Riflessioni a margine della retrospettiva al Palazzo delle Esposizioni

Teresa Lucia Cicciarella

Il Palazzo delle Esposizioni ospita fino al 6 maggio 2018, con la curatela di Daniela Lancioni e Ilaria Bernardi, una grande retrospettiva del lavoro di Cesare Tacchi (Roma, 1940-2014), ripercorso attraverso un centinaio di opere scelte (alcune inedite) e l’analisi di una molteplicità di temi e cicli di opere che ben restituiscono l’eterogeneità e la varia densità della riflessione dell’artista.
Gli esordi di Tacchi sono richiamati, in apertura, dalla parete che ospita la materica Figura (1959), opera di catrame, bitume e smalto su tela che tocca da vicino il linguaggio di Burri e che ispessisce e compatta il segno di Franz Kline (visto probabilmente alla galleria La Tartaruga nel 1957: prima personale di Kline in Europa). Il 1959 è l’anno in cui l’artista romano partecipa, insieme a Renato Mambor e Mario Schifano, a una collettiva alla galleria Appia Antica: per Tacchi, è la presentazione di Mario Seccia a sottolineare colori “seri ed eleganti” nonché una “materia intima, coordinata e condizionata ad un forte rigorismo”(1). Rigorismo che, al momento, appare confermato dalla stretta bicromia cui Tacchi affida un linguaggio deciso, essenziale nei termini e ancora vicino all’Informale.
Accanto a Figura, due sculture metalliche in giallo del 1961 rimandano al dibattito in corso anche in ambiente romano (oltre che milanese), in particolare contrappuntando - ma con ben altre cromie - la riflessione spaziale di Lo Savio che, nella realizzazione dei Filtri o di sculture e superfici metalliche, mirava a suggerire il dialogo e lo scambio interno/esterno tra l’opera e lo spazio-luce. La scultura a destra è illuminata da una lampadina che lascia trapelare dal suo interno una lama di luce; la parete si pone ad angolo della nutrita infilata di documenti e rimandi fotografici che compone la cronologia del percorso di Tacchi. Di fronte ad essa, una prima serie di quattro opere grandi e indicative della strada intrapresa da Tacchi, sul nascere degli anni Sessanta: parti di automobili sintetizzate e zoomate abitano tele (2) quadrangolari, dipinte a smalto con colori essenziali e talora associate a frammenti di parola – si ricostruisce il termine Super, osservando opere e relativi titoli – che echeggiano alcuni aspetti dell’immaginario futurista, pur in modo estremamente rarefatto e lineare (privo di quel dinamismo che, al contempo – 1962-’63 – stava indagando uno Schifano stimolato da Maurizio Calvesi).
Un modo che preannuncia quanto osservato da artisti e critica in merito alla congerie creativa romana dei primi anni del decennio: l’intenzione, giovane, di guardare alla realtà accogliendola nel proprio campo creativo e utilizzandola come fonte di non acritica ispirazione. Ricordava infatti Tacchi, una ventina d’anni fa: “C’era da guardare il nuovo paesaggio urbano, i segnali (…). Eravamo immersi in una società in rapida trasformazione. Non era più possibile isolarci in un mondo metafisico privilegiato: eravamo, come tutti, incalzati dalla civiltà dei consumi. Il nostro fare era quello di guardare e copiare in modo oggettivo, interpretando la realtà con i suoi stessi codici, con i suoi simboli, le sue esagerazioni, la sua stupidità. Eravamo un genere di iconoclasti che riflettevano i simboli di quella realtà” (3). Così facendo, Tacchi e gli altri artisti riuniti da Cesare Vivaldi nella definizione di “giovane scuola di Roma”(4), al debutto nel fascicolo speciale dedicato da “Il Verri” di Luciano Anceschi alle esperienze Dopo l’Informale,  erano apparentati da quel “minimo comune denominatore” costituito dal “modo «mediato» e insieme aggressivo, mordente, tutt’altro che «indiretto», di tenere nuovamente in conto le apparenze esterne, visive, del mondo con tutto il loro peso (…) oggettivandole il più possibile”(5) e utilizzando spesso come strumento di ausilio e mediazione del reale l’obiettivo fotografico. Tale aspetto è confermato da Tacchi stesso, che nel 2004 riferiva ad Andrea Tugnoli come “la tecnica usata per uscire dal «visceralismo» (6) dell’Informale era il ricalco delle fotografie riportate su tela. Unico modo di riportare in una forma neutra la realtà”(7). La realtà oggettiva, dunque, si coglie nel particolare, minimo, scorcio urbano della Circolare rossa (1963), opera in cui una porzione del tram romano perde quasi di riconoscibilità, mostrando a un tempo carrozzeria e passeggeri, finestrini e riflessi della città circostante. Impossibile non riconoscere in quest’opera – e non riconfermare, poi, nelle successive opere in mostra: Al milite ignoto (1964), Piazza Navona dall’automobile (1964) – un primo rimando al dettato boccioniano che fu al cuore del Manifesto tecnico della Pittura Futurista (aprile 1910): “I nostri corpi entrano nei divani su cui ci sediamo, e i divani entrano in noi, così come il tram che passa entra nelle case, le quali alla loro volta si scaraventano sul tram e con esso si amalgamano” (8). Sebbene non si ritrovino in Tacchi il dinamismo e la simultaneità caratteristiche delle immagini futuriste, appare chiaro come lo spunto presentato nell’opera del ’63 – macchina, passeggeri, riflesso esterno che convive con le sagome delineate all’interno del mezzo – preluda alle opere del 1964 nelle quali il titolo, la composizione e il segno manifestano la convivenza tra dentro e fuori, tra lo sguardo o la sagoma umana, il finestrino e il monumento, riproponendo sulla tela quella personale (e assolutamente comune, quotidiana) ottica che si compone attraversando, in auto, un centro urbano. Lo sguardo di Tacchi si concentra sull’immagine della città moderna non tralasciando i monumenti storici, discrete presenze al centro di questa dialettica dentro-fuori, abitacolo e ambiente urbano.
L’arredamento urbano è una sorta di limbo che di solito sfugge all’attenzione dei più (…) e, invece, sta proprio a costituire ai nostri giorni il primum movens d’ogni esperienza comunitaria. Arredamento urbano vuol dire infatti: le panchine, le cassette postali, il colore degli autobus, dei taxi, le bandiere, i tombini dell’acqua (…)… Ma l’arredamento urbano comprende anche le edicole dei giornali, i cartelloni pubblicitari, ecc… tutto un piccolo universo di «lettere visive», di semantizzazioni grafiche, che ci colpisce di continuo, a cui non possiamo sfuggire, che costituisce l’humus del nostro modo di essere e di vedere”(9). Così scriveva Gillo Dorfles nel 1963, in Civiltà (e inciviltà) dell’immagine, e tale oggetto d’interesse si rispecchia anche nei lavori di Tacchi, in cui l’idea di arredo urbano (già pop) si ricongiunge alla storia monumentale del Paese, rinsaldando un patto evidente e caratteristico delle esperienze della Scuola di Piazza del Popolo e che ricorre ad esempio nel rilievo in legno dell’Obelisco (1963) di Tano Festa e nei tanti, celebri lavori dello stesso Festa e di Mambor, Angeli, Schifano.
Le sagome umane appaiono particolarmente vicine nel lavoro di Mambor, Lombardo e Tacchi: si ritroveranno, di lì a poco, nelle molte Tappezzerie di Tacchi che travolgeranno il dato umano assumendolo nell’idea del pattern domestico. Lo spirito italiano, d’appartenenza e filiazione culturale, si manifesta anche in quelle: dal 1964-‘65 Tacchi realizza opere che forzano la superficie bidimensionale della tela nel senso di una tridimensionalità tangibile, pulsante, modulata secondo forme realistiche, che intendono avvicinare al dato reale. Queste tele sagomate rimandano in primis a Burri, alla valenza tattile e spessa dei suoi Sacchi e alla sporgenza dei “gobbi”, come ricordato più volte da Calvesi. Ma è nell’ambiente milanese di Castellani e Bonalumi che trovano il loro confronto più vicino, sebbene sia da sottolineare come le opere di quelli (e non solo per l’uso del monocromo) tendano all’astrazione, alla rarefazione di una geometria progettata e ricreata attraverso i chiodi di Castellani e le liriche tele estroflesse di Bonalumi, mentre le opere di Tacchi rimangano ancorate a una realtà quotidiana, vicina, misurabile. Dopo la Poltrona rossa e la Poltrona gialla (entrambe 1964), nelle quali le forme dell’elemento d’arredo vengono suggerite attraverso realistiche impunture, Tacchi giunge a formulare un linguaggio eloquente, che rimarrà suo caratteristico: utilizzando colori e smalti, opera su tessuti stampati con pattern floreali, utilizzandoli singolarmente o, più spesso, in accostamenti di diverse fantasie; vi disegna volti e sagome in atteggiamento rilassato, in colloquio o scambio confidenziale; monta infine, dal retro dell’opera, delle imbottiture che suggeriscono l’andamento reale dell’oggetto o della forma umana riprodotta. Prima occasione di presentazione dei lavori, è stata nel 1965 la personale alla Galleria La Tartaruga di Roma: nel notevole gruppo di Tappezzerie in mostra oggi, osserviamo da vicino il rimando ai Gesti tipici di Lombardo – seppur vivificati dall’accostamento ai fiori, alle sovrapposizioni, alle bombature dei tessuti. Notiamo la vicinanza alle labbra e ai macro-torsi proposti da Pino Pascali nel 1964-’65. Notiamo, ancora, un ulteriore richiamo a quel pensiero di Boccioni citato pocanzi: le opere di Tacchi sembrano nascere nella compenetrazione tra l’uomo e la tappezzeria, dunque non più tra interno ed esterno urbano bensì tra l’uomo e il suo ambiente più congeniale, quello privato, domestico. Quello degli affetti e delle passioni. Con quest’osservazione riprendiamo il filo di quanto più volte affermato da Calvesi, sin dal 1966 de Le due avanguardie. Dal Futurismo alla Pop Art: ovvero, riconosciamo come anche nel linguaggio pop degli anni Sessanta si manifesti la germinazione, pur lontana, a partire dal Futurismo che aveva stravolto l’arte e il modo di leggere il reale ai primi del Novecento.
Come ancora sottolineato da Calvesi (10), queste opere di Tacchi glorificano un immaginario “umanistico floreale” prettamente italiano: lo fanno, aggiungiamo, riconciliando con quello (di stampo botticelliano, pisanelliano, ricorda il critico) l’attenzione alla dimensione domestica manifestata dalla Pop di qua e di là dall’oceano, l’attitudine in nuce a un deciso decorativismo e alla reiterazione del segno e l’apertura al linguaggio visivo, convenzionale e contratto, della pubblicità.
Il decorativismo, la sovrapposizione e la spazialità di queste opere di Tacchi si possono confrontare, inoltre, con la combinazione di pittura e collage adottata da Sigmar Polke nelle Fabric Pictures, opere realizzate su tessuti d’arredo, decorati con policromi e comunissimi pattern (pois, fiori, decori geometrici) o, più raramente, su fondi di carte da parati commerciali. Tale scelta operativa connota per il tedesco un filone intrapreso nel 1964 e che giungerà fino al termine della sua carriera, confermando la propensione verso una forzatura delle convenzioni artistiche, nel segno di un’indagine che sperimenta e amplia il linguaggio della pittura, giungendo a una poliedrica espressione che ha interpretato stili e soggetti diversi.
In Tacchi il rimando al Rinascimento “floreale” si esplicita nella Primavera allegra (1965), sontuoso omaggio a Botticelli che poi l’artista rivisiterà a più di quarant’anni di distanza (nel giugno 2007) alla Galleria La Nuvola di Roma, presentando con Calvesi I guardiani della primavera pop, grande lavoro che ancora si collega alle tappezzerie degli anni Sessanta.
Interessante notare, in chiusura, come (con altro spirito e giungendo a esiti diametralmente opposti) l’amico Schifano già avesse intitolato Botticelli, nel 1962, uno dei suoi celebri schermi monocromi.
La spinta verso la tridimensionalità, travalicando la tela, giunge ad occupare lo spazio con le opere-oggetto di Tacchi oggi esposte nella sala centrale del Palazzo delle Esposizioni: tra queste spiccano la nota Cornice (1968) nelle collezioni della Galleria Nazionale e la Poltrona inutile del ’67, che si collocano sulla scia del gigantismo di chiara marca pop statunitense.
È con il coinvolgimento diretto di Tacchi nell’azione Cancellazione d’artista (1968) che si segna, a chiusura degli anni Sessanta, un più interessante e personale intervento nel dibattito della Capitale e oltre. Tacchi partecipa il 18 maggio 1968 alla storica rassegna del “Teatro delle mostre” voluta da Plinio de Martiis nella sua Tartaruga, con un’azione “radicale, […un] gesto inevitabilmente narcisistico” messo in scena per affermare la propria protesta e inadeguatezza “al contesto sociale e politico”(11) del tempo. Come ricorderà de Martiis (12), la galleria in quel momento si era trasformata in un vero e proprio laboratorio, dove ciascun artista coinvolto nella rassegna, un giorno dopo l’altro, variava approccio, strumenti e, per così dire, scrittura scenica, nell’ottica di un confronto tra arte e teatro, nella messa a punto di una serie di azioni-happening che coinvolgessero il pubblico romano nel lavoro di artisti, compositori e poeti.
Tacchi decide di utilizzare il vano di una porta come “scatola”, chiudendolo con una lastra trasparente in plexiglas, che oggi ritroviamo in mostra come “reperto” dell’azione. Si colloca all’interno di questo spazio e, utilizzando una pittura bianca, giunge a ricoprire, progressivamente, la sua immagine. Il risultato formale rimanda a Festa: allo Specchio (cieco, coperto da pennellate bianche) o all’Armadio con autoritratto, entrambi del 1963. L’intenzione dell’artista è, tuttavia, quella descritta nella nota a margine di uno dei sedici disegni esposti all’Arco d’Alibert nel 1969, relativo all’azione del 1968: “Ho cancellato l’artista non tanto nel suo lavoro specifico ma come personaggio. Personaggio d’attrazione, affascinatore di persone per bene, di borghesi che non sanno di esserlo. Venditore ambulante di se stesso, vile mistificatore del proprio lavoro, del suo modo di dire la verità a metà. […] Del godere degli elogi di alcune persone che usano la penna per ricalcare gli avvenimenti e citare. Di usare se stessi come cavalli da corsa”. Il pensiero è riportato da una delle curatrici della mostra, Ilaria Bernardi, nel corso dell’incontro tenutosi al Palazzo delle Esposizioni il 22 febbraio e dedicato alla seconda parte del lavoro di Tacchi (quella avviata dopo il 1968): molto interessante è l’intento critico e auto-critico mostrato dall’artista, con un processo inverso al “mettersi in vetrina” che forse la primissima fase dell’azione (e i suoi elementi) potevano suggerire e che contraddice, nei fatti, l’apparente spensieratezza dei personaggi al centro delle Tappezzerie fin qui osservate. Nello stesso anno dell’operazione di Tacchi, Roland Barthes pubblicava La mort de l’'auteur (13) nel quale si interrogava riguardo le diverse “voci” dell’autore e le differenti prospettive mediante le quali rintracciare l’autore, dichiarando subito come “[…] la scrittura è la decostruzione di ogni voce, di ogni punto d’origine. La scrittura è quello spazio neutrale, composito, obliquo dove il nostro soggetto scivola via”.
Il gesto di Tacchi, dalla radice eminentemente pittorica, dialoga a distanza con il concetto barthesiano e, inoltre, con la Cancellatura operata da Emilio Isgrò, su testi e immagini, a partire dal 1964: quando tuttavia Isgrò, nei primi anni Settanta, giungerà a lavorare con metaforiche cancellature sulla propria stessa identità, coinvolgerà direttamente il nome, l’essenza e la rappresentazione dell’uomo, in un gioco filosofico che richiama il gusto per il ragionamento, il mascheramento e l’ironia proprio di una linea mediterranea che dai sofisti greci giunge fino al gioco delle parti di Luigi Pirandello.
Tacchi contesta lo statuto dell’artista contemporaneo, tenuto dal mercato a produrre e vendere la propria idea, la propria opera e in certo modo se stesso: l’artista ormai “cancellato”, celato dietro la sua parete, diviene nell’azione emblema di incomunicabilità, di “forzata” mancanza di un reale dialogo con il suo pubblico. In questa misura, la Cancellazione d’artista prelude a una nuova azione presentata nel 1972 con il titolo Io sono tu sei. Due basi per un colloquio, di cui vediamo in mostra la parte oggettuale, consistente in due identiche basi che non sostengono alcuna scultura ma al contrario, come svela il titolo, manifestano un’assenza e la paradossale impossibilità di un colloquio. L’azione omonima era stata svolta da Tacchi con Mario Diacono al Centro d’Informazione Alternativa – Incontri Internazionali d’Arte: i due amici, appoggiati ciascuno ad una delle due basi, cercavano un colloquio vanificato sia dalla distanza che dalla presenza del pubblico, che rendeva difficoltoso un confidenziale scambio tra i due. La stessa difficoltà di comunicazione, di produzione di senso, si esprime nello Strumento (1972), scultura in legno che rimanda alle caratteristiche effe di un violino – come confermato anche dalla presenza dell’archetto, poggiato accanto – ma che manifesta, nell’assenza di una cassa armonica, la sua realtà di mero (e muto) leggio, privato di una funzione e di un’effettiva utilità.
È ancora la comunicazione negata, una vera e propria afasia – come più volte ricordato da Ilaria Bernardi – a ritrovarsi nei quattro libri “extraverbali” (recanti ciascuno un titolo in copertina: Libro atmosferico, Favola, Io sono un poeta e Il segreto della vita), in cui l’impossibilità ad esprimersi mediante la parola trova la sua esplicitazione nelle singole pagine, colorate ma prive di qualsiasi lettera o segno.
Dopo questa fase di lavoro vicina al concettuale, un riavvicinamento alla pittura da parte di Tacchi è emblematizzato dalla serie di ventiquattro immagini riunite sotto il tautologico titolo Painting (1972), scattate da Elisabetta Catalano. In essa si osserva il gesto inverso rispetto alla Cancellazione d’artista e il riapparire dell’uomo-artista al di là della barriera monocroma che ne celava la visione.
Nel corso degli anni Settanta, l’interesse di Tacchi graviterà su diversi aspetti della pittura, sui suoi strumenti e non in ultimo sulle possibilità della didattica (si ricordi, ad esempio, La didattica in galleria: La Tartaruga, 1977): è infatti da ricordare come l’artista, dal ’71 in poi, avesse intrapreso una carriera d’insegnamento prima presso l’Accademia dell’Aquila e poi in un liceo artistico della Capitale. La scienza (1979) è un’opera che al classico connubio tra pittura e geometria associa una visione straniante, dall’alto, di un piano su cui siede un bambino circondato da solidi geometrici. L’atmosfera dell’opera prelude al grande dipinto Sécrétaire che, nel 1980, pare celare un segreto o una scrittura ermetica tra le fronde del bosco di Villa Pamphilj, abitato solamente da due ombre e, in primo piano, da una moltitudine di fogli bianchi e dai simboli della squadra, della sfera, dell’ovale. La grafia con cui, al centro del dipinto, è riportato il titolo, è quella tipica di Magritte: ciò vale per Tacchi a siglare non solamente un’espressione verbale ma l’atmosfera tutta del quadro, di surreale sospensione ed enigma.
Enigma che in Sécrétaire valse da stimolo di riflessione e psicanalisi collettiva per quel “gruppo esperienziale” che presso La Salita, nel 1981, riunì amici, critici e studiosi intorno all’opera e che oggi, avviandosi alla conclusione del percorso dell’attuale mostra, si ritrova nel gesto e nell’immagine dell’Uccel di bosco, formula che dà il titolo a un’opera del 1982 tratta dall’osservazione, nel dettaglio, de Il sogno di Henri Rousseau il Doganiere (1910). Nel volatile isolato si riscontra – mascherato – il gesto delle tre dita del pittore che trattengono la tavolozza suggerito da Tacchi nel 1980 con Della Pittura: in un riferimento personale che ricorre fino a rasentare il cortocircuito, l’artista rappresenta la propria mano come emblema del dipingere, del vagare come libero uccel di bosco da un tema all’altro, per poi approdare al grande trittico formato dalle tre opere intitolate Lo spirito dell’arte (nn.1, 2, 3) in cui il gesto delle dita si fa quasi colomba messaggera di Spirito, reiterandosi sulla tela fino a produrre dei veri e propri pattern che vivono in campi bidimensionali, bicromi.
Ritroviamo così in chiusura, forse, l’essenza distillata del decorativismo osservato nelle grandi Tappezzerie degli anni Sessanta: essenza di un artista che ha saputo attraversare più di cinque decenni meditando su un proprio personale linguaggio ma al contempo dialogando, costantemente, con artisti e tendenze che hanno ravvivato l’ambiente italiano ed europeo della seconda metà del Novecento. Il percorso si conclude idealmente col trittico-triplice ritratto disegnato intitolato Come sarò, Come ero, Come sono (2003), in cui l’immagine dell’artista rimane ferma e immutata, celando il suo sguardo allo spettatore ma mostrando, coerentemente, quel profilo già affermato con decisione nei primi anni Sessanta.
Aprile 2018

1) M. Seccia, presentazione del lavoro di Cesare Tacchi nella collettiva “Renato Mambor, Mario Schifano, Cesare Tacchi”, Galleria Appia Antica, Roma, gennaio 1959.2) Carte intelate.
3) C. Tacchi, A proposito degli anni Sessanta e della Pop art in particolare… in Cesare Tacchi. Tappezzerie, Studio Soligo, Roma 1999.
4) C. Vivaldi, La giovane scuola di Roma in “Il Verri”, n.12, 1963.
5) Ibidem.
6) Il riferimento è qui a Sergio Lombardo, scritto di presentazione a “Una mostra di tre giovani pittori romani”, Sergio Lombardo, Renato Mambor, Cesare Tacchi, Galleria La Tartaruga, Roma, aprile 1963.
7) A. Tugnoli, Il punto di Cesare Tacchi in La Scuola di Piazza del Popolo, M&M, Firenze 2004, pp.67-68
8) U. Boccioni, C. Carrà, L. Russolo, G. Balla, Severini, La Pittura Futurista. Manifesto tecnico, aprile 1910.
9) G. Dorfles, Civiltà (e inciviltà) dell’immagine (estratto da Almanacco Letterario Bompiani, 1963). Catalogo della mostra “13 Pittori a Roma”, Galleria La Tartaruga, Roma, febbraio 1963.
10) Si legga, ad esempio: M. Calvesi, Cesare Tacchi, made in Italy in Cesare Tacchi. Tappezzerie, Studio Soligo, Roma 1999.
11) Le citazioni sono tratte da Cesare Tacchi, intervista a cura di Rossana Palma, In Zigzagando. “Antilogica”, catalogo della mostra, Bologna, Galleria de’ Foscherari, dicembre 2005-gennaio 2006, Bologna 2005, p.14.
12) F. Pirani, Intervista a Plinio de Martiis in “Roma Anni ’60. Al di là della pittura, catalogo della mostra a cura di M. Calvesi e R. Siligato, Roma, Palazzo delle Esposizioni, 20 dicembre 1990-15 febbraio 1991, Edizioni Carte Segrete, Roma 1990, pp.339-341.
13) Roland Barthes pubblica l’articolo dapprima in inglese, The death of the Author, nel 1967 su “Aspen Magazine” n.5/6, poi in francese, La mort de l’auteur, nel 1968 in “Manteia”, 5.