancora sfigurata dalla furia bellica un tram si ferma nell’attraversarla (Fig.1). Questa immagine è e resterà la riprova di quanto avvenuto. Spostandoci all’immagine della catastrofe naturale possiamo, anche qui sorteggiando tra gli innumerevoli esempi, riferirci efficacemente ad uno degli scatti con cui Leonardo Mistretta immortalò le macerie di Gibellina poco dopo la terribile scossa del gennaio del 1968 (Fig.2). Entrambe le immagini traslitterano eventi catastrofici in documenti e né nell’uno né nell’altro disastro si è ipotizzato di conservare gli accumuli di ruderi che li descrivono. Dresda è stata ricostruita ricalcando per quanto è stato possibile il passato e Gibellina è stata interamente ricostruita più a valle. Non c’è dubbio alcuno dunque che le fotografie delle rovine della contemporaneità abbiano acquisito nel tempo lo statuto di memento mori del presente sviluppando un potenziale seduttivo capace di competere e sovrapporsi a quello, viceversa consolidato, per i paesaggi di rovine antiche. Su questo scarto si è progressivamente sviluppato un interesse per l’immagine residuale della distruzione del presente che ha mostrato di esercitare un’attrazione irrinunciabile per molti artisti ponendosi come materia tematica dalle molteplici sfaccettature. Rispetto al sentimento di nostalgia della perdita di qualcosa di grandioso peculiare allo sguardo sul passato, gli orizzonti affacciatisi hanno spinto piuttosto ad interrogarsi sui momenti critici del presente e quindi soprattutto a concentrarsi su quelle zone del mondo maggiormente colpite da disastri bellici o naturali. In ultima analisi, ha portato a considerare la fragilità dei paesaggi, chiamandoli virtualmente in causa tutti, dal momento che a priori nessun luogo può ritenersi escluso dalla possibilità che una catastrofe vi si abbatta e che la solidità e la funzionalità di nessuno spazio possa di conseguenza ritenersi immune al declino. Una minaccia che porta con sè la consapevolezza di una comune caducità che, accorciando e appianando distanze e differenze, evoca l’imprevedibilità del destino. Cambiando prospettiva e passando dalla fotografia al monumento, dunque ad una forma che aspira alla durata, non si può almeno non accennare al fatto che proprio a proposito di Gibellina un grande artista come Alberto Burri sia sceso in campo per fare in modo che di quella preesistenza si conservasse la memoria progettando e riuscendo poi con grandi fatiche a realizzare il Grande Cretto che ne ha seppellito i resti. Il suo immenso sudario di cemento è stato posto lì, nell’esatta porzione di spazio un tempo occupata dalla città devastata, in modo che ne potesse riprodurre e monumentalizzare il tracciato urbano. Burri ha dato forma alle rovine compattandole in quello che si può ritenere il più esteso e certamente suggestivo dei monumenti alla memoria. L’impronta monumentale delle rovine seppellite dal Cretto di Burri si configura in questa prospettiva come un’impresa titanica tesa a celare agli occhi l’immagine del disastro paesistico. Seppellendo le rovine Burri ha realizzato un’opera emblematica della sottrazione allo sguardo della memoria dei relitti contenuta nel monumento. Negli ultimi anni, l’idea della tumulazione delle rovine ha fatto viceversa spazio, in funzione anche di contrapposizione, a quella della loro ostentazione. Nel tentativo di tracciare un percorso di ricognizione storica, uno degli artisti a cui necessariamente occorre fare riferimento è Anselm Kiefer. A partire dagli anni ‘70 Kiefer ha infatti inteso trasformare in relitto quasi ogni soggetto avvicinato. L’artista stesso ha affermato “Io adoro le rovine: quando ci si trova davanti alle macerie significa che si è arrivati a un nuovo inizio”(5) . Potremmo di conseguenza affermare che questa sua insistita “apologia delle rovine”(6) sia volta a coagulare oggetti, immagini e materia in funzione catartica. Tra le innumerevoli opere di Kiefer che chiamano in causa la rovina è emblematica l’installazione permanente presso l’Hangar Bicocca di Milano dei Sette Palazzi Celesti (7) dove la complessa articolazione di accumulo di macerie contemporanee riconfigura anche sul piano del simbolismo un potenziale di emancipazione dalla condizione stessa di rovina (Fig.3). Il titolo fa riferimento ai Palazzi descritti nell’antico trattato ebraico Sefer Hechalot – il libro dei Palazzi/Santuari- risalente al IV-V secolo d.C. , nel quale si narra il viatico di iniziazione spirituale per avvicinarsi a Dio. Ognuna delle sette torri (dal peso di 90 tonnellate ciascuna e dall’altezza variabile tra i 14 e i 18 metri) è stata realizzata con il cemento armato sul modulo angolare dei container utilizzati per il trasporto merci. La sovrapposizione dei container su sei e sette piani è stabilizzata a sua volta da libri e cunei di piombo che sono stati inseriti tra un piano e l’altro. Ogni piano presenta delle feritoie/finestre che concorrono a rendere l’idea dell’abitabilità della torre. Le torri sono immerse nello spazio buio del corpo dell’hangar illuminate da faretti che ne magnificano l’insieme associandovi l’immagine di un paesaggio con rovine. Di fronte a queste mastodontiche rovine del presente, non può certo sfuggire che il ricorso al container e ad un materiale come il cemento armato sia da leggersi come un contrassegno della contemporaneità delle rovine. Immancabili, qui come in molte opere di Kiefer, sono i libri e il piombo, il materiale per eccellenza all’interno della sua poetica. Materia duttile e malleabile, il piombo, passibile di trasformazione a tal punto che gli alchimisti ritenevano di poterlo convertire in oro, rientra nelle scelte di Kiefer anche per il suo potenziale simbolico. Tra le sette torri, la seconda intitolata Melancholia cita in alto nell’ultimo piano la forma del poliedro che appare nell’omonima incisione realizzata da Albrecht Dürer nel 1514. Per il Dürer era un modo eloquente di descrivere il ritratto dell’artista in un’epoca in cui per giustificarne i tratti contemplativi e inquieti gli artisti erano considerati “i nati sotto Saturno”, il pianeta della malinconia. Sul parterre di questa torre si trovano affastellate numerose piccole lastre di vetro e strisce di carta contrassegnate da serie numeriche corrispondenti alla classificazione dei corpi celesti utilizzata dalla NASA. Sono le sue “stelle cadenti” che magistralmente coniugano nel desiderio la memoria con il presente . In questa, come in altre opere, nel declinare la propria poetica intorno alla nozione di rovina, Kiefer ci appare però come un caso solitario. Pochissimi altri artisti lo hanno eletto a soggetto privilegiato mentre è possibile osservare come tale tematica sia divenuta negli ultimi anni centro gravitazionale di una parte consistente della ricerca artistica. Su questo fronte, complice il profluvio di immagini di distruzioni che il web anima e accumula in una forsennata e caotica stratificazione e manipolazione, la rovina non sembra proprio più potersi limitare ad evocare nostalgicamente il passato quanto piuttosto sollecitarci a guardare più da vicino il presente. Assunto e inteso soprattutto nelle sue criticità: non è certamente un caso che le rovine interpellate siano riferibili per lo più alle aree travagliate della contemporaneità e che di conseguenza nelle opere che se ne occupano agiscano come dispositivo di rilevamento e decantazione delle emergenze e delle crisi del nostro tempo. Purtuttavia, se l’interesse si è fatto tanto più evidente laddove l’emergenza della distruzione è risultata più impetuosa, il ricorso al tema si è posto come pervasivamente ineludibile anche a prescindere da urgenze circostanziali. Da questa angolatura -tra i tanti possibili esempi cui richiamarsi- possiamo accennare al padiglione della Gran Bretagna nell’ultima edizione della Biennale di Venezia dove l’artista Phyllida Barlow ha proposto una complessa installazione dal titolo folly che dimostra come l’estensione del soggetto si sia generata anche indipendentemente da contingenze emergenziali (8). In questa occasione, l’architettura installativa progettata ha invaso l’intero ambiente con colossali sculture che apparivano comprimervisi come fossero volutamente inadeguate. Quel che questa eterogenea impalcatura inglobava erano oggetti relittuali allusivi al quotidiano ma anche alla storia dell’arte come mostrava uno scolabottiglie di chiara memoria duchampiana imprigionato nel groviglio installativo. Era come se l’intero costrutto di materiali poveri assemblati, fatto di compensati, carta, tessuti, lacci, ambisse a inondare lo spazio ospitante tracimando con sè relitti e macerie del nostro consumo culturale. Una sensazione di opprimente occlusione che incorporando memorie del quotidiano accanto a memorie storico-artistiche e territoriali (un balcone della laguna) immergeva lo spettatore in un contesto di macerie monumentalizzate e avviluppanti (Fig.4). Accanto alle opere, alcune mostre hanno di recente rafforzato il connubio proponendo un serrato dialogo tra l’arte contemporanea e le rovine(9). In particolare possiamo utilmente riferirci ad un percorso installativo di Mircea Cantor e alla mostra Home Beirut. Sounding the Neighbors che ha offerto l’opportunità di inquadrare in un orizzonte esteso la ricchezza della produzione artistica della città di Beirut all’insegna, sembrerebbe, proprio della rovina. È stata la Fondazione Giuliani di Roma a presentare dal 12 ottobre al 16 dicembre 2017 la mostra di Mircea Cantor Your Ruins are my Flag incentrata proprio sul tema della perdita, intesa in molteplici accezioni. Dal patrimonio alle tradizioni, dalla fragilità degli equilibri politici e sociali alla perdita intesa come negazione di libertà, innocenza e sicurezza. In questo orizzonte, di particolare interesse risultano alcune opere realizzate con il sapone (Figg.5-6). Non un sapone qualsiasi, ma il sapone dell’antica tradizione di Aleppo, il cui profumo si sprigiona da questi manufatti che sono per lo più colonne tortili e sfere allusive al mondo. Le prime appaiono come candele giganti che a fatica si sollevano come a voler, nonostante tutto, rimanere erette sfruttando la forza di gravità del suolo coperto di macerie (le rovine del titolo) o grazie a dei sostegni. Le seconde sono sfere imprigionate da corde, il tutto modellato nel sapone, in una metafora del mondo che risuona nel loro titolo Take the World into the World. Se, da un lato, il sapone allude all’atto del lavare via e sbiadire il passato, la storia e la sua eredità, passando per la materia della tradizione; dall’altro, il fatto di ergersi sui detriti della distruzione perpetrata indica un anelito alla speranza. Non sfugge che sia stata scelta proprio Aleppo divenuta nel corso del conflitto siriano il simbolo stesso della guerra. Al termine della lunga battaglia di Aleppo sappiamo che si sono contati migliaia di morti e i sopravvissuti agli scontri sono rimasti terribilmente segnati. Ripartire da qui, da uno dei suoi beni più noti, il sapone appunto, ha il senso di una rigenerazione delle radici, quasi una rinascita sofferta e faticosa che nell’opera di Mircea Cantor è anche nella metafora del titolo quasi come un voler issare la propria bandiera sulle rovine e presagire così un nuovo inizio. Spostandoci sul versante della mostra Home Beirut. Sounding the Neighbors la domanda dalla quale è partito il suo curatore Hou Hanru è “ Beirut sarà di nuovo dilaniata? Quando parliamo del futuro, prendiamo in considerazione anche le rovine di tale futuro?”(10). Si è trattato dunque di riferire in un percorso espositivo di un’ossessione persistente per gli abitanti della città e per la sua percezione legata ai traumi dei conflitti devastanti che nel vicino passato e che ancora oggi appaiono di difficile rimozione. Da un lato, l’indagine ha preso le mosse dalla riflessione condotta dagli artisti su quale possibile fiducia riporre nel futuro; dall’altro, dallo stato di sospensione, dalla paura endemica a stabilizzarsi in una rassicurante dimora nell’incertezza di affidarvisi. Non casualmente Hanru ha citato Jalal Toufic che si è chiesto se “impareremo mai a vivere in un posto senza risiederci, in modo che l’atto di abbandonarlo non lo trasformi in rovina?”(11). Esplorando la scena artistica libanese non sfugge a Hanru il fatto che la prima generazione di fama internazionale di artisti di Beirut emersa tra l’inizio e la metà degli anni Novanta abbia prevalentemente indagato criticamente proprio l’impatto prodottosi sulla città di Beirut e i suoi abitanti nelle esperienze traumatiche delle guerre. Dunque la rovina si pone fin da subito come la parola chiave iscritta esemplarmente nella poetica di Akram Zaatari come in quella di Jalal Toufic e del suo Thinking the Ruin(12). Le rovine e la loro memoria, come ha esplicitato anche il lavoro di Marwan Rechmaoui Monument for the Living (2001-2008), si devono pertanto ritenere un tema indotto da circostanze generazionali. Ne fornisce ulteriore testimonianza il fatto che dalla fine della guerra civile nel 1990, la comunità artistica, insieme a storici e a intellettuali, abbia profuso le sue energie nella creazione di grandi archivi che parallelamente sono divenuti la forma nella quale si è configurata la stessa ricerca artistica. Si è trattato di una “febbre dell’archivio”(12) alla quale non sarebbe stato possibile sottrarsi come ben suggerisce anche il progetto The Atlas Group di Waid Road (13) nel quale la forma documentaristica si è accompagnata anche a sviluppi narrativi immaginari che sul crinale dell’incertezza intrecciano i dati raccolti alla riflessione soggettivizzante. Il percorso espositivo si dipana in una ripartizione in quattro sezioni che si intersecano tra loro in un costrutto che abbandona l’idea dello spazio museale neutro per contaminarlo e delinearlo in ambiente specifico strettamente interrelato ai temi e ai modi delle pratiche artistiche considerate. Stando così le cose la prima sezione non poteva che introdurre l’urgenza prima dell’archiviazione e della documentazione, quella di conservare la memoria. “Home for Memory” mette infatti al centro in primo luogo la memoria delle tante guerre che hanno dilaniato la città di Beirut: dalla guerra civile (1975 – 1990) al conflitto con Israele del 2006. Ma non solo, i “vicini” cui si allude nel sottotitolo della mostra, appunto “Sounding the Neighbors”, sono infatti tutti quelli che condividono il condominio, quindi, geograficamente anche quelli delle regioni confinanti come la Siria, Israele e la Palestina e temporalmente quelli che partecipano di analoghe situazioni di distruzione. In tal senso, appare eloquente l’appropriazione di una rovina che, rispetto a Beirut, si qualifica come dell’ “altrove”. Nel lavoro del 2013 di Ahmad Ghossein Relocating the Past, Ruins for the Future il reperto non è stato prelevato a Beirut ma ad Oslo dove il 22 luglio 2011 due terribili esplosioni condussero all’uccisione di 77 persone lasciando nei luoghi degli attentati un paesaggio di distruzione. L’artista si è appropriato della vetrina del quotidiano “VG” che esponeva le pagine del quotidiano di quel giorno e che a seguito di una delle esplosioni si frantumò. L’oggetto nella sua nuova condizione è stato assunto dall’artista a rappresentare, come ha dichiarato lui stesso, “un punctum nello spazio pubblico, una perforazione della normalità e un’abitudine dimenticata”(14). C’è una zona di Beirut teatro, potremmo dire, dei “brevetti” di costruzione, dove gli appaltatori che si candidano ad erigere nuovi edifici sono tenuti ciascuno a realizzare un campione di muro in scala 1:1 dell’edificio che propongono. Si tratta di un lotto vuoto che Akram Zaatari ha scelto come location per il suo video Beirut Exploded Views del 2014 (Fig.7) e che, secondo l’artista assomiglierebbe “a un parco composto di diversi elementi urbani che non hanno nulla a che fare l’uno con l’altro. Questo spazio di strutture autoportanti cambia nel tempo, poiché i modelli di edifici vengono distrutti quando la costruzione cui si riferiscono è completata”(15). A partire dal 2014 si è poi assistito ad un processo di insediamento e di ripartizione di quest’area da parte di rifugiati provenienti per lo più dalla Siria. “Ho pensato che quest’area occupata da campioni e modelli architettonici fosse perfetta per evocare uno scenario postbellico, una città distrutta, abbandonata, impossibile da riconoscere” ha dichiarato l’artista(16). Nel video è abitata da alcuni uomini, per lo più giovani, impegnati in un rapporto con il mondo mediato quasi esclusivamente dallo smartphone e la sequenza narrativa termina con una ripresa della videocamera dall’alto come se si trattasse di un sito archeologico. Le rovine del presente, dunque, in una ricognizione dal futuro. Come spesso accade nella ripartizione per sezioni, le diverse prospettive finiscono per scivolare l’una nell’altra, e questo video di Zaatari ha a che vedere anche con la seconda sezione della mostra che, intitolata “Home for Everyone”, indaga la coabitazione di popoli diversi che condividono l’emergenza del dislocamento, la fuga, l’esilio, lo status di rifugiati.Home for Remapping” è il titolo dato alla terza sezione della mostra e qui il rimappare si riferisce sia al desiderio di riconformare il perimetro e la trama della città che alla sua materia e ai processi di classificazione delle sue aree. Proprio riferendoci all’asse lungo il quale si stanno esaminando queste opere e questi fenomeni- quello della rovina- estremamente interessante appare la riproposizione di un’installazione del 1991 di Bernard Khoury Evolving Cars che era nata nel momento in cui al proposito di dar vita alla ricostruzione del Beirut Central District si affiancava il processo di demolizione degli edifici danneggiati dalla guerra. L’installazione è consistita nella collocazione di un involucro trasparente intorno a ciascuno dei ruderi prescelti e dell’inserimento all’interno dell’edificio di un “raccoglitore di memorie” affinché accumulasse i relativi dati. Man mano che i dati immessi aumentavano si procedeva alla demolizione degli edifici fino alla loro completa distruzione. L’intento è stato di «gestirne» in questo modo la distruzione, per l’artista si è infatti trattato di “un atto politico in opposizione ai metodi convenzionali di pianificazione urbana”(17). A queste materie polverizzate si contrappongono le monumentalizzazioni delle rovine che ostentano il loro stato di decomposizione nei Pillars di Marwan Rechmaoui. Sembrano arbusti senza vita questi pilastri relittuali che contrastando la loro vocazione ad essere fondamento di ogni impresa costruttiva ci appaiono qui abbandonati al loro destino di degrado. Arrugginiti nelle parti ferrose e frantumati nelle altre, inglobano materiali spuri che accentuano il senso di decomposizione d’insieme. La videoinstallazione di Ali Cherri Petrified del 2016 interroga invece la fragilità dei criteri delle mappature scientifiche e la loro presunta oggettività. A partire dalla domanda “cosa stiamo guardando quando guardiamo le antichità in un museo?” - quando dentro una vetrina, nelle loro forme mutilate ci osservano silenti - l’artista ci propone un parallelo con un biotopo nella luce artificiale dell’Arabian Worldlife Centre di Sharyeh. Entrambi i processi astrattizzano fuori contesto quelle realtà in atti appropriativi e dislocanti che ne affievoliscono e depotenziano la significatività (Fig.8). A rimappare, profilandone una nuova identità paesistica è poi il ricorso ad un espediente di guerra utilizzato dalla gente di Aleppo quando, nel 2013, per disorientare i cecchini appostati dall’altro lato della città cominciò a buttare giù dai propri balconi delle tende su cui si cucivano altre tende così creando delle vere e proprie quinte di barriera e scudo. Su questa idea Roy Dib ha concepito una performance installativa dal titolo Here and There. Rome Edition nella quale ha installato dei rotoli di tessuto damascato stile veneziano e su di essi Sara El Debuch ha svolto una performance consistente nel ritagliare sul tessuto delle pezze arrotondate da offrire al pubblico come talismano (in arabo Hijab, riferito ad un indumento usato per coprirsi). Un talismano con il quale difendersi, alludendo alla necessità di creare una barriera tra il “qui” e il “lì”, tra il bene e il male. L’ultima sezione della mostra “Home for Joy” è quella riservata alla gioia, alla vita in risposta alla crudeltà e all’efferatezza della distruzione. Emblematico il video di Sirina Fattouh Entre les ruines del 2014 che riprende il danzatore e coreografo Alexander Paulikevitch mentre balla tra le rovine del villaggio di Bint Jhail nel sud del Libano. “Per me la danza – ha dichiarato l’artista – era l’unico modo per dimostrare l’impossibilità di rappresentare un tale disastro, una tale violenza”(18). Dimostrando in tal modo la consapevolezza di un’inadeguatezza nel restituire al mondo lo sconforto della distruzione e rianimando e rigenerandone al contempo il profilo attraverso una circolarità di energia (Fig.9). Vengono in mente Borges e le sue “rovine circolari” di cui ha scritto in un commovente racconto dove mischia insieme rovine architettoniche con rovine umane (19). Nelle sue pagine, le prime sono le rovine architettoniche templari su cui si adagia l’uomo taciturno che intuirà essere proprio quello “il luogo che conveniva al suo invincibile proposito”: quello di sognare un uomo, “voleva sognarlo con minuziosa interezza e imporlo alla realtà”. E nel sogno anche il tempio si ricompone scoprendosi essere un anfiteatro circolare e nel travaglio del sogno l' «uomo-mago» crea una parvenza di uomo sulle rovine di ciò che è stato. Tra sogno e realtà, illusione e suo decomporsi il racconto ci impone un continuo passaggio di livelli. Piani che nelle affabulazioni artistiche proposte rinviano anch’esse l’un l’altra quasi si trattasse di un sentimento di circolarità che tutte le avvicina e le interroga in un moto di reciprocità e corrispondenza che fa da sfondo atemporale al nostro presente.
Gennaio 2018


1) Scrive infatti: «(…) Gli antropologi si trovano oggi dinanzi alla vasta sodaglia che si estende all’intero pianeta, sentono che l’inventario delle rovine non è un fine in sé e che quella che veramente conta è l’invenzione, anche se sottoposta a enormi pressioni e a effetti di dominazione che ne minacciano l’esistenza(…)».In, Marc Augé, Rovine e macerie Il senso del tempo, Torino, Bollati Boringhieri, 2004, p.16. [2003] .
2) Ibidem, pp.35,36.
3) Ibidem,p .43.
4) Ibidem, p.43.
5) https://www.panorama.it/cultura/arte-idee/anselm-kiefer-milano/
6) Valentina Martinoli, Anselm Kiefer, apologia delle rovine, in, ArteCracy.eu, 29 settembre 2016http://artecracy.eu/anselm-kiefer-apologia-delle-rovine/
7) Anselm Kiefer, I Sette Palazzi Celesti, 2004-2015, Pirelli Hangar Bicocca, Milano
8) Phyllida Barlow, folly, installazione Padiglione della Gran Bretagna, Biennale di Venezia, 2017.
9) Il primo riferimento va alla bella mostra La forza delle rovine svoltasi dal 9 ottobre 2015 al 31 gennaio 2016 a Palazzo Altemps a Roma per la cura di Marcello Barbanera e Alessandra Capodiferro . Ma il tema ha avuto ulteriori e più circostanziate riflessioni nel perimetro dell’arte contemporanea in occasioni espositive diverse che hanno in particolare privilegiato il dialogo tra le rovine del passato e l’arte contemporanea. Si veda in proposito: A.Fiz, F. Prosperetti, a cura di, Da Duchamp a Cattelan. Arte contemporanea sul Palatino, Electa, 2017, Catalogo della mostra svoltasi a Roma sul Palatino dal 28 giugno al 29 ottobre 2017.
10) Hou Hanru (a cura di), Home Beirut. Sounding the Neighbors, CURA.BOOKS, MAXXI, 2017,p.12.
11) Jalal Toufic, “Ruins” in AA.VV, Tamáss, Contemporary Arab Representations 1.Beirut/Lebanon, Barcelona. Fundació Antoni Tápies, 2002, p.19.
12) Hou Hanru, in, ibidem, p.17.
13) The Atlas Group, Let’s Be Honest, he Rain Helped, in Charles Merewether (a cura di), The Archive, Whitechapel/MIT Press, Londra/Cambridge, 2006, p.179.
14) Ahmad Ghossein,in, ibidem, p.86.
15) Estratto dall’intervista a Sandra Dagher, 2016. Riportato in: Hou Hanru (a cura di), Home Beirut. Sounding the Neighbors, cit., p.114.
16) Ibidem, p.114.
17) Ibidem, p.150.
18) Sirine Fattouth in, ibidem, p.234. http://cityandcity.net/index.php/sirine-fattouth/ .
19) Jorge Luis Borges, Finzioni - La biblioteca di Babele, traduzione di Franco Lucentini, Torino, Einaudi, 1955 [1944].