Patrizia Mania

C’è un campo di pensieri che ha ispirato ed innervato la base concettuale di questa dodicesima edizione di Manifesta a Palermo, al cui centro è il concetto di “Giardino planetario” formulato dal paesaggista Gilles Clément, autore, tra l’altro, del “Manifesto del Terzo paesaggio”, pamphlet che innegabilmente accompagna e sostiene il senso complessivo di questa densa impresa. Il “Terzo paesaggio” scrive Clément “è costituito dall’insieme dei luoghi abbandonati dall’uomo. Questi margini raccolgono una diversità biologica che non è a tutt’oggi rubricata come ricchezza”(1).
E Manifesta 12 che nel progetto curatoriale dei creative mediators designati - Bregtje Van der Haack, Andrés Jacque, Ippoliti Pestellini Laparelli, Mirjam Varadinis - si declina proprio come “Giardino Planetario, Coltivare la coesistenza”, entra nell’ubi consistam della città trovando in un quartiere come la Kalsa il suo cuore pulsante. Che è infatti un luogo, tanti luoghi, nei quali regna uno stato di abbandono che, per quanto pervicacemente contrastato, sembrerebbe mantenersi orgogliosamente resistente e congenito e che è in tale prospettiva proprio un “margine” di straordinaria ricchezza corrispondente eloquentemente alla teoria di Clément.
A monte dell’intero progetto di Manifesta 12 è uno studio preliminare affidato dalla Fondazione Manifesta e dal Comune di Palermo a OMA (Office for Metropolitan Architecture) e volto a elaborare un’esplorazione della città di Palermo divenuta poi la base di connessione con Manifesta 12. Questo studio ha preso forma in un atlante su Palermo -Palermo Atlas- che è nella sua struttura e nei suoi corpora lo sfondo contestuale di questa biennale.
I nove capitoli del volume Palermo Atlas corrispondono ai temi centrali di Manifesta 12. Il primo tema è quello della “geografia” che nello specifico dell’atlante concerne il traffico di merci che transita per il Mediterraneo e che vede Palermo come “intersezione di condizioni liminali e baricentro di un sistema che si spinge anche oltre il bacino del Mediterraneo”. Alla geografia, storicamente e politicamente frammentata, segue il tema del turismo di cui l’atlante traccia un itinerario storico attraverso le vicende che dai Grands Touristes giungono fino all’attuale turismo di massa che, come accade ovunque, anche nel caso di Palermo privilegia una “contrazione semplificata ad un’area ristretta della città” corrispondente al suo cosiddetto centro storico dove approdano e si concentranoi suoi visitatori in grande numero.
Ma i “numeri” di chi arriva a Palermo non sono esclusivamente quelli dei turisti; in questa conta occorre inevitabilmente sommarvi quelli dei migranti, gli “arrivi” di cui tratta il terzo capitolo, molti dei quali si trasformano nei suoi nuovi abitanti . Sono proprio principalmente questi gli “abitanti” osservati nel quarto capitolo, a proposito dei quali si è posto l’accento in particolare sul fenomeno generativo di nuove comunità che hanno determinato l’attuale multiculturalismo della città che, peraltro già radicato nelle vicende storiche del passato, continua a dare vita a singolari forme di sincretismo. Per diretta analogia al tema e al contesto, Giuseppe Barbera, professore di Colture arboree dell’Università degli studi di Palermo, cita come prima fonte degli “arrivi” approdati a Palermo, il paesaggio dipinto da Francesco Lojacono “Veduta di Palermo” ed esposto per la prima volta nel 1875 in occasione del XII Congresso degli Scienziati italiani a Palermo. Scrive in proposito: “Con realismo ottocentesco, Lojacono ribadisce la grande ricchezza biologica del paesaggio mediterraneo, l’esemplare convivenza tra specie indigene ed esotiche, la capacità di adattamento ai caratteri dell’ambiente che, come nella lunga aridità estiva, sanno essere estremi o possono trasformarsi in una dolcezza paradisiaca”(2). Una dolcezza paradisiaca che nello specifico della città di Palermo è stata però negata e violata nel periodo buio della speculazione edilizia, quando tra gli anni Cinquanta e la metà dei Novanta, la città subirà una trasformazione deturpante, caotica e assolutamente priva di indirizzo urbanistico. A segnare a fuoco la sua identità sarà un sistema criminale costruito dalla complicità di mafia e politica, ma anche, e non in sottordine, di aristocrazia e Chiesa cattolica, e che comprometterà e ferirà cinicamente e nel profondo la sua immagine, compiendone uno scempio. A tutto questo dà voce attraverso una rilettura incrociata delle architetture messe in opera, dell’ attenzione dei media e delle memorie personali, il quinto capitolo dell’atlante che riguarda appunto la “mutazione della città”. Tra i capitoli, il più devastante nel riferire dei danni provocati dal prevalere di interessi privati sul bene pubblico. Magistralmente, lo scrittore Giorgio Vasta nel suo saggio in cui evoca, scompone e traduce la parola “Palermo”, impiega questa parafrasi : “ Quando dico Palermo – se faccio davvero attenzione – sento lo spazio fisico della città rapidamente contrarsi e sbriciolarsi, come un foglio di carta che brucia dai margini verso il centro” (3).
Non c’è dubbio che il ritratto della Palermo moderna si inscriva nel relativo immaginario filmico che è infatti l’oggetto del capitolo dal titolo: “Palermo nel cinema: un’esplorazione cinematografica”. La ricerca affidata al videoartista Davide Rapp, a Giorgio Zangrandi e Guglielmo Di Chiara ha indagato i tanti volti di questa città, testo e pretesto di innumerevoli pellicole, tra le quali ne sono state visionate e schedate centocinquanta che, spaziando lungo un’infinità di generi, concorrono a definirne stereotipi e feroci raffigurazioni.
Il settimo capitolo dell’Atlas riguarda ciò che della città è stato “abbandonato, incompiuto, non realizzato”. Motivi diversi in cui circostanze naturali si mischiano a catastrofi belliche e mala politica sono all’origine di questo ulteriore aspetto di paesaggio fatto di macerie e di deterioramento persistente. Scrive ancora Giorgio Vasta a proposito proprio del quartiere Kalsa lungo le cui costruzioni, come dicevamo, si snoda la maggior parte di questa Manifesta: “La Kalsa è un fossile (…) per quarant’anni è sopravvissuto a qualsiasi tentativo di modernizzazione. È la prova di una totale impenetrabilità a qualsiasi forma di governo. I nuovi visitatori percepiscono le rovine del bombardamento del 1943 come qualcosa di incredibile, mentre per i palermitani sono parte integrante della città. In effetti sono monumenti involontari che riflettono la staticità degli ultimi anni” (4). E nella cornice di Manifesta sembrerebbero proprio significativamente valorizzati come tali.
E se ogni forma di atlante di per sé non può sottrarsi alla documentazione, come prescindere dagli archivi, luoghi deputati alla raccolta e alla fruizione dei documenti? E, gli “archivi della modernità” di Palermo su cui ci si è soffermati nell’Atlas  sono per lo più archivi privati. Ne sono stati individuati dodici e tra questi anche quello della grande fotografa palermitana Letizia Battaglia che intervistata da OMA lancia una petizione pubblica perché il futuro della miniera di pellicole e stampe da lei custodite possa trovare una collocazione adeguata.
A conclusione dell’Atlante c’è un capitolo dedicato al “viaggio” che è dentro il perimetro esteso di Palermo e che è multiformemente tracciato da itinerari inediti suggeriti dai suoi stessi abitanti con tanto di elenchi e siti indicizzati come se, nella valorizzazione di questi luoghi, si stia tentando di stimolare nuovi equilibri nella comprensione di questa città. Non è certamente un caso che si riferisca di questa esplorazione in chiave terapeutica parlando di una sorta di ”agopuntura urbana”.
E se questa è la base di Manifesta 12, sbaglierebbe però chi ritenesse che tutto questo complesso portato dell’Atlas sia stato poi didascalicamente interpretato dagli artisti, come se si dovesse trattare di svilupparlo tale e quale nell’arte. Sulla scorta di questo background, i creative mediators – rispetto a quella dei curatori questa nomenclatura si confà peraltro maggiormente all’operatività svolta – hanno poi a loro volta , progettato un’ulteriore struttura distribuita in tre sezioni intitolate: Garden of Flows, Out of Control Room, City on Stage. Titoli che immediatamente ci dirottano verso ulteriori orizzonti aggiuntivi mettendo insieme la metafora del Giardino Planetario con allusioni alle condizioni circostanziali dell’attuale mondo globalizzato –Flows, Out of Control, Stage – puntualmente assunti nei lavori artistici in molteplici forme e modi. E dicendoci in primo luogo quanto la ricerca artistica, configurando critiche e prefigurando tracciati, debba spesso considerarsi pioneristica nell’avviare riflessioni e metodi di comprensione del presente.
Tra i “flussi” intercettati, Leone Contini, nell’incantevole cornice dell’Orto Botanico palermitano, mette letteralmente a frutto una ricerca decennale sull’acclimatazione e la coabitazione di varietà migranti realizzando un orto sperimentale, Foreign Farmers (2018). Qui l’artista ha costruito un pergolato in cui, una volta piantati, i semi di numerose varietà di zucche crescendo si confondono e ibridano la specie locale con omologhi bengalesi, srilankesi, filippini, cinesi e turchi. A fare da contrappunto sono delle scritte nella lingua originale dei “portatori di semi” – i Farmers - vergate sulla corteccia delle canne di sostegno, testimoni della storia di coloro che hanno reso possibile questa coltivazione che tra l’altro occupa una parte dell’Orto Botanico originariamente dedicata agli esperimenti di acclimatazione di specie provenienti dalle colonie. E se questi flussi riguardano specie botaniche migrate, Khalil Rabah in Relocation, Among Other Things (2018) nel Padiglione Tineo dell’Orto Botanico ci spinge ad uno slittamento verso i flussi delle cose, degli oggetti provenienti da contesti e storie differenti che si ritrovano spesso affastellati nei mercati, gli uni accanto agli altri a definire nuovi agglomerati associativi. Come le cose e i semi anche la frutta viaggia su rotte migratorie e a darne una rappresentazione immersiva è l’installazione Theatre of the Sun (2018) del collettivo Fallen Fruit (5). L’ambiente ricreato fatto di carta da parati e tende trasfigura una sala di Palazzo Butera e offre ai visitatori la Public Fruit Map di Palermo (6) che cartografa la posizione di centinaia di alberi da frutti in spazi pubblici e privati della città. Un invito ad esperire nuovi ed inaspettati itinerari urbani. Sempre sui flussi si svolge un’interessante operazione del collettivo Cooking Sections (7) che in più punti della città stimola una riflessione sui sistemi di distribuzione alimentare sul piano globale. Nell’area sovrastante la Chiesa di Santa Maria dello Spasimo il tema affrontato è l’acqua e i sistemi di canalizzazione e terrazzamento ideati nel corso dei secoli in Sicilia che hanno permesso alle piante di sopravvivere anche in caso di siccità. E che qui in What is above is what is below (2018) prova ad immaginare un sistema di irrigazione fatto di mattoni che possa consentire alle piante di essere irrigate anche in carenza di acqua.
A dar prova dell’interconnessione dei temi è anche fuori dalla sezione Garden of Flows il fatto che i flussi permangano centrali seppure incanalati in altre direzioni. La sezione Out of Control Room sposta l’attenzione sui flussi digitali, riferendo soprattutto di quelli che solitamente consideriamo Big Data, indagando la possibilità di rendere visibili e tangibili quei dati virtuali che amministrano, spesso in maniera opaca, varie forme di potere sfruttando o nascondendosi proprio dietro il carattere di intangibilità e di inaccessibilità. Tra questi numerosi focus è l’installazione Articolo 11 (2018) di Tania Bruguera che in un’opera corale ha costruito una raccolta di documenti, fotografie, video, pitture murali che descrivono il variegato fronte della protesta scatenatosi a seguito dell’attivazione del MUOS nei pressi della cittadina di Niscemi, nella Sicilia sud-orientale. Qui, l’attivazione da parte degli Stati Uniti di un nuovo sistema di comunicazione globale chiamato appunto MUOS (Mobile User Objective System) in grado, grazie ad un provider globale, di condurre una guerra a distanza muovendo droni e velivoli a pilotaggio remoto si è scontrata con un fronte di acerrimo e variegato dissenso. Un lavoro politico sintonizzato in questo con gli altri presenti nella sede di Palazzo Ajutamicristo. Nella stessa sala, Filippo Minelli, ha allestito una parata di bandiere Across the Border (2010 – in corso) che connette in un progetto in progress gli esiti di un network realizzato come processo condiviso intorno al tema della migrazione. Appropriazioni, riposizionamenti, veri e propri détournement, sono in questa sede il filo conduttore come è anche il caso della cabina telefonica ideata da Peng! Collective Call A Spy (2016) in cui il visitatore può entrare in contatto, e non è una simulazione, con una delle agenzie internazionali di servizi segreti ed instaurare una conversazione con una spia rimanendo nell’anonimato.
Entrare nel cuore dei sistemi esperendo la fragilità delle barriere fornisce al visitatore la possibilità reale di infrangere dei divieti scavalcando le reti di sorveglianza per accedere nelle faglie della sicurezza. Certamente un modo per trasformare i consueti punti di vista anche penetrando nelle zone d’ombra dei sistemi dell’arte. Efficace a questo proposito la video installazione Baida (2017) dell’artista russa Taus Makhacheva.  Il video, registrato in occasione della 57° Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia (2017) ci trasporta nel luogo di una performance svoltasi in quei giorni nelle acque antistanti la laguna dove alcuni performers apparivano e scomparivano su una barca capovolta trasportata dal Mar Caspio. Proprio sul Mar Caspio con i pescatori del villaggio di Starii Terek in Daghestan l’artista aveva precedentemente intrattenuto una serie di conversazioni nel corso delle quali avevano raccontato le loro storie facendo così emergere la paura più grande: quella di cadere in mare e di morire senza che il loro corpo venisse più trovato. A queste storie riferite il video ne aggiunge un’altra che le voci fuori campo veicolano ed è quella di un gruppo di visitatori della Biennale di Venezia che mostrano di essere dentro al sistema dell’arte e nei cui commenti nell’attesa di raggiungere il luogo della performance si legge una certa manierata vacuità nel guardare e nel vivere l’arte dal punto di vista degli addetti ai lavori.
Appare evidente dunque come molti dei lavori e delle ricerche contemplino il doppio registro dell’appropriazione degli strumenti in funzione diversiva e della denuncia politica. Su questo crinale si colloca certamente Unending Lightning (2015 – in corso), l’imponente installazione di Cristina Lucas che in una sede storica di significativa rilevanza, la Casa del Mutilato, ha costruito una video installazione a tre canali. Sulla base dell’incrocio dei dati raccolti da diverse banche dati, Lucas mette in scena con straordinario effetto immersivo la sequenza degli attacchi aerei su aree civili che a partire dal 1911 quando durante la guerra italo turca avvenne il primo bombardamento, si sono susseguiti fino ad oggi accostando alle date e ai luoghi una simulazione cartografica dinamica e immagini testimoniali di ogni singolo evento, fornendo inoltre al visitatore la possibilità di accedere lui stesso alla banca dati e poter dunque svolgere specifici mirati approfondimenti. Il fatto poi che la sede ospitante sia la Casa del Mutilato di Palermo, edificio di impronta razionalista progettato nel 1939 dall’architetto Giuseppe Spatrisano e celebrante in tutta la sua retorica la figura del mutilato di guerra sottolinea lo stridente accostamento tra il mito della Roma imperiale nell’architettura che inneggia all’uomo nuovo, l’eroe, il mutilato, il reduce di guerra  e il mito dell’aereo che, magnificato dalla retorica del progresso, dopo pochi anni dalla sua invenzione si piega a divenire strumento di morte.
La memoria storica in dialogo con il presente è uno degli assi lungo il quale si snoda anche nella terza sezione di Manifesta, City on Stage, e qui in particolare entrando nel vivo della possibilità di creare in progress delle reti di pensieri, di itinerari, di esperienze. Proprio su un rimando storico, quello delle esperienze del colonialismo, si declina il progetto Viva Menilicchi! di Wu Ming 2 (8). Il titolo recita il grido che i socialisti ed anarchici palermitani lanciarono nel marzo del 1896 durante una manifestazione contro il colonialismo dopo la sconfitta italiana nella battaglia di Adua contro le truppe abissine del negus Menelik II. Un grido di protesta che diviene il concept dal quale è partito un progetto che si sviluppa partendo dai luoghi del ricordo e dalle esperienze del presente che riannodano quella lontana esperienza alle ondate di migranti eritrei ed etiopi, i colonizzati del passato, che oggi approdano sulle coste siciliane. L'installazione disegna una mappa dei luoghi riconducibili a questi fatti e interattivamente grazie anche al supporto del collettivo palermitano Fare Ala permette a chiunque possegga dei dati di testimoniarne e accrescere quello che potremmo ritenere un ulteriore atlante e che condurrà alla passeggiata urbana programmata per il 20 ottobre 2018 quando per le vie di Palermo si darà voce a questo racconto plurale.
Dunque, scrivere o riscrivere attraverso l’atto performativo condiviso il pensiero sulla storia e sul paesaggio ma anche sulla memoria e il presente come avviene attraverso il cinema trasportato nelle vie e nelle piazze nel laboratorio set cinematografico Videomobile (2018) proposto da Masbedo (9).
Delle performance svolte restano poi le tracce, come accade per Tutto (2018) di Matilde Cassani del quale, dopo l’evento dei giorni dell’inaugurazione, restano stendardi e tende a prospettarne il continuo presente. O come ha proposto Marinella Senatore in un progetto di partecipazione condivisa, Palermo Procession (2018), del quale espone poi le vestigia, gli stendardi e gli oggetti creati dai partecipanti.
Il viaggio, le merci, gli archivi, le piante, gli abitanti, il paesaggio, le mutazioni, l’incompiuto e gli abbandoni si trovano così a delineare attraverso l’arte un laboratorio in fieri che spasmodicamente ridisegna il volto della città facendone affiorare potenzialità sommerse. Così che, il flussi, i fuori controllo, le peregrinazioni dei lavori artistici si compenetrano scivolando l’un nell’altro, fornendo, in ultima analisi, una lettura dell’atlante di continuo vivificato dalla partecipazione attiva e condivisa in chiave warburghiana.
In questo senso, Manifesta 12 va, oltre che studiata nei suoi supporti teorici, vissuta nelle sue sollecitazioni, pensata come un laboratorio in fieri dal quale trarre non un’idea statica ma una sollecitazione dinamica che solo nelle ibridazioni, negli scarti, nelle frammentazioni e nel concorso di chiunque ci si avvicini, trova la sua peculiare e utopica energia identificante.
Luglio 2018
1) Gilles Clément, Manifesto del Terzo Paesaggio, Quodlibet, 2017, p.11.
2) OMA, Palermo Atlas, Manifesta 12, Hum boldt Books, 2018, p.162.
3) Giorgio Vasta, “La parola Palermo”, in, Palermo Atlas, cit., p.206.
4) Giorgio Vasta, in, Palermo Atlas, cit., p.285.
5) Fallen Fruit è il prodotto di una collaborazione artistica iniziata nel 2004 a Los Angeles tra David Burns, Matias Viegener e Austin Young. La prima iniziativa di Fallen Fruit è stata di mappare tutti gli alberi da frutto di Los Angeles.
6) La Public Fruit Map di Palermo fa parte di un progetto globale in progress, Endless Orchard, che si propone di mappare la presenza urbana di frutti commestibili nelle città di tutto il mondo, con l’intento di stimolare una riflessione sugli spazi pubblici che pur conservando la storia locale si trasformano di continuo.
7) Cooking Sections è un duo di artisti composto da Daniel Ferdinández Pascual e Alon Schwabem che indagano il sistema di distribuzione alimentare sul piano globale.
8) Wu Ming è un collettivo di scrittori e attivisti nato a Bologna nel 2000 e al momento composto da Roberto Bui (Wu Ming 1), Giovanni Cattabriga (Wu Ming 2) e Federico Guglielmi (Wu Ming 4). Wu Ming è autore di romanzi storici tra i quali “54”, “Manituana”, “L’Armata dei Sonnambuli” e “L’Invisibile Ovunque”, editi da Einaudi. L’attività del gruppo si concentra anche sulla creazione di narrazioni ibride e di non-fiction scritta con tecniche letterarie, tra inchiesta, letteratura di viaggio, intervento critico su ambiente e paesaggio, storia e indagine sui non-detti dell’Italia postcoloniale. I membri del collettivo Wu Ming hanno inoltre avviato la Wu Ming Foundation, una libera federazione di collettivi, gruppi d’inchiesta, laboratori, progetti artistici, culturali e politici.
9) I Masbedo sono un duo artistico nato nel 1999 e composto da Nicolò Massazza (1973, Milano) e Jacopo Bedogni (1970, Sarzana) .