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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Osservazioni sulla mostra Pompei@Madre. Materia archeologica

Brunella Velardi

Pompei@Madre è una mostra sorprendentemente contemporanea. Lo è in maniera sorprendente non tanto perché non ce lo si aspetterebbe dai suoi curatori, ma piuttosto per l’impostazione metodologica – che riesce a fare di ogni suo frammento parte di una narrazione che sembra trarre la sua linearità, quasi ‘leggerezza’, proprio dalla profonda e sottile riflessione che la sottende. È un percorso talvolta aspro, talvolta affascinante, in alcuni casi un po’ meccanico, in cui però è possibile leggere un’organicità e una coerenza sala dopo sala, pur nella grande quantità e varietà di tipologie dei materiali esposti. Contemporaneo perché non cala mai fino in fondo il visitatore in un passato senza via d’uscita, nemmeno nelle sale dominate da reperti antichi e litografie ottocentesche; si ha invece la costante sensazione di star osservando un fenomeno in fieri, nel momento stesso in cui avviene, come dietro il vetro di un laboratorio. Questo fenomeno è la simultanea attualità dell’antico-antichità dell’oggi-persistenza dell’uno nell’altro, che si manifestano senza soluzione di continuità nelle loro molteplici accezioni di fervida reinterpretazione, passatismo, reminiscenza, sensucht, ironia, celebrazione-soggezione, memento, fluida trasformazione, consapevole discendenza, urgenza di distacco. La spontaneità con cui tutto questo è messo in scena si riflette nei titoli delle sezioni, significativamente tematiche e non cronologiche, all’interno delle quali trovano spazio fotografie, reperti, documenti, sculture, affreschi, dipinti, installazioni dal 79 d.C. ad oggi, dalle testimonianze di cultura materiale ai registri di scavo, dai bronzi ercolanesi ai dipinti seicenteschi, dalle incisioni settecentesche alle raffinate opere fotografiche di Mimmo Jodice, Luigi Ghirri, Antonio Biasiucci, Victor Burgin e fino ai lavori più recenti di Adrián Villar Rojas, Mark Dion, Roberto Cuoghi, Maria Thereza Alves, tra gli altri. Lo scavo archeologico come ipotesi di narrazione, Piccola biblioteca di archeologia e futurologia, Rovine contemporanee, Un atlante iconografico, Da polveri di colore…, A affreschi e pastelloni, Immaginare, costruire, decorare, arredare archeologie (archeologie fantastiche), Panoramica di un’eruzione, 79-2017 d.C., Materia archeologica, Mettere in scena/mettere in mostra archeologie, Tempo e materia oggettuale, Tempo e materia umana, Tempo e materia animale-vegetale, Organico/inorganico: natura come cultura (e viceversa), (Ri)generazione (breve storia dei semi di un giardino pompeiano) sono i quindici capitoli attraverso i quali si dipana l’esposizione di opere provenienti da collezioni pubbliche e private, tra cui il Museo Archeologico Nazionale di Napoli, il Museo di Capodimonte, il Polo museale della Campania, la Biblioteca Nazionale e l’Institut Français di Napoli, la Fondation Le Corbusier, l’École Nationale Supérieure des Beaux-Arts di Parigi. La delicata e monumentale operazione è stata il frutto di un incontro tra titani, il Parco archeologico di Pompei e il museo MADRE, che hanno unito energie, risorse economiche e collezioni di MiBACT e Regione Campania, per quest’esposizione, definita dal ministro “la mostra più importante dell’anno”. In parte per la portata del lavoro svolto, in parte per la sua stessa struttura, che potrebbe identificarla come ‘mostra di molte mostre’. Ogni sezione è infatti una mostra a sé, potenzialmente autonoma, mentre la bipartizione tra Pompei@Madre. Materia archeologica e Pompei@Madre. Materia archeologica: Le Collezioni (che individuano spazi diversi dell’esposizione all’interno del museo, oltre ad avere date di chiusura differenti) chiarisce la divisione in due macrosettori, caratterizzati da approcci per certi versi opposti. Tra piano terra e primo piano, dove si trovano le installazioni site-specific della collezione permanente, si sviluppa il dialogo-confronto antico-contemporaneo sotto forma di rimando agli ambienti della domus pompeiana: all’atrio di Daniel Buren sono stati associati atrium, vestibulum e peristylium, al grande ambiente con le pareti dipinte da Francesco Clemente, tablinum, triclinium e convivium, alla sala di Luciano Fabro, impluvium, compluvium, nymphaeum, thermae, e così via. Il risultato è formalmente impeccabile – le 10.000 linee di Sol LeWitt e l’opus sectile dalla Casa di Marco Fabio Rufo, le figure mute di Mimmo Paladino e il calco di un adulto che tiene in grembo un bambino dalla Casa del Bracciale d’oro, la griglia con l’ancora di Jannis Kounellis e il mosaico con ancora, nuotatori e delfini da Ottaviano – a tratti suggestivo, come nella sala in cui l’installazione delle capuzzelle di Rebecca Horn accoglie le steli funerarie provenienti dalle necropoli pompeiane, o in quella ‘sporcata’ dal fango di Richard Long in cui il lavorare la materia primordiale viene associato alle attività e agli oggetti di una cucina. Ma si risolve in un gioco di rimandi più o meno letterali che pur essendo ben calibrato ed esteticamente accattivante, dal punto di vista del metodo si può tradurre nella somma antico+contemporaneo. Radicalmente diversa è invece l’impostazione che impronta il terzo piano. La suddivisione nelle sezioni riportate sopra testimonia sul piano museografico la scelta di operare uno slancio concettuale ulteriore. Non viene più richiesto solo all’arte degli anni Duemila uno scambio con le testimonianze dell’antichità come ai piani inferiori: qui tutto dialoga con tutto, il ‘cosa’ e il ‘quando’ sono categorie assenti. Non si tratta soltanto della volontà di trascendere i limiti cronologici, dimostrando la persistenza della ‘pompeianità’ nel tempo e nello spazio; non si tratta nemmeno della scelta di indagare il tema dell’antico con un approccio interdisciplinare. Sono entrambe le cose e nessuna delle due. L’assetto laboratoriale a cui si faceva riferimento ha a che fare piuttosto con la lettura della contemporaneità come palinsesto memoriale citato da Andrea Viliani – direttore del MADRE e co-curatore della mostra insieme al direttore del Parco archeologico di Pompei, Massimo Osanna – nel suo testo in catalogo, a partire dalla visione benjaminiana della perpetua rigenerazione nel presente delle macerie del passato. La definizione della realtà come palinsesto, d’altro canto, rimanda a una concezione quasi bidimensionale della storia, in cui, senza negare la complessità degli eventi e delle circostanze, il loro intrecciarsi, sovrapporsi o ignorarsi, le testimonianze dei secoli trascorsi e futuri restano pur sempre la materia – archeologica, appunto, e visibile in trasparenza attraverso le sue stratificazioni – che viene a galla in questo inarrestabile processo. Pompei@Madre è una mostra contemporanea proprio perché supera il timore reverenziale verso il passato e lascia al visitatore l’agio di guardare gli oggetti esposti con gli occhi del duemiladiciotto senza dargli la fastidiosa impressione di essere fuori luogo e fuori tempo. Qualche riflessione in più su due sezioni della mostra. Dopo il bell’incipit del campo di scavo che tra vecchie ceste, picconi, setacci e divieti d’accesso arrugginiti, sulla scenografia del rilievo topografico dell’area archeologica pompeiana dal pallone aerostatico, rivela il ritrovamento di opere di Villar Rojas, la sala che segue è dedicata alla Piccola biblioteca di archeologia e futurologia. Qui, in una teca che ha più o meno le proporzioni di un sarcofago, sono esibiti libri di incisioni e testi da Winckelmann a Settis, passando per Piranesi, Goethe, Chateaubriand, Maiuri, Bianchi Bandinelli e Carandini. Se, girandoci intorno fino a raggiungere “Futuro del classico”, si comprende il fantascientifico riferimento alla futurologia, la scelta di racchiudere pubblicazioni antiche e moderne in una vetrina appare un eccesso didascalico-descrittivo che frena sul nascere il ritmo dell’esposizione e non rende giustizia alla bellezza delle incisioni e alla rilevanza scientifica dei testi, di cui non si leggono estratti ma si vedono solo copertine, ingabbiate sotto vetro come in un asettico inventario di animali impagliati. Un paio di sale dopo, la sezione Rovine contemporanee regala un incredibile paesaggio in forma di tessere fotografiche. Basilica I e Basilica II di Victor Burgin (2006) costituiscono una tassonomia ipnotica di frammenti di colonne doriche; sulla parete opposta, la documentazione fotografica degli scavi su schede d’archivio dell’epoca è la manifestazione più concreta ed emozionante dell’artisticità della storia, del potere comunicativo, evocativo e testimoniale che i documenti d’archivio condividono con le opere d’arte e con i reperti archeologici e di quell’innegabile e fertilissima parità che esiste tra oggetti, documenti e opere, prodotti della memoria e del pensiero nella natura e nella storia.
Gennaio 2018