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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

«Figure. Come funzionano le immagini dal Rinascimento a Instagram» di Riccardo Falcinelli
 
Beatrice Luzi
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Noi diventiamo ciò che vediamo.
Diamo forma ai nostri strumenti
e poi i nostri strumenti danno forma a noi.
Herbert Marshall McLuhan

Come guardiamo le immagini? Da dove proviene il nostro modo di elaborarle, di produrle, di interpretarle? Quali meccanismi entrano tacitamente in gioco nella loro ricezione? Il libro di Riccardo Falcinelli: «Figure. Come funzionano le immagini dal Rinascimento a Instagram», edito da Einaudi lo scorso ottobre, è animato dall’urgenza di risvegliarci dall’“intontimento” visivo cui siamo quotidianamente sottoposti, guidandoci attraverso l’analisi dei maggiori tópoi formali dell’Occidente (1). Tra le premesse di questo lavoro vi è la considerazione di quanto la facoltà significante delle immagini venga troppo spesso ridotta al loro contenuto iconografico, senza che si presti la dovuta attenzione alla loro struttura. Eppure, le immagini sono, in primo luogo, una questione formale in cui la semiosi scaturisce dalla compresenza di diverse unità percettive di varia natura, all’interno di un sistema circoscritto (2). Anche dal punto di vista editoriale le figure, protagoniste assolute di questa narrazione, sono accuratamente selezionate e manipolate dall’autore a scopo dimostrativo, per favorire la visualizzazione e la comprensione dei processi visivi analizzati. A corredo del testo è possibile trovare ogni sorta di immagine: dipinti, schemi grafici, immagini di stock, manoscritti, fotografie, incisioni, fermoimmagine, fumetti, locandine, cartigli, macrofotografie, esperimenti percettivi, pagine di libri, visualizzazioni da dispositivi digitali… tutte accomunate dall’essere, al contempo, entità prive di consistenza fisica e mezzo privilegiato di analisi del loro funzionamento (3). Rifacendosi alla lezione di Warburg, che comprese il valore antropologico degli accostamenti e delle permutazioni iconologiche (4), Falcinelli si sofferma sulla struttura, lo sviluppo e le variazioni del nostro DNA visivo e, senza dogmatismi, ne isola alcuni fondamenti, ne rintraccia la genesi e ne evidenzia le precipue finalità. Sostrato teorico del progetto è una letteratura ricca e variegata. Senza tralasciare le fonti primarie, l’autore fa propri i temi di quel dibattito che: «innescatosi nei primi anni Novanta in un ambito di confine fra la riflessione filosofica e la metodologia della storia dell’arte, fra la teoria dei media e gli studi culturali, è andato via via assumendo una portata talmente ampia da investire […] la ricerca scientifica tout court» (5). Questa solida impalcatura critica sostiene un’architettura audace, organizzata in sette percorsi: Spazio, Forme, Percezione, Meccanismi, Topologia, Composizione e Medium, a loro volta articolati in venticinque tappe, allestite per salti cronologici e disinvolti passaggi concettuali. Attraverso l’espediente narrativo del racconto di vita vissuta, Falcinelli introduce l’argomento che intende trattare, consentendo al lettore di focalizzarsi di volta in volta su una specifica tematica, ormai sedimentata in un immaginario visivo divenuto ipertrofico. In tal senso, un’attenzione particolare è dedicata al linguaggio tecnico: vengono infatti proposte e analizzate una serie di parole-chiave che definiscono alcuni tra gli stratagemmi compositivi maggiormente utilizzati nel corso tempo, perché “chiamare” qualcosa significa vederla, prenderne coscienza e farla propria. Altra componente basilare della trattazione è il riferimento sistematico a una serie di ricerche, più o meno recenti, condotte nell’ambito della psicologia della percezione, della fisiologia e delle neuroscienze. L’intento è quello di far riflettere su come le questioni visive siano, a loro modo, manifestazione di meccanismi di natura biologica che svolgono un ruolo specifico nel dar forma al nostro senso della realtà. Fil rouge dell’intero volume è la dichiarata volontà di riportare l’attenzione dell’odierno fruitore/autore sul complesso insieme di fattori – storici, filosofici, scientifici ed economici – implicati nella costruzione delle immagini e nella loro interpretazione, tenendo bene a mente che ciascuna di esse risponde a domande precise, poste dall’uomo in epoche e momenti diversi della storia.
Tra le analisi più illuminanti presenti nel testo, vi è quella dedicata al monopolio detenuto dal formato rettangolare. In effetti, gli uomini del Magdaleniano che dipinsero le grotte di Lascaux non possedevano il concetto di formato. È soltanto nel Neolitico che, per dirla con Schapiro: «attraverso la piena definizione e la levigatezza della superficie pittorica preparata […] l’immagine acquisiva un proprio spazio determinato ed autonomo» (6). Così, in quel recinto culturale che si veniva formando, abbiamo preso a organizzare la realtà e le abbiamo attribuito una forma dominante e perfettamente funzionale: il rettangolo. Se già per l’Alberti, un dipinto è come una finestra aperta sul mondo che inquadra la realtà (7), la sua attestazione è il risultato di una molteplicità di fattori che vanno dall’impiego sistematico dei dipinti su tela, allo sviluppo del formato tipografico, fino all’affermazione, assieme alla classe borghese, di un mercato di opere d’arte che ruotava essenzialmente attorno al quadro, per via del supporto standardizzato ed economico. In effetti, nel corso del tempo, ci siamo circondati da un numero sempre maggiore di rettangoli: non solo i dipinti ma anche i libri, le fotografie, il cinema, «è un rettangolo lo schermo del computer, della tv, dello smartphone, sono rettangoli le vignette dei fumetti e i quadri dei videogame…» (8). Dal punto di vista normativo, la sua consacrazione avviene tra Sette e Ottocento all’interno dei Salon, che impongono quei parametri estetici, culminati nella cultura romantica, che ancora oggi condizionano le nostre scale del valore estetico. Il formato è ormai divenuto una categoria psicologica e la tesi dell’autore, in linea con Vettese, è che i canoni estetici si siano adeguati ai canoni industriali: «se ci stupisce l’arte contemporanea è perché il rettangolo ha vinto» (9). D’altro canto, inquadrare il mondo è sempre stata una questione complessa, si pensi all’impiego, sin dal Rinascimento, del framer, la griglia che funge da ausilio ottico nelle attività disegnative. A ben vedere, oltre a favorire una resa più verosimile della realtà, questo strumento permette di stabilire i “giusti” rapporti compositivi, alla ricerca di un bilanciamento di masse cromatiche e luminose che esprima equilibrio e armonia, secondo una logica percettiva prima ancora che simbolica (10). Tale esigenza, insita nell’essere umano, è dovuta al fatto che: «la sensazione di bellezza è la risposta psichica a una scena che garantisce maggiore coerenza e quindi sicurezza» e «nasconde il desiderio che la vita abbia un senso» (11). Ciascuna epoca ha manifestato la propria idea di senso disponendo pesi a contrappesi all’interno dell’immagine in base alle esigenze che era chiamata a soddisfare. Al Seicento sono da attribuire l’invenzione del colpo d’occhio, divenuto un elemento prioritario nell’estetica contemporanea, e una nuova filosofia compositiva, anch’essa tutt’ora in vigore: l’immagine è una macchina costituita da una serie di meccanismi che svolgono specifiche funzioni ed è frutto di un accurato lavoro di regia (12). Nonostante i portentosi allestimenti barocchi, questa mentalità è correlata prevalentemente alla pittura da cavalletto ed è confluita con rinnovata efficacia nell’estetica fotografica del piccolo formato: in pochi centimetri siamo in grado di dar vita a un sistema funzionante come un microcosmo, in cui allestiamo un raccordo di forze che «contengono, già nella loro struttura, il presupposto di come saranno guardate» (13). E il modo in cui tale presupposto si manifesta è legato a una specifica volontà di organizzare il mondo, di ritmarlo, di desiderarlo. Alla distribuzione degli stimoli visivi, infatti, corrispondono diverse modalità di lettura che, a loro volta, variano in base alla cultura di provenienza e al grado di alfabetizzazione visiva di cui si dispone (14). Basti pensare a come differisca il nostro modo di vedere rispetto a quello dell’estremo Oriente. L’impianto prospettico, leitmotiv dell’arte occidentale, può essere considerato a pieno titolo una metafora della nostra realtà mentale e, virtualmente, incarna un desiderio di finalizzazione e controllo sul mondo che molto rivela del nostro modus vivendi (15). Alla prospettiva centrale, è andata via via sostituendosi quella che l’autore definisce una logica del fulcro, tipica della società industrializzata: il bombardamento visivo delle grandi metropoli ha portato a riposizionare il nucleo concettuale di ogni tipo di immagine mediante una serie di espedienti visivi capaci di sopperire a una fruizione divenuta distratta e in costante movimento: «non importa che il soggetto sia grande o sia al centro, l’importante è che spicchi» (16). Se la “direzionalità come scopo” è un problema tipico del linguaggio occidentale, diverso è il concetto di teleologia proprio dell’estremo Oriente, dove gran parte delle immagini (l’autore cita autori cinesi e giapponesi quali Yuan Jiang, Yuan Ma, Hokusai, Watanabe) sono concepite quali luoghi di esplorazione visiva che funzionano come una mappa, in cui la tensione che attraversa le forme non contiene una traiettoria dominante bensì una moltitudine di percorsi possibili e un particolare rapporto con il fondo: «il vuoto, l’asimmetrico, il decentrato sono cruciali, perché così è sentita la vita» (17). Non a caso, le grandi intuizioni formali dell’epoca moderna devono moltissimo a questo tipo di sensibilità. Prima fra tutte, lo spostamento dell’attenzione dal virtuosismo tecnico della resa epidermica alla dichiarazione della natura autoriflessiva dell’arte: l’opera è sia immagine che concretezza e include sempre un discorso su se stessa, auto-dichiarandosi come artificio (18). Certo, la predisposizione alla comprensione delle immagini e cosa ci si aspetti da esse, mutano con il variare delle nostre condizioni percettive, a loro volta condizionate da ragioni storiche, economiche, antropologiche. Tuttavia, una volta raggiunta tale consapevolezza, occorre fare un passo indietro e applicare questo ragionamento anche all’arte che più si allontana dalla nostra sensibilità: «capire le immagini significa accettare che il meccanismo di Monet è diverso da quello di Bouguereau, e che ciascuno possiede un fascino preciso» (19).
Ma, come siamo diventati così inclini al guardare senza vedere? Come mai abbiamo privato le immagini della materia di cui sono fatte, della loro consistenza, del loro contesto, della loro aura? Nel rispondere a simili quesiti, l’autore dà voce a quello che potremmo definire il nodo concettuale del testo. L’invenzione della fotoincisione a partire da una matrice di stampa ha accelerato esponenzialmente i modi e i tempi di riproduzione e diffusione delle immagini e ha portato tutte le opere intimamente legate al proprio supporto, a condurre una doppia vita, quella della concretezza materiale e quella legata ai mass media (20). In questo modo è venuta progressivamente a mancare la contezza non solo della fisicità delle immagini stesse ma anche del diverso statuto ontologico dell’oggetto ab origine, in favore di un’ubiquità e di una multi-dimensionalità rese possibili solo grazie alla riproducibilità tecnica (21). Ora, mentre la fotografia e il cinema sono stati concepiti per essere riprodotti e proiettati su supporti differenti, le fotoriproduzioni di manufatti e opere d’arte agiscono al posto di e hanno trasformato internet in una «galleria di simulacri» che presentificano un’assenza (22). Dunque, secondo l’autore, se da una parte la perdita dell’aura ha causato un impoverimento dell’esperienza estetica, anestetizzando sempre più il nostro sguardo, d’altro canto essa ha amplificato l’impatto che l’opera originale ha sul fruitore, proprio a causa dell’onnipresenza del suo simolacro. Le opere diventano così delle celebrità ma, in fin dei conti, sembra piuttosto l’“effetto gadget” a manipolare l’emozione del fruitore e non l’esigenza di instaurare con esse un rapporto (23). Questo approccio mitizzante, di stampo hollywoodiano e capitalistico, si è servito della riproducibilità delle rappresentazioni per annullare le loro differenze sostanziali: attraverso l’impiego di uno stesso medium che seleziona e diffonde le immagini seguendo un criterio pericolosamente iconogenico, stiamo rischiando di impoverire sempre di più il nostro paradigma visivo e culturale e quello delle future generazioni, implementando la circolazione delle immagini commercialmente più appetibili (24). Come predisse Paul Valéry: «le immagini ci arriveranno a casa come l’acqua corrente dai rubinetti» e soltanto recuperando un’idea di contemplazione libera dall’approccio consumistico che ci viene imposto, saremo in grado di orientarci in questo fluire di immagini senza sosta, restituendo a ciascuna di esse il proprio legittimo posto (25).
aprile 2021

(1) Figure. Come funzionano le immagini dal Rinascimento a Instagram, Einaudi – Collana Stile Libero Extra, Torino 2020, pp. 519. Riccardo Falcinelli (1973), noto e apprezzato graphic designer, insegna Psicologia della percezione presso l’ISIA Roma Design e ha pubblicato diverse graphic novel e volumi di successo fra cui Cromorama. Come il colore ha cambiato il nostro sguardo, Einaudi – Collana Stile Libero Extra, Torino 2017 e Critica portatile al visual design. Da Gutenberg ai social network, Einaudi – Collana Stile Libero Extra, Torino 2014.
 (2) H. Damisch, Otto tesi pro (o contro?) una semiologia della pittura (1974) in O. Calabrese (a cura di) “Semiotica della pittura”, Il Saggiatore, Milano 1980.
(3) Cfr R. Falcinelli, Critica portatile al visual design. Da Gutenberg ai social network, cit.
(4) R. Falcinelli, Figure. Come funzionano le immagini dal Rinascimento a Instagram, cit.
(5) A. Pinotti, A. Somaini (a cura di), Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo, Raffaello Cortina Editore, Milano 2009, p. 9.
(6) «Sono la nuova levigatezza e la piena definizione del campo a rendere possibile, in seguito, quella trasparenza del piano pittorico senza la quale la rappresentazione dello spazio tridimensionale non sarebbe stata possibile.» M. Schapiro, Alcuni problemi di semiotica delle arti figurative in «Per una semiotica del linguaggio visivo», Meltemi Editore, Roma 2002, p. 93.
(7) L. B. Alberti, De pictura, Edizioni Polistampa, Firenze 2011.
(8) R. Falcinelli, Figure… cit., p. 74.
(9) Ibidem. Cfr A. Vettese, Ma questo è un quadro? Il valore nell’arte contemporanea, Carocci, Roma 2005.
(10) R. Falcinelli, ibid., p. 374.
(11) Ibid., pp. 328-329. Cfr S.  Zeki, Splendori e miserie del cervello. L’amore, la creatività e la ricerca della verità, Codice, Torino 2019.
(12) Cfr C. A. Du Fresnoy, L’arte della pittura: accresciuta con più recenti e necessarie osservazioni, Roma 1775.
(13) R. Falcinelli, Figure… cit., p. 186.
(14) Cfr D. Noton, L. Stark, Eye Movements and visual Perception in «Scientific American» n. 224, 1971, pp. 35-43.
(15) R. Falcinelli, Figure… cit., pp. 29 – 31. Crf M. Kemp, The Science of Art. Optical Theme in Western Art from to Seurat, Yale University Press, New Haven 1992; H. Damisch, L’origine della prospettiva, Guida Editori, Napoli 1992; D. Arasse, L’uomo in prospettiva, Einaudi, Torino 2019; E. H. Gombrich, Arte e illusione, Phaidon, Londra 2002; I. Verstgen, Come dire oggettivamente che la prospettiva è relativa in «Rivista di Estetica» [Online], 48, 2011, https://journals.openeditions.org/estetica/1548; E. Panofsky, La prospettiva come “forma simbolica”, Abscondita, Milano 2014.
(16) R. Falcinelli, Figure… cit., p. 233.
(17) Ibidem p. 379. Cfr G. C. Calza, Hokusai. Il vecchio pazzo per la pittura, Mondadori Electa, Milano 2010; Stile Giappone, Einaudi, Torino 2002.
(18) Cfr A. Danto, La trasfigurazione del banale. Una filosofia dell’arte, Laterza, Roma - Bari 2008; Dopo la fine dell’arte. L’arte contemporanea e il confine della storia, Bruno Mondadori, Milano 2008; W. J. Mitchell, Iconology. Image, Text, Ideology The University of Chicago Press, Chicago 1987.
(19) «Certo, sul piano storico Monet ci appare senza dubbio un innovatore, ma questo non può essere l’unico parametro con cui apprezzare i quadri, si finirebbe a parlare di arte come si fa con la tecnologia, entusiasmandosi solo per il progresso.» R. Falcinelli, Figure… cit., p.156. Cfr S. Zeki, La visione dall’interno. Arte e cervello, Bollati Boringhieri, Torino 2003.
(20) R. Falcinelli, Ibid, p. 412.
(21) Cfr F. Casetti, La galassia Lumière. Sette parole chiave per il cinema che viene, Bompiani, Milano 2015; W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa, Einaudi, Torino 2000.
(22) Cfr R. Falcinelli, Critica… cit.; Cfr A. Chastel, La Gioconda. L’illustre incompresa, Abscondita, Milano 2011; E. H. Gombrich, L’uso delle immagini. Studi sulla funzione sociale dell’arte e sulla comunicazione visiva, Phaidon, Milano 2011; D. Crimp, The end of the art and the Origin of Museum in «Art Journal», XLVI (2014), n. 4, pp. 261-266.
(23) Cfr H. S. Becker, I mondi dell’arte, il Mulino, Bologna 2004.
(24) Cfr M. Coomer, The Top Ten Postcards Sold at the National Gallery. Check out the National Gallery’s Bestselling Miniature Masterpieces over the Past Year in «TimeOut», 4 agosto 2015; M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, il Saggiatore, Milano 2008; G. Anceschi, L’oggetto della raffigurazione, Etas, Milano 2015.
(25) Cfr P. Valéry, Scritti sull’arte, Abscondita, Milano 2017.