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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

16. Biennale di Istanbul

Patrizia Mania

Cosa resterà di questo nostro mondo? La sedicesima edizione della Biennale di Istanbul ci ammonisce che il futuro è già adesso invitandoci a visualizzare attraverso l’arte alcuni snodi problematici ancorati nel presente ma che è lecito immaginare configurarsi domani in misura esponenziale. Già il titolo della Biennale “Il settimo continente” introduce a una dimensione che è quella del qui ed ora.
Innegabile infatti che l’immagine icastica della condizione del reale attuale possa dirsi emblematizzata da questa nuova terra emersa e giustamente nominata settimo continente – settimo in ordine crescente tra quelli emersi dopo l’era glaciale -. Subissati da una quantità immensa di detriti plastici affiorati nell’oceano, la The Great Pacific Garbate Patch ha lanciato un allarme ineludibile. L’invito di questa biennale curata da Nicolas Bourriaud è tentare di interloquire attraverso l’arte proprio con le problematiche che segnano l’età del riscaldamento globale.  Prova di per sé ardua e coraggiosa di assunzione critica di realtà.
Se si calcola che ogni anno più di dieci milioni di tonnellate di plastica si riversano negli oceani, ed è la ragione per cui un agglomerato di dimensioni immense è emerso qualificandosi appunto come il primo continente artificiale, prendiamo atto della portata del problema e congiuntamente della stringente attualità della proposta di questa biennale.
Così, prima ancora che avesse luogo a New York il summit delle Nazioni Unite sulla questione ambientale (Covering Climate Now, il suo esortativo titolo) e che il problema diventasse la bandiera di un movimento globale, ha aperto i battenti su questi temi una biennale che entra nel vivo di questa emergenza in tutti i suoi risvolti.  Dislocata in tre sedi – il Pera Museum, il Mimar Sinan Fine Arts University Istanbul Painting and Sculpture Museum, e l’isola di Büyükada – la mostra non privilegia il registro della denuncia, seppure sottotraccia inevitabilmente lo contenga, ma interroga la condizione del presente passando dai plurali sguardi dell’arte. Non dunque una proiezione avveniristica nel futuro ma un punto di partenza nel quale servirsi dell’immaginario critico per affrontarlo.
Al centro, gli artisti e le loro ricerche. Già in riflessioni precedenti (1), Bourriaud aveva proposto di considerare l’artista contemporaneo un “semionauta” intento a navigare e ad intercettare nelle sue esplorazioni il mondo, che qui specifica, dell’età dell’Antropocene. Partendo da quei presupposti, questa mostra affina in primo luogo l’idea dell’artista come antropologo(2).  Una lettura che, da Kosuth a Foster, si è dimostrata nel tempo fortemente corrispondente ai nuovi profili artistici sia dal punto di vista del campo di analisi prescelto che del metodo impiegato. In quest’occasione, Bourriaud spinge le sue considerazioni elaborando ulteriori specificazioni che partendo dal mondo della scienza in senso stretto approdano all’arte e al suo potenziale critico. “Those methodologies of reduction or pulverisation intend to translate visible reality into particles and atoms thus opposing those set up by capitalism which reduce beings and things to another kind of unity: that of their monetary value. By contrast, molecular artistic practices aim to intensify reality by valuing each being or object's unique composition...Alloys or chemical montage,  artworks obey  the same rules as a living organism composition”(3) . Proprio in questa architettura espansa lungo la quale si dipana oggi l’operato dell’artista vi legge l’esercizio di un’“antropologia molecolare” che è la chiave di volta per avvicinare e comprendere le tante disseminazioni e gli arditi accostamenti – le molecole - messi multiformemente in campo.
Se la figura dell’antropologo molecolare descrive in maniera larga ed accattivante obiettivi e metodologie cui si fa ricorso, ad essa si affiancano a testimonianza della plurale complessità ulteriori figure di volta in volta corrispondenti alle modalità e ai campi di relazione indagati.
Come trascurare ad esempio l’importanza che in questo variegato e incontenibile mondo della superproduzione assumono le pratiche archivistiche in molte ricerche artistiche? Oltre a porsi come strumento di facilitazione alla comprensione della moltitudine differenziata costituiscono una premessa metodologica a vari campi disciplinari. Schedare, sistematizzare tipologicamente, considerando i contesti di pertinenza, è ad esempio mestiere precipuo dell’archeologo e la ridondanza dei riferimenti ai metodi e agli orizzonti propri di questo ambito disciplinare induce a constatare come anche l’archeologia e le sue pratiche si rivelino una strada particolarmente battuta dall’immaginario contemporaneo. L’appetito per le informazioni storiche, la capacità di interrogarle anche quando contenute nei materiali fossili, oltre che frequentemente di interpolarle, rappresenta un’istanza fortemente richiamata da molti dei lavori proposti. Di tal guisa, nel forsennato desiderio di contemplare una traccia stratificata e archivisticamente pronta all’uso alcuni lavori permettono di parlare di artisti / archeologi del presente. Di un presente in ovvia perenne trasformazione e nel quale a far la differenza è che non sia dato, ma vissuto. Impresa titanica che rende conto dell’illusione di onniconsiderare predisponendosi ad un dopo che è possibile intravedere perimetrandone a fatica gli argini. Non, come già si diceva, avveniristica visione del futuro, ma circostanziata e però – paradossalmente rigorosa - immaginaristica osservazione fenomenologica del presente, con tutte le aporie che ciò inevitabilmente comporta.
Da questo punto di vista, una riflessione sulla fragilità, l’incertezza, l’instabilità dei nostri sistemi epistemologici è condotta da molti, tra cui, esemplarmente, Paul Sietsema attraverso i suoi film e le manipolazioni illusionistiche realizzate con pitture e disegni. Nel film proposto per questa biennale Figure 3 (4) si osservano una serie di immagini di oggetti archeologici che a sorpresa scopriamo simulati, realizzati infatti ex novo dall’artista. Irrompendo e spezzando i confini tra ciò che è autentico e ciò che falso ne discutono e svaporano l’importanza stessa.
 Per altra via, nell’installazione Circa (5) l’artista Anna Bella Geiger propone di appropriarsi delle forme di documentazione archeologiche e paleontologiche piegandole a dei nuovi percorsi di racconto anche allo scopo di evidenziare l’imprecisione e a volte l’arbitrarietà delle ricostruzioni effettuate. In quest’ottica trova posto anche la scelta di presentare Civilization of Lhuros (6) uno dei più impegnativi lavori di Norman Daly al quale attese dal 1972 e che lo condusse a realizzare alcuni manufatti scultorei - figure votive, porte templari, steli, trofei e pitture murali - e a scrivere un poema visivo immaginario della civiltà dei Lhuros. Una messa in discussione fictionnaliste delle presunte inossidabili ragioni epistemologiche.
Tornando al mainstream dell’ambiente, tra le cause della sua compromissione è certamente lo sfruttamento intensivo edilizio del suolo visto che concorre (stanti le statistiche riferite) con una percentuale del 6% all’annuale emissione di biossido di carbonio sul nostro pianeta. L’installazione Monochrome di Ozan Atalan (7) si concentra su un caso estremamente eloquente: quello della distruzione dell’habitat dei bufali d’acqua nell’hinterland di Istanbul. La recente costruzione del faraonico nuovo aeroporto di Istanbul – classificato come il più grande aeroporto del mondo – diviene il pretesto per trattare dell’impatto determinato nell’ambiente (proprio quello dei bufali d’acqua) e stigmatizzato nelle sequenze video e nel grande scheletro che domina al centro lo spazio, rigorosamente monocromatico, dell’installazione di Atalan.
Nell’età dell’Antropocene i mutamenti climatici strettamente conseguenti i diktat del capitalismo, colpevoli seguendo la logica del profitto di aver sfruttato al massimo le risorse ambientali, sono da molti ritenuti all’origine del deterioramento naturale: ed è la prospettiva prescelta dalla ricerca di Elmas Deniz che nel suo Lost Waters (8) sviluppa una sorta di psicogeografia di Istanbul che allerta sull’incertezza del futuro.
È notorio che tra le miriadi di cause che mettono a rischio la sopravvivenza del nostro pianeta è ai primi posti da annoverare l’inquinamento dell’aria e dell’acqua. Pensando in particolare alla conservazione dell’arte del passato e del presente, affinché perdurino nel tempo, una delle principali sfide sta nell’attrezzarle per resistere all’assedio degli agenti atmosferici. Significativa in tal senso la riflessione di Simon Starling che partendo dalle vicissitudini storiche del commovente Guerriero con scudo di Henry Moore (9), dopo averne fatto realizzare una copia e averla immersa per un anno e mezzo nelle acque del lago Ontario, costruisce un racconto parallelo basato sull’interpolazione di fonti storiche e immaginarie. Muovendosi dall’estrema fierezza di questo guerriero, drammaticamente mutilato – è privo di un braccio e di una gamba –   l’artista puntigliosamente e con ardito associazionismo imbastisce un’ibrida narrazione che mette insieme alcuni dati storici – la presenza di una versione della scultura nel The Henry Moore Sculpture Centre nella Art Gallery dell’Ontario (AGO); l’introduzione nelle acque del lago Ontario nel 1988 della dreissena polymorpha, un mollusco meglio noto come la cozza zebrata; alcuni misteriosi legami con lo spionaggio negli anni della Guerra fredda - . Nel 2007 Starling fa immergere, come si è detto, la sua copia della scultura di Moore nel lago Ontario da dove verrà ripescata diciotto mesi dopo completamente colonizzata dalla dreissena polymorpha.  Ora, questo mollusco se ha il pregio di depurare dagli agenti chimici inquinanti le acque in cui vive, ha anche l’effetto collaterale di essere una delle specie più prolifiche e invasive e di incrostare ogni sorta di superficie rigida sommersa. Rappresenta un caso emblematico della capacità delle specie aliene di insediarsi, proliferare e provocare danni. Il caso è ben noto alla letteratura scientifica proprio a causa dei danni ecologici apportati nei grandi laghi americani dove ha prodotto gravi alterazioni degli ecosistemi e una drastica riduzione della biodiversità. Coniugando in quel luogo la scultura di Moore all’azione trasformatrice del mollusco Starling mette a confronto dinamiche differenti che si mostrano oltremodo efficaci nel riferire dell’avventata azione dell’uomo nei confronti dell’ambiente, azione che qui mostra a sua volta di ripercuotersi sui prodotti della sua stessa cultura. Il parallelo ha come sfondo le estese modalità belliche condotte negli anni della Guerra Fredda quando nessun espediente fu risparmiato alle strategie messe in atto, non ultimo - come documenta il dettagliato pannello a corredo dell’installazione- quello della guerra biologica e del sabotaggio degli ecosistemi (10). Mischiando componenti diverse, l’artista raggruma così il tema delle stratificazioni nei conflitti dell’ambiente e della cultura trovandosi peraltro la stessa creazione del centro di scultura dedicato a Moore non del tutto estranea ad alcune ancora oggi opache vicende di spionaggio. Così, nello strappo dai consueti ambiti, l’audace spostamento di coordinate geografiche e storiche di Starling provoca un détournement che nel disegno generale della mostra di Bourriaud si presenta come un caso paradimatico.
Nel quadro d’insieme proposto dal percorso espositivo, un altro dei temi di passaggio obbligato è quello del dar conto delle macerie del nostro presente –le nuove rovine - che infatti appaiono, disseppellite, simulate e rivisitate, in numerose varianti.  Per esempio nel lavoro di Johannes Büttner che, citando nel titolo un testo di Hanna Black, The possibility of another life in a cop car on fire and obliquely in the faces of my friends (2019) (11), mostra sette sculture a testa in giù, sorta di guerrieri o golem robotizzati la cui materia ferita lascia intravedere la struttura tecnologica che vi fa da scheletro.  Dinamizzati da vibrazioni evocano, nei fremiti che le attraversano, una sorta di violenza monumentalizzata di guerrieri fantascientifici agitati da algoritmi e connessioni dei quali questo nostro mondo sembrerebbe aver perso il controllo. Su un altro piano, proprio questa perdita di controllo sortirebbe, come ci suggerisce Suzanne Treister, effetti allucinogeni a suo avviso riconducibili innanzitutto alla inspiegabilità dei movimenti del capitale (riferimento esplicito a come il mondo del profitto sia inscindibile dalle problematiche del Global Warming) a partire dai quali allestisce il suo complesso progetto HFT The Gardener (12) in cui attraverso disegni, film e parapscicofarmocologiche ricerche, costruisce un set di interrelazioni tra allucinogeni, capitale e arte, droghe psicoattive e stati di alterazione della coscienza.
Sul questo crinale tematico, i resti della società capitalista sono restituiti nelle tredici miniature attraverso le quali Simon Fujiwara mette in scena la sua opera dal titolo It’s a small world (13), dove alcune icone pop scivolate silenti nelle nostre quotidianità palesano la loro pochezza e equivoca indeterminatezza di senso grazie anche alla rastremazione dimensionale.
In questa commistione tra materie naturali, artificiali e immaterialità – emblematica in tal senso anche la partecipazione di Agnieszka  Kurant (14) - trova posto anche il manufatto, reiterato in numerose variabili attraverso ricerche che interrogano la sete di disciplina e di riordino delle priorità nell’era dell’Antropocene immaginando condivisioni e partecipazioni che possano ricollocare i bisogni primari - ivi compreso quello della creatività - ai primi posti.
Si iscrive sostanzialmente in questo intento la proposta di Güneş Terkol & Güçlü Öztekin (15), membri del collettivo di Istanbul HaZaVuVu, di creare un punto di incontro conviviale tra artisti e visitatori negli spazi della mostra fatto delle proprie opere e di performance. E, trattandosi di artisti la maggior parte dei quali impiega linguaggi poliformi, a questo campo di ricerche va ricondotta anche l’installazione History of a particular nameless creek ancora di Elmas DenÍz (16) .
Da questo ulteriore punto di vista alcuni lavori si mostrano particolarmente eloquenti nell’intrecciare insieme i controversi segni di quelle realtà in cui la manifattura e l’artigianato resistono stoicamente all’assalto delle tecnologie. Emblematicamente la poderosa installazione Ntombi Zohlanga  (17) di  Turiya Magadlela immerge il visitatore in una grotta realizzata dal montaggio di centinaia di collant ritagliati all’altezza del cavallo che alludono sia al piano della sessualità e della discriminazione di genere che a quello del lavoro e dello sfruttamento cui esplicitamente richiama lo spazio ricavato sul fondo - una specie di “dietro le quinte” -  occupato da una macchina da cucire allestita con il tessuto predisposto per essere cucito. O ancora l’installazione I dreamt I stabbed you in the eye di Sanam Khatibi (18) che assume i segni della mitologia rinascimentale, modernista, arcaica per tessere materialmente in un arazzo un eden conturbante. E c’è spazio anche per la pittura che trae dalla cifra dell’eccesso – qui da intendersi come virtuosa capacità di servirsi dell’arte pittorica nelle sue tecniche e nella sua storia – una magistrale dimostrazione della sua plausibilità e attualità nella carrellata di ritratti Untitled (Eastern Promises) di Piotr Uklański (19).
Ora, quest’eccesso di superproduzione e inflazione di immagini rappresenta proprio la premessa e, si potrebbe dire, il contesto ambientale dell’impianto critico ordito da Bourriaud. Riflette infatti specularmente nella cultura visiva, analogamente a quanto accade per il clima, il mancato raggiungimento di equilibrio nell’ecosistema. Così posta la questione, gli immaginari plurimi cui queste opere danno vita, indicano nelle costruzioni “molecolari” (antropologi molecolari si era riferito all’inizio) la possibilità, lontano da facili slogan, di risposte critiche plurali e sostanzialmente resilienti.
Ottobre 2019
1) Cfr.: Nicolas Bourriaud, Il radicante, Postmedia books, 2014.
2) Nel testo introduttivo alla Biennale Bourriaud parla di come gli artisti pratichino oggi un’antropologia espansa che propone di definire “antropologia molecolare”. N.Bourriaud, “The Seventh Continent: These upon Art in the Age of Global Warming”, in, The Seventh Continent – Field Report, 16th Istanbul Biennial, IKSV, 2019, pp.55-58. Sulla genealogia della connessione dell’artista all’antropologo cfr.:Joseph Kosuth, “Artist as Anthropologist”, in, Stephen Johnstone, a cura di, The Everyday, Cambridge, MIT Press, 2008; Hal Foster, “ The Artist as Ethnographer?”, in, George E.Marcus & Fred R. Myers, a cura di, The Traffic is Culture: Refiguring Art and Anthropology, Berkeley, Los Angeles, London, University of California Press, 1995.
3) N.Bourriaud, in ibidem, p.58.
4) Paul Sietsema, Figure 3, 2008, film 16mm, 16’.
5) Anna Bella Geiger, Circa, 2006/2019, video installazione.
6) Norman Daly, Civilization of Llhuros, 1972, materiali vari.
7) Ozan Atalan, Monochrome, 2019, installazione materiali vari
8) Elmas Deniz,  Lost Waters, 2019, tre rilievi lignei
9) Henry Moore, Guerriero con scudo, 1953-54, bronzo.
10) Simon Starling, Infestation Piece Conservation I, 2019.
11) Johannes Büttner, The possibility of another life in a cop car on fire and obliquely in the faces of my friends, 2019, installazione.
12) Suzanne Treister, HFT The Gardener, 2014-15, materiali vari.
13) Simon Fujihara, It’s a small world,2019, materiali vari.
14) Agnieszka  Kurant, Alien Archeology 2, 2019, pietre bezoar.
15) Güneş Terkol & Güçlü Öztekin, Worlbmon, 2019, installazione temporanea.
16) Elmas DenÍz, History of a particular nameless creek, 2019, installazione.
17) Turiya Magadlela, Ntombi Zohlanga (Daughters of the Nation) / Ntombi Zohlanga (Daughters of Love)/ Ntombi Zohlanga (Daughters of Truth), 2019, installazione di collant.
18) Sanam Khatibi, I dreamt I stabbed you in the eye, 2019.
19)Piotr Uklański, Untitled (Eastern Promises) 2019