FREESPACE. 16.Mostra Internazionale di Architettura di Venezia

Daniela De Dominicis

Ancora una Biennale sui valori fondanti dell’architettura ma con un focus espositivo che intende ignorare gli edifici in sé concentrandosi invece sugli spazi che le architetture lasciano liberi, donati al mondo con “generosità di spirito e senso di umanità”(1). Dopo una quattordicesima edizione concentrata sugli aspetti puramente linguistici dell’architettura(2), una quindicesima che ne ha indagato le frontiere più estreme (3), ecco ancora uno sguardo obliquo sulla contemporaneità. Le due curatrici irlandesi, fondatrici dello studio Grafton Architects(4), Yvonne Farrell e Shelley McNamara, offrono come tema di fondo di questa sedicesima Biennale il Freespace, lo spazio pubblico: “spazio di opportunità”, democratico e libero, spazio di condivisione e di potenzialità inespresse; spazio che dialoga con ciò che è stato e con ciò che sarà, ricco di infinite stratificazioni culturali. L’architettura viene esaminata nel suo interfacciarsi con il mondo esterno, mondo che contribuisce a delineare, che modifica e da cui viene modificata, un mondo fatto anche di luce, di colori e di agenti atmosferici. Le linee guida della mostra, articolate in sette punti, sono state sintetizzate nel Freespace Manifesto, reso pubblico dalle curatrici nel giugno 2017, sulla base dei quali sono stati selezionati i 71 studi di architettura invitati alla mostra e solo in minima parte già noti.  Una prospettiva senz’ altro originale ma al contempo anche generica e indefinita, tanto da innescare risposte molto diverse e talvolta contraddittorie. Emerge tuttavia, nell’ attenzione agli spazi condivisi, un’apertura e un ottimismo che confligge con la diffusa ossessione nel mondo occidentale per la proprietà privata, la sicurezza, i controlli, i muri, le grate, le telecamere di sorveglianza. Il pensare l’esterno e l’incontro con gli altri come un’opportunità, ribalta senza dubbio queste prospettive asfittiche ed innesca positività e fiducia.
Tale poetica si ritrova, in primis, negli spazi espositivi della Biennale. Il padiglione centrale dei Giardini – che per tradizione ospita la mostra-guida della rassegna – è stato liberato di tutte le strutture che nel corso del tempo ne hanno modificato gli ambienti. In questo processo di apertura della scatola espositiva è emersa tra l’altro una dimenticata porta finestra di Carlo Scarpa con il telaio a cerchi intrecciati, dalla quale si può godere di nuovo della vista esterna e della luce della laguna. All’Arsenale invece l’allestimento è disposto arretrato rispetto alla lunga navata centrale per poter cogliere con un unico colpo d’occhio la straordinaria infilata prospettica delle Corderie. Questa sezione viene introdotta da una paratia di funi e per entrare è necessario scostarle. La loro pesantezza sorprende e obbliga anche i più distratti a prenderle in considerazione foss’anche per pochi attimi. E’ qui che la Repubblica di Venezia produceva i propri cordami e la prima sala ricostruisce la storia di questa fabbrica attraverso la proiezione a tutta altezza di antiche stampe mentre, per l’intera lunghezza della galleria, ci accompagna discretamente, a terra, la misurazione dell’ambiente in unità metriche e in piedi veneziani (315 metri in tutto).
La memoria, la consapevolezza dei luoghi e il senso della storia sembrano essere uno dei capisaldi di questa Biennale perché “la comprensione delle opere del passato è un elemento centrale del processo di rinnovamento”(5). Ai Giardini infatti, il primo ambiente è dedicato alla sezione speciale Close Encounter, meetings with remarkable projects in cui sedici fondamentali edifici storici – selezionati dalle curatrici – vengono analizzati da altrettanti studi di architettura(6). Ognuno di questi ne ha indagato la tecnica, i materiali, l’originalità spaziale, i segreti, i meccanismi di funzionamento: le opere del passato diventano “fonti di ispirazione viventi”(7). Un’altra riflessione storica la si ritrova qualche sala più in là con un approfondimento dedicato a Venezia e al suo contraddittorio rapporto con il contemporaneo. Si tratta di quattro occasioni perdute, progetti che la città ha per ragioni diverse rifiutato: il Masieri Memorial di Frank Lloyd Wright (1953), l’Ospedale di Le Corbusier (1963), il Palazzo dei Congressi di Louis Kahn (1968) e il Parco pubblico tra il mare e la laguna di Jesolo del designer Isamu Noguchi (1970). Queste ipotesi sono già state presentate da Carlo Scarpa alla Biennale del 1972 (Quattro progetti per Venezia) ed ora l’architetto statunitense Robert McCarter ripropone la stessa tematica attraverso gli elaborati scarpiani: in fondo la memoria è fatta anche di ciò che avrebbe potuto essere e non è stato. 
Sempre nel padiglione centrale, Cino Zucchi interviene anche lui sulla storia recente e con Meraviglie quotidiane indaga l’opera di Luigi Caccia Dominioni e ricostruisce con maquette in scala il complesso edilizio di Corso Italia a Milano. Ancora un omaggio ai maestri è la proposta del gruppo svedese (Kieran Long, Johan Örn, James Taylor-Foster) che rivisita l’opera dell’ancor poco studiato Sigurd Lewerentz(8) con preziosi materiali dell’archivio di Stoccolma (ArkDes). Dalla Svezia viene anche il contributo di Elizabeth Hatz che propone una selezione di disegni storici di diversi studi architettonici a partecipare il pubblico del fascino che il tratto e la materia dei progetti veicolavano fino a qualche decennio fa. Ancora su questo tema lavora Amateur Architecture Studio di base ad Hangzhou che contrasta la selvaggia modernizzazione cinese perpetuando antiche tecniche costruttive e dipingendo paesaggi dove gli spazi residuali lo permettono.
In fondo anche le operazioni di recupero in edifici convertiti ad uso sociale altro non sono che un voler conservare la memoria dei luoghi ed è sorprendente notare come alcune costruzioni abbiano in sé la flessibilità necessaria per essere rivitalizzate. Lavorano su queste tematiche lo studio britannico 6A, quello svedese Skälsö Arkitekter (che ha addirittura recuperato un bunker in calcestruzzo in un’isola del Mar Baltico), il francese Lacaton & Vassal, lo spagnolo Flores&Prats, il trio belga De Vylder Vinck Taillieu che qui presenta CARITAS – riconversione di una clinica psichiatrica parzialmente salvata dalla demolizione – nonché il padiglione francese che, con Infinite Places, racconta la storia di dieci luoghi del territorio nazionale recuperati alla fruizione pubblica(9). 
Altra tematica rilevante offerta da questa Biennale è l’attenzione ai linguaggi della diverse culture architettoniche con soluzioni ispirate alle varietà territoriali e climatiche. In questo ambito si registrano le proposte del sudafricano Peter Rich, dell’indonesiana Andra Matin, della tedesca Anna Heringer che opera prevalentemente nel Bangladesh, del belga BC Architects&Studies che utilizza per le sue costruzioni nel Burundi blocchi di terra compressa locali, dello studio bengalese Marina Tabassum Architects, il burkinabé Francis Kéré che qui propone un piccolo modulo di accoglienza estemporaneo.
In sintonia con il quarto punto del manifesto(10) che sottolinea il dialogo tra l’architettura e gli elementi naturali va segnalata la splendida sala dedicata alle maquette dell’Atelier Peter Zumthor.  Manufatti illuminanti sia per lo studio del territorio, che per gli effetti di luce che l’architetto riesce ad ottenere con meditati ma al contempo semplici orchestrazioni volumetriche.
Le proposte più interessanti tuttavia sono quelle dedicate sia alle sperimentazioni abitative che agli interventi di trasformazione urbanistica. Tra i primi va segnalato Elemental – il gruppo di architetti cileni fondato da Alejandro Aravena – che con una modalità espositiva lieve, fatta di fogli scritti a mano appuntati a parete, presenta articolate e originali riflessioni sul “sistema aperto” del suo costruire: la libera iniziativa degli abitanti completa la casa realizzata per metà con finanziamenti statali, dimezzando così gli oneri pubblici e innescando un creativo senso di appartenenza. Sugli immobili sociali interviene anche lo statunitense Michael Maltzan con Star Appartments (Los Angeles), 102 appartamenti per i senzatetto che si librano quasi in volo su preesistenti edifici ad un piano: il complesso offre ampi spazi comuni tutti da inventare. Qualcosa di analogo lo si ritrova anche nel complesso residenziale Tila a Helsinki firmato da Talli Architecture and Design. In questo caso la condivisione dei servizi si arricchisce anche della flessibilità dei singoli appartamenti che gli abitanti possono modulare secondo le proprie esigenze poiché trattasi di involucri vuoti di 50mq per 5 metri di altezza che è possibile riorganizzare a piacere.     
Sugli interventi urbanistici emerge, anche per la spettacolarità della presentazione, lo studio del gruppo BIG (Bjarke Ingels Group) per proteggere Manhattan da future (si prevede 2050) inondazioni causate dal cambiamento climatico. Si tratta di cintura lunga 16 km, organizzata lungo la costa della penisola, fatta di colline artificiali con alberi resistenti alla salinità che assolverà al contempo la funzione di un parco cittadino attrezzato. Di tutt’altro genere sono gli spazi pubblici di Caracas su cui riflette il padiglione Venezuelano (a cura di Nelsón Rodriguez), la splendida costruzione progettata da Carlo Scarpa, per la quale da anni si prevede un imminente restauro che non riesce a partire: in un allestimento volutamente caotico fatto con le griglie metalliche dei ponteggi, vengono illustrati i progetti con finalità polifunzionali per sottrarre le aree libere della città alla forte speculazione in atto. Aree tuttavia difficilmente governabili perché, come si legge in catalogo, “gli spazi liberi di Caracas sono gli spazi ribelli, per usi che sorgono e insorgono: rioccupati, rivalorizzati e riabitati perché a goderne siano le comunità”(11).
Infine uno sguardo sui restanti padiglioni nazionali, quest’anno 63, con l’esordio di Antigua&Barbuda, Arabia Saudita, Guatemala, Libano, Pakistan e Santa Sede. Deludenti alcuni, come per esempio l’Australia con Repair (a cura di Baracco + Wright Architects e Linda Tegg) che si misura con un esempio di risarcimento ecologico fatto di una distesa erbosa al centro della sala; la Gran Bretagna con l’espediente un po’ troppo semplice di Caruso-St John (che sono anche i curatori) di un padiglione vuoto, disponibile perciò per iniziative culturali diverse, ed un inedito punto di vista con una piattaforma costruita sul tetto; la Grecia (a cura di Xristina Argyros e Ryan Neiheiser) con i modellini dell’architettura universitaria nel mondo che solo un cavilloso ragionamento riesce a ricondurre al tema; e infine la Svizzera (a cura di Alessandro Bosshard, Li Tavor, Matthew van der Ploeg e Ani Vihervaara), con Svizzera 240-House Tour, che presenta interni domestici a scala variabile (ambienti e arredi troppo grandi, alternati a quelli troppo piccoli) la cui relazione con l’argomento della mostra sfugge completamente e che, pur tuttavia, ha ottenuto il premio come miglior padiglione nazionale con altrettanto sorprendenti motivazioni(12).  Degni di nota invece sono: il padiglione Statunitense (a cura di Niall Atkinson, Ann Lui, Mimi Zeiger) con uno sguardo globale sulle risorse, sul loro sfruttamento e sull’inquinamento visivo, il tutto realizzato con profondità di analisi e seducenti mezzi tecnologici; quello Israeliano (a cura di Ifat Finkelman, Deborah Pinto Fdeda, Tania Coen - Uzzielli) con le tempistiche calcolate al minuto con cui i diversi credo religiosi utilizzano i medesimi luoghi santi di Gerusalemme; quello Albanese (a cura di Elton Koritari) che, con un’installazione lieve da antico bazar, analizza la trasformazione dello spazio urbano nel passaggio da un’economia socialista al libero mercato. Infine il padiglione italiano (a cura di Mario Cucinella) in un allestimento elegante e raffinato, articolato in due parti: nella prima con interventi ritenuti particolarmente riusciti nei centri minori della penisola(13), nella seconda con le maquette di cinque architetture di spazi pubblici in corso d’opera(14).
Una Biennale non facile da raccontare dunque, sostenuta da linee guida molteplici che hanno prodotto risposte tanto diversificate da apparire disorientanti, ma nel complesso emerge netta la sensazione di essere in un periodo di transizione, di fermento e di grandi potenzialità.
Luglio 2018

1) Yvonne Farrell + Shelley McNamara, Freespace Manifesto, diffuso il 7 giugno 2017, pubblicato sul catalogo 16. Mostra Internazionale di Architettura, Venezia 2018.
2) fundamentals (a cura di Rem Koolhaas), 14.Mostra Internazionale di Architettura, Venezia 2014.
3) Reporting from The Front (a cura di Alejandro Aravena), 15. Mostra Internazionale di Architettura, Venezia 2016
4) Lo studio prende il nome dalla Grafton Street, la strada di Dublino sede della società dal 1978. In Italia lo studio ha realizzato la nuova sede dell’Università Bocconi a Milano (2008).
5) Yvonne Farrell + Shelley McNamara, la dichiarazione è riportata nei pannelli in mostra nella seconda sala del Padiglione Centrale.
6) Francisco Javier Sáenz de Oiza di A2 Architects ha riletto la Fundación Orteiza (Navarra), Boyd Cody Architects le due case di Eileen Gray (E-1027 e Tempe à Pailla), Noreile Breen la Casa Luis Barragán a Città del Messico, Bucholz McEvoy Architects il Delaware Park di Buffalo, Carr Cotter & Naessens Architects la Sala Corot di Auguste Perret a Parigi, Clancy Moore Architects la Hornbækhus di Kay Fisker a Copenhagen, Depaor la Chiesa dell’Autostrada di Giovanni Michelucci, Donaghy + Dimond Architects l’Anhembi Tennis Club di San Paolo, Kevin Donovan, Ryan W. Kennihan Architects la Maison du Peuple a Clichy, GKMP Architects l’edificio Girasol a Madrid, Hassett Ducatez Architects l’edificio di via del Quadronno 24 a Milano di Angelo Mangiarotti e Bruno Morassutti, Heneghan Peng Architects la Beinecke Library a New Haven, Mary Laheen Architects-Aoibheann Ní Mhearáin il Centre Jeanne Hachette di Jeanne Renaudie a Ivry-sur-Senne, Steve Larkin Architects l’Otaniemi Chapel a Espoo in Finlandia, Dominic Stevens- JFOC Architects il Maravillas Gymnasium a Madrid, TAKA Architects il Centro Comunal  Y Recreativo Nueva Santa Fe a Bogotá.
7) Yvonne Farrell + Shelley McNamara, Mostra Close Encounter, Giardini, cat. 16. Mostra Internazionale di Architettura, Venezia 2018, pag. 63.
8) Sigurd Lewerentz (1885-1975) architetto svedese. Tra le sue opere più note è il Cimitero del Bosco nella zona est di Stoccolma (insieme a Erik Gunnar Asplund).
9) Il padiglione francese (a cura dello studio Encore Heureux di Nicola Delon, Julien Choppin, Sébastien Eymard).presenta la riconversione di dieci luoghi distribuiti su tutto il territorio nazionale: Le CentQuatre a Parigi, Hôtel Pasteur a Rennes, La Grande Halle a Colombelles, Les Ateliers Médicis a Clichy-sous-Bois-Montefermeil, La Friche la Belle de Mai a Marsiglia, Le Tri Postal ad Avignone, Les Grands Voisins a Parigi, Le 6B a Saint-Denis, La Convention a Auch, La Ferme du Bonheur a Nanterre.
10) “FREESPACE offre l’opportunità di enfatizzare i doni elargiti dalla natura: la luce, il sole e il chiaro di luna; l’aria; la forza di gravità; i materiali – risorse naturali e artificiali”.
11) In catalogo 16. Mostra Internazionale di Architettura, Venezia 2018, pag. 165.
12) Le motivazioni della giuria pubblicate sul sito della Biennale per l’attribuzione del premio: “architettura piacevole e coinvolgente, ma al contempo affronta la questione chiave della scala costruttiva nello spazio domestico”.
13) Selezione di opere contemporanee raggruppate in otto itinerari che toccano tutto il territorio della Nazione, dalle Alpi all’intera dorsale appenninica, a testimoniare la qualità presente nei territori interni.
14) Si tratta di cinque progetti sperimentali: Off Cells, un luogo del lavoro per le Foreste Casentinesi; Un dittico per Camerino, connettere comunità e cultura nell’area del Cratere; Laboratorio Basento, due noti curativi per la Collina materana; Coltivare il futuro, una piazza per la crescita del Belice; La casa dei cittadini, un luogo della cura per la Barbagia.