Palermo come metafora di una convivenza possibile

Lucilla Meloni

La città di Palermo, città multiculturale da secoli, sincretica dalla natura all’architettura, alla cucina, al linguaggio, ha accolto con generosità questa edizione di Manifesta, che con le opere di circa 50 artisti si snoda in 20 sedi tra chiese, oratori, spazi espositivi, luoghi non istituzionali, giardini; per l’occasione inoltre molte opere sono state collocate in palazzi nobiliari semidiroccati o solo parzialmente restaurati, purtuttavia di ineguagliabile bellezza.
Il titolo della mostra  Il Giardino Planetario. Coltivare la Coesistenza muove dalla metafora botanica di Gilles Clément (che ha progettato nel quartiere Zen il giardino urbano Becoming Garden), che definisce il mondo in cui viviamo come un giardino, come appunto l’Orto Botanico di Palermo, che fondato nel 1789 per la coltivazione delle piante medicinali, accolse successivamente specie di flora esotiche non ancora classificate e poi fu sede di sperimentazioni sulla botanica “coloniale” (1913).
L’Orto ospita 12.000 specie e, scrivono i curatori in catalogo: “Per la sua predisposizione ad accogliere il movimento, lo scambio e la mescolanza di semi e piante, l’Orto Botanico è stato scelto come sede centrale di Manifesta 12. Utilizzando il giardino come metafora Manifesta 12 esplora nuove forme di pratiche politiche basate sulla coesistenza e impollinazione incrociata”.
Le tre sezioni in cui si articola il progetto curatoriale di Bregtje van der Haak, Andrés Jaque, Ippolito Pestellini Laparelli, Mirjam Varadinis: Garden of Flows, Out of Control Room e City on Stage toccano temi centrali della nostra contemporaneità, quali la coesistenza tra i popoli, le migrazioni, la sopravvivenza del pianeta e l’inquinamento, i flussi digitali, le nuove forme di controllo, i diversi volti delle guerre e poi, ancora, la persistenza della memoria o il suo stravolgimento, le nostre paure.
Questioni attuali e condivise: l’idea della coesistenza informava infatti anche l’ultima Biennale di Istanbul, intitolata A good neighbor, come comune a molti artisti è la pratica di attingere ai dati di realtà secondo un procedimento archivistico o quanto meno classificatorio, che trova in questa Biennale un territorio privilegiato, forse proprio perché il punto concettuale da cui si origina è la vita all’interno di un Orto Botanico.
Progetti urbani sviluppati nel periferico quartiere Zen, a Pizzo Sella e nella costa Sud, luoghi di abusivismo edilizio e di non-finito, una serie di proiezioni cinematografiche, un fitto Public Programme, la presenza di molte opere e di alcune performance creano in questa edizione di Manifesta una trama di eventi fatta di echi e rimandi, dove, alla fine del percorso, prende forma, come in un puzzle, un racconto corale. Poi, come sempre accade nelle mostre connotate da un progetto curatoriale fortemente definito e orientato a una riflessione sull’esistente, le opere migliori appaiono quelle che ne accolgono le suggestioni ideali, evitando il rischio di cadere nell’illustrazione della realtà.
Palermo dunque, come scrivono i curatori: “una città le cui forme e dinamiche sono state incessantemente ridefinite da un costante flusso migratorio” è stata protagonista di questa Biennale, al pari delle opere e delle performance prodotte dai singoli autori e dai collettivi e nelle piazze e nelle strade si sono svolte alcune manifestazioni dal carattere festoso e popolare, in dialogo con la cultura del territorio, tra rito e mito. Emozionante Tutto, allestito da Matilde Cassani ai Quattro Canti, con scoppi di cannone, fumo, coriandoli e stelle filanti accompagnati dalla musica dei Tamil, che ricordava la festa di Santa Rosalia. Così come la Palermo Procession ideata da Marinella Senatore, che preceduta dalla banda e colorata di stendardi prodotti da singole comunità e associazioni, si è snodata nel centro della città arrivando fino al mare, mentre amatori e professionisti ad ogni stazione proponevano un evento tra danza, musica, cori, teatro. Spazio sociale, la processione nel rinsaldare i vincoli che legano la collettività ripetendo un antico rituale, afferma anche il valore dell’inclusione in essa di chi fino ad allora le era estraneo.
Il rapporto tra il passato e il presente è declinato anche attraverso la riflessione sulla memoria: sia quella fondativa di valori civili e politici, sia quella culturale, cinematografica e sociale.
Nella sezione City on Stage il bel lavoro di Yuri Ancarani Lapidi  racconta l’”utilizzo” fatto da un certo tipo di turismo delle targhe commemorative e delle lapidi che costellano il tessuto urbano di Palermo: segnali che ricordano al passante luoghi dove magistrati, poliziotti, imprenditori, sono stati uccisi dalla mafia. Il video propone una serie di selfie scattate da turisti davanti a quei luoghi tristemente famosi, dove le lapidi, svuotate del loro significato morale e storico, si trasformano in un set su cui stagliare la propria immagine da immettere in rete. Un’opera importante in tempi in cui la perdita della memoria e, ancor peggio, la sua delegittimazione, incombono sull’Europa.
Ancora al tema della memoria e alla sua attualizzazione è dedicata Videomobile, l’installazione multimediale di Masbedo: un vecchio furgone merci trasformato in un “carro-video” che, come scrivono gli artisti: “percorre e  attraversa ‘fisicamente’ la memoria, nello specifico la memoria che emerge dal cinema di ricerca”.
I video sono l’esito delle azioni svolte sui luoghi in cui sono stati girati alcuni film, come Comizi d’Amore di Pasolini: in questo caso il 21-04-2018 ai passanti accanto alla Chiesa dei Genovesi e poi a Castello a Mare è stato chiesto di salire sul videomobile e di leggere alcune delle 146 domande sul sesso che Pasolini rivolse alla gente del posto circa mezzo secolo fa. 
Il Tributo a Vittorio De Seta, svoltosi il 27-3-2018 nei pressi del Castel Utveggio sul Monte Pellegrino, univa all’azione sonora del musicista Yuki O una selezione del panorama di Palermo tratta da due film del regista e sempre a Vittorio De Seta, controllato dalle forze dell’ordine in quanto uomo di sinistra, è dedicata l’altra opera di Masbedo: Protocol no.90/6 allestita nella suggestiva sala delle Capriate dell’Archivio di Stato.
Il titolo ripete il numero del faldone datato 1956 che conteneva numerose pratiche e denunce contro artisti, scrittori registi e giornalisti, adesso esposto in mostra. Nella Sala delle Capriate, dove antichi e innumerevoli faldoni accatastati rinviano a una memoria tanto sedimentata quanto inutilizzabile, campeggia sullo sfondo, in un sipario sospeso, l’immagine di un silenzioso pupo siciliano animato da Mimmo Cuticchio, che è una metafora della figura dell’artista, poiché, come scrivono gli autori: “L’artista è un uomo che libera le cose anche quando è legato e controllato. La voce dell’artista non si ascolta, ma c’è, è come se fosse un rumore vivo, proprio come quello generato dai movimenti del pupo”.
La presenza incombente del confine, più facilmente valicabile dalle merci che dagli esseri umani è un argomento molto sentito e pertanto ricorrente.
Nella sezione Out of Control Room l’artista libanese Rayyane Tabet presenta Steel Rings, 2013- ongoing e Letterhead, 1950-2013: una scultura suggerita dalla storia di un oleodotto lungo 1213 km prodotto dalla società americana Trans Arabian Pipeline, che dal 1950 al 1983 assicurò il trasporto di petrolio dall’Arabia Saudita al Libano attraverso la Giordania la Siria e le alture del Golan. Dismessa l’infrastruttura per cause politiche, oggi i resti dell’oleodotto sono i soli a poter passare i confini tra quelle terre. Stell Rings suggerisce l’idea dell’oleodotto attraverso la ripetizione modulare di elementi circolari il cui diametro e il cui spessore sono identici alla struttura reale. Ancora legata al viaggio come superamento del confine è l’opera dell’algerina Lydia Ourahmane The Third Choir: un’installazione sonora composta di 20 barili vuoti di petrolio Naftal esportati dall’Algeria nel 2014 che, mentre induce a una riflessione sul rapporto tra esportazione delle materie e emigrazione umana, è anche la prima opera d’arte esportata legalmente dal Paese dal 1962, anno dell’indipendenza dalla Francia, a causa delle leggi vigenti per la limitazione del trasporto delle opere d’arte.
Nella stessa sezione con Connected Air dell’olandese Richard Vijgen il nostro sguardo si eleva al cielo. E se il cielo è un elemento fondamentale nel paesaggio palermitano, sia quello reale che quello dipinto nelle volte delle chiese barocche, qui l’artista ci propone una visualizzazione di tutto ciò che vi transita, tra segnali wireless, satelliti, traffico aereo, condizioni dell’aria e correnti. Un flusso immaginario è invece quello che anima di The Soul of Salt dell’olandese Patricia Kaersenhout, che riallacciandosi a una leggenda caraibica che racconta degli “Africani volanti”: schiavi che evitavano di mangiare il sale per diventare così leggeri da poter tornare in Africa volando, allestisce una piramide di sale; i visitatori ripetendo un antico rito propiziatorio possono prendere un po’ di sale e scioglierlo nell’acqua: “a simboleggiare il dissolversi del dolore del passato”.
Un’opera che riesce a trattare la paura della morte e della scomparsa del proprio corpo in mare con delicatezza e poesia, è il video dell’artista russa Taus Makhacheva intitolato Baida. L’immagine di uno scafo proveniente dal Dagestan sul Mar Caspio, rovesciato tra le acque della laguna di Venezia, racconta una performance che non ebbe luogo durante la 57.Biennale del 2017, in cui alcuni performer avrebbero dovuto apparire e scomparire dalla barca capovolta, ripetendo i gesti dei pescatori del Mar Caspio che, se caduti in mare, si legano alla prua della barca per far sì che il loro corpo venga ritrovato e quindi compianto dalla famiglia.
Protagonisti della sezione Garden of Flows, da cui parte la mostra, sono gli elementi della natura: alberi, acqua, fiori e piante (veri o artificiali) semi, che con le loro migrazioni, il loro radicamento, le loro trasformazioni, le loro classificazioni sono una metafora del mondo umano, ma anche del tempo, del divenire e del trasformarsi delle cose.
L’opera dello svizzero Uriel Orlow Whishing Trees, video e fotografia, mette a confronto passato e presente, storia italiana e storia di migrazione attraverso la ripresa di tre alberi testimoni della storia. Se già precedentemente l’artista aveva dedicato la sua attenzione alla memoria degli alberi (The Memory of Trees), qui il titolo sta a indicare anche un desiderio di cui essi sono portatori.
Il cipresso piantato da San Benedetto il Moro, il primo Santo di colore della Chiesa Cattolica, figlio di schiavi portati in Sicilia, l’enorme Ficus Microphylla nei pressi della ex casa del giudice Giovanni Falcone e di Francesca Morvillo, uccisi dalla mafia nel 1992 e infine i resti dell’ulivo di Cassibile, nel Siracusano,  sotto il quale il 3 settembre 1943 l’Italia firmò la resa con gli angloamericani, sono lo scenario in cui alcuni persone raccontano la loro storia: la veterana anti-mafia Simona Mafai e cuochi migranti africani che vivono a Palermo. Nel rinnovato legame tra natura e  esseri umani, nel contatto fisico tra la mano e la corteccia, in un dialogo muto, sembra potersi ricreare un equilibrio perduto e, come in una favola, immaginare che le persone ereditino l’antica conoscenza degli alberi e che questi, a loro volta, facciano propri i loro desideri.
Luglio 2018