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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Il ruolo del curatore, dell’artista e del pubblico.

di Marco Trulli e Claudio Zecchi

 

I recenti avvenimenti che hanno interessato il Nord Africa e che vengono comunemente identificati con la definizione generale di Primavera Araba; lo smottamento geopolitico dell’Europa dell’est dovuto alla caduta del regime comunista; ma anche le ripercussioni dovute alla più recente crisi politica, economica e sociale, sembrano aver dato seguito nel mondo della cultura, e dell’arte nella fattispecie, ad una proliferazione di interesse verso alcune pratiche di resistenza ad uno status quo fino ad allora mai esploso.

Le più grandi rassegne artistiche, dalla recente Biennale di Berlino curata da Artur Żmijewski, alla Manifesta di Genk curata da Cuauhtémoc Medina, Katerina Gregos e Dawn Ades, fino alla gigantesca Documenta 13 curata da Carolin Christov Bakargiev, hanno mostrato un interesse per una linea di ricerca che mette in campo un coinvolgimento dell’attualità.

Queste grandi rassegne subiscono però il limite di inquadrare una manifestazione di dissenso ad una scelta di sistema: è il caso dei gruppi Occupy invitati da Żmijewski a praticare le loro forme di protesta e le loro strategie di coinvolgimento in uno dei piani del KW Institute of Contemporary Art di Berlino.

Una scelta del genere, per quanto intenzionata ad aprire un dibattito, deterritorializza una dinamica, quella basata sulla protesta e il dissenso che ha la sua forza non solo generalmente fuori da un luogo, ma in un territorio specifico.

Non è possibile infatti, analizzando le pratiche di attivismo, sradicarle dal territorio in cui queste sono germogliate. Ne perderebbero di forza e di senso.

Territorio, Città, Piazza, sono parole chiave impossibili da non tener conto in un percorso che intende riflettere sui presupposti che generano alcune precise scelte e prese di posizione tanto più se il risultato di queste è nella maggior parte dei casi un percorso/processo e non un prodotto/oggetto.

Parlare di pratiche presuppone dunque qualcosa che non sia definibile o che non abbia necessariamente come scopo la produzione finale di un lavoro/opera, ma significa parlare di dinamiche che intendono alimentare partecipazione ed interesse che si pongono su un piano di diffusione orizzontale che immagina apertura e dibattito.

Per questo non è possibile fare degli artisti gli attori unici di quella che viene genericamente chiamata arte socialmente impegnata (socially engaged art), o meglio pratiche socialmente impegnate, ma bisogna allargare il panorama ai curatori e al pubblico.

È interessante in questo senso capire quale ruolo e che funzione svolge questa sorta di “triplice alleanza” in territori che ancora brulicano di quei smottamenti causati da istanze sociali dovute ai cambiamenti della storia più recente (i Paesi della Riva Sud del Mediterraneo e dell’Europa Centrale per diverse ragioni) e di quella degli ultimi venti anni (i Paesi della Riva Est).

Se per i Paesi della Riva Sud gli avvenimenti accaduti in Egitto non più di due anni fa sono stati un tramite per risorgere e reagire ad uno stato di cose che si era sedimentato, diversamente per i Paesi della Riva Est le ragioni di una riflessione impegnata vanno ricercate nella caduta del regime comunista. Ancora diverso è il caso di alcuni esempi prodotti nell’Europa centrale in cui il fattore della crisi si è fatto sentire.

Curatore – Artista – Pubblico ottemperano generalmente a funzioni diverse ma sono, in un ambito di ricerca così focalizzato, strettamente connessi l’uno all’altro. Il curatore non si concentra infatti sulla mera produzione del lavoro critico in senso stretto ma si pone il problema di come un certo tipo di lavoro possa, analizzate le istanze territoriali, confrontarsi su una linea orizzontale con il pubblico. Il pubblico è semplice spettatore o attore protagonista sullo stesso piano di artista e curatore? Se la maggior parte di questi progetti dalla matrice laboratoriale (workshop, residenze etc.) intendono aprire ad una riflessione su temi che riguardano la società nel senso più allargato del termine, allora il pubblico non può esserne tagliato fuori e trattato come semplice spettatore, un numero in più da aggiungere al successo o all’insuccesso di una determinata operazione. Se progetti socialmente impegnati sfocano la linea che divide curatori, artisti e pubblico permettendo a tutti di svolgere un ruolo attivo nella produzione, allora il pubblico va considerato in una funzione decisamente più operativa. Il pubblico va perciò trattato non solo come protagonista ma addirittura come co-produttore del lavoro stesso.

La domanda da porsi è dunque la seguente: se processi di tipo relazionale producono relazioni umane, che tipo di relazioni vengono prodotte, per chi e perché?[1]

Approcci di questo tipo portano il desiderio, utopistico e immaginifico, di uscire dai modelli di tessitura del reale familiari sforzandosi di ripensare, percepire ed esaminare gli stessi modelli ma con modalità differenti.

In questo senso svolgono un ruolo fondamentale i processi di formazione e autoformazione, come nel caso dell’ultima edizione di Mediterranea. Biennale dei giovani artisti dal titolo Errors Allowed (foto 1), capaci di offrire una pluralità di nuove prospettive e scardinare lo status quo. Errors Allowed, un progetto da noi curato insieme ad un team di altri sei curatori provenienti da diverse aree del Mediterraneo, nasceva infatti come indagine sul tema della conoscenza e nella fattispecie sui regimi di autoformazione. Una mappatura che ha riconsegnato una geografia del Mediterraneo e della sua produzione culturale in senso lato, del tutto parziale, che si basava sull’idea di un’identità frammentaria ed eterogenea attivata e recepita secondo processi d’interazione che hanno restituito senso e significati completamente nuovi per uscire dall’ottica d’informazioni precostituite e creare un luogo di esperienze ed elaborazione.

In questo senso sono state poste domande che mettevano in questione la natura geo-politica del Mediterraneo da cui ne è venuta fuori una cultura e una posizione delle arti capaci di porsi in una prospettiva di significato molto più ampia.

Una narrazione che tentava di scardinare condizioni prestabilite in cui la conoscenza non andava intesa come fatto esistente e imposto dall’alto ma come strategia di autoapprendimento, strumento di azione, di auto-organizzazione e auto-determinazione.

Curare progetti di questo tipo significa assumersi la responsabilità di un ruolo, prendere posizione in una determinazione al limite dell’ideologizzazione ma in una proiezione del tutto immaginativa nel disegno di una possibile alternativa.

Come dice Catalin Gheorghe[2], non si tratta di pratiche “ideologicamente libere” ma di pratiche che si riservano il merito di sviluppare dialogo, collaborazione, partecipazione e, paradossalmente, scelte libere.

«La creazione, quindi, di circuiti di comunicazione (fisici o virtuali) come primo passo verso l’organizzazione di un pensiero condiviso che si sviluppa e determina attraverso pratiche discorsive di confronto continuo.

Incontro e condivisione diventano quindi strumento di azione capace di avviare una serie di riflessioni legate alla “responsabilità sociale dell’artista” e di chi opera in questo campo.

In questo senso si sviluppano percorsi e progettualità che, sulle macerie ideologiche del novecento, ricostruiscono piattaforme orizzontali di collegamento tra arte e cittadinanza in cui istanze sociali e ricerche estetiche si fondono alla necessità di uno spazio libero di confronto e crescita comune. Alla costruzione, cioè, di pratiche condivise come base comune per generare strutture di pensiero aperte in grado di proliferare in quanto non basate sullo scambio di una cosa bensì di un’idea […][3]».

Sono progetti, questi, che vivono anche al limite della contraddizione tra una partecipazione intellettuale, quella del critico/curatore, tesa ad una proiezione nella situazione in cui versano i cittadini, e i cittadini stessi, che giornalmente si confrontano con i problemi della vita reale. Esiste, e bisogna riconoscerlo, una discrepanza tra chi produce progetti, seppure con intenzioni autentiche alla base, e chi vi partecipa. L’approccio curatoriale non può quindi che essere rappresentativo di uno stato di cose e deve, fin dall’inizio chiarire gli obiettivi. Sta poi a chi partecipa capire come percorrere e affrontare il cammino, come e quanto mettersi in gioco.

Che ruolo hanno dunque l’arte e i suoi attori?

«La partecipazione e la condivisione di strumenti e linguaggi che attengono in senso lato al mondo dell’arte propongono un indirizzo di riconoscimento del sapere che ha una genesi sociale. Nessuno ha idee che non siano state direttamente o indirettamente influenzate dalle relazioni sociali che intrattiene, dalla comunità di cui fa parte etc. e allora se la genesi è sociale anche l’uso deve rimanere tale»[4].

Se l’uso del sapere è sociale esso esprime una tensione alla rielaborazione dei contenuti che non può essere data una volta per tutte, ma assume contorni sfocati e subisce continuamente trasformazioni radicali. «Il contenuto, non conosce più luoghi esclusivi né versioni definitive, non viene prodotto una volta per tutte per essere trasmesso a un pubblico che si limita a riceverlo e fruirlo nei modi che ci erano consueti»[5].

Il linguaggio e di conseguenza i contenuti in una condizione del genere vengono riconsegnati al pubblico chiedendogli di partecipare alla sua ricostruzione riorganizzandone cioè la narrazione e ampliandone potenzialità e significati. «Il contenuto non è più definibile senza prendere in considerazione l’uso che ne viene fatto dal “pubblico”»[6].

Emerge allora l’urgenza, diffusa ed evidente, di occupare brani di spazio urbano attraverso strategie di intromissione che diventano processi di riconfigurazione dei modelli di socialità e di attraversamento dello spazio pubblico o tentativi di appropriazione – simbolica o concreta – dello stesso. Se consideriamo lo spazio pubblico come luogo di rappresentazione del potere[7] riusciamo a leggere l’intervento artistico come manomissione dei codici e dei simboli ordinari della vita pubblica. 

Questa manomissione si muove, in taluni casi, per appropriazione attraverso meccanismi che sovvertono i simboli della celebrazione del potere, ne riproducono in maniera fittizia e alterata le ritualità, o ne producono di nuovi. È il caso ad esempio del lavoro dell’artista greca Io Myrto Chaviara (In honor of) (foto 2) che lista a lutto le statue della classicità ellenica interpretando il momento drammatico attraversato dalla Grecia. Ma è anche il caso dell’operazione realizzata dall’artista palestinese Khaled JarrarState of Palestine (foto 3) – che attraverso un atto performativo generato dalla sua presenza nelle piazze delle città in cui egli si reca, chiede di mettere il timbro dello Stato di Palestina sul passaporto dei passanti. Egli ha deciso, attraverso un atto di forza, di spingere il suo ruolo oltre i limiti proclamando l’esistenza di uno stato inesistente, sfidando i limiti di una geografia politica immobile attraverso la creazione di un simbolo. Si tratta di una campagna di informazione basata su una resistenza non violenta: coloro che accettano di farsi timbrare il passaporto accettano, implicitamente, di sostenere e riconoscere la necessità di un cambiamento nelle strategie geo-politiche mondiali. Parallelamente, una serie di francobolli realizzati da Jarrar con il logo dello Stato di Palestina – l’Uccello del Sole – sono correntemente usati in alcuni paesi europei (in occasione della Biennale di Berlino le poste tedesche ne hanno stampati circa 20.000).

In altri casi, invece, vengono immaginate vere e proprie pratiche di ricostruzione di modelli sociali basati sulla critica al modello neoliberale. I lavori di artisti o ricercatori culturali come Solidarity Network o Radical Intention sono solo alcuni degli esempi di operazioni che vanno in questa direzione. Operazioni, cioè, in cui l’arte e gli strumenti del linguaggio ad essa annessi, diventano un modo per riconsiderare e ridiscutere non solo il ruolo dell’artista o del critico, ma anche del pubblico rimettendo l’arte nella vita quotidiana, contaminandola dei sui problemi. Vuol dire assumere un atteggiamento radicale fondato sulla volontà di andare a fondo a quelle questioni che possono creare effetti attraverso un cambiamento politico e sociale, o discutere, ad esempio, dei problemi che affrontano gli operai nelle fabbriche in Croazia sensibilizzando chi ascolta attraverso lo sviluppo di relazioni basate sulla solidarietà civile tese a costruire nuovi spazi di democrazia diretta.

Radical Intention è un collettivo artistico\curatoriale che dal 2009 sviluppa progetti di ricerca per la discussione e lo sviluppo di pratiche collaborative. La ricerca di R.I. si occupa di ridiscutere i sistemi educativi tradizionali indagando il concetto stesso di radicalità attraverso la sperimentazione di forme differenti di coabitazione e di ospitalità tra artisti problematizzando così il concetto stesso di collaborazione attraverso il proprio fare. Sense of Belonging (foto 4), progetto realizzato per la Biennale del Mediterraneo, si occupava di sviluppare piccole azioni ed esercizi fisici già sperimentati nei progetti passati. Queste azioni prevedevano la realizzazione di compiti collettivi attivati in una sorta di performance di gruppo con il pubblico presente, una collaborazione che, come sostiene il collettivo, «non avviene quando tutti i coinvolti sono d’accordo; avviene piuttosto quando tutti gli attori presenti sono convinti che la loro parola è stata e sarà ascoltata e rispettata»[8].

Diversamente da Radical Intention, che utilizza e si muove nel perimetro di un linguaggio codificato, Solidarity Network (foto 5), collettivo croato, porta il suo linguaggio fuori dalle istanze meramente “artistiche” operando nelle dinamiche della vita reale. Il suo scopo è quello di accendere un faro, attraverso discussioni pubbliche, performances, mostre, sulla difficile situazione a cui devono far fronte ogni giorno i lavoratori nelle fabbriche in Croazia creando così nuovi spazi di democrazia diretta. Lo scopo è quello di creare relazioni sociali basate sulla solidarietà civile. Occupare gli spazi delle fabbriche e riconvertirli in spazi temporanei per l’arte vuol dire, infatti, dare a quegli spazi nuovi significati e funzioni. Ma può voler dire anche riconsiderare lo spazio pubblico come luogo generativo di un confronto sulle possibilità di un suo utilizzo non in termini di mera gentrificazione, bensì di analisi etica e politico-sociale come avviene nel lavoro di ricerca portato avanti dall’albanese Gia Kuka (foto 6 a-b).

Una narrazione convincente delle pratiche urbane giovanili e della loro relazione inconsapevole con lo spazio pubblico si ritrova in uno dei recenti lavori del collettivo spagnolo Democracia: la videoinstallazione Ser y durar (essere e persistere) (foto 7).

In questo lavoro un gruppo di giovani ha praticato il parkour, all’interno del cimitero civile di Madrid, dove sono sepolti alcuni dove sono sepolti personaggi chiave della Spagna democratica prefranchista.

Una pratica, quella del parkour, che si snoda in maniera agile e dinamica in un contesto immobile e celebrativo. Gloriosi epitaffi e lapidi commemorativi e giovani indifferenti che mettono in mostra i propri virtuosismi. Democracia crea una sorta di monumento in negativo: una pratica urbana giovanile imperversa in un luogo in cui sono sepolte le aspirazioni rivoluzionarie della storia spagnola, ormai dimenticate nella società contemporanea. Da un lato, lo slogan che identifica il traceur è “essere e persistere”, dall’altro un epitaffio del cimitero recita: “non c'è nulla dopo la morte.”

La continua ricerca dell’eterotopia, dello spazio interconnesso in cui si può verificare un altro modello di relazione e di convivenza, fanno dello spazio pubblico uno spazio di rappresentazione, nel senso di HenriLefebvre, capace, cioè, di esprimere immagini e percorsi alternativi dello spazio sociale che permettono di pensare collettivamente ad un cambiamento negli usi e nei significati delle pratiche spaziali. Lo spazio pubblico è infatti il luogo in cui è possibile determinare quei rapporti, o fenomeni sociali che, come dice Georg Simmel, non si danno se non spazialmente[9].


[1] Olga Stefan, Editorial, Social curating and its public: curators from Eastern Europe report on their practices, in oncurating.org, issue 18, 2013

[2] Catalin Gheorghe, Editorial, Social curating and its public: curators from Eastern Europe report on their practices, in oncurating.org, issue 18, 2013,

[3] M. Trulli, C. Zecchi, Nuove strategie di attivismo nello spazio pubblico. Un’ipotesi., in Mediterranea 16 Errors Allowed, Quodlibet, Macerata, 2013, pag. 186-193

[4] Wu Ming 1, Il copyleft spiegato ai bambini, "Booklet" della rivista "Il Mucchio Selvaggio", n. 526, dal 25 al 31 marzo 2003

[6] Ibidem

[7] H. Lefebvre (1974) La production de l’espace, 4e édition, Anthropos, Paris, 2000, pp. 42 e ss.

[8] Radical Intention in Indice: Un archivio di parole, a cura di M. Trulli e C. Zecchi, stampato a Novembre 2013

[9] Georg Simmel,, (Soziolozie des Raumes), cap. IX, in Soziologie, Leipzig: Duncker & Humblot, 1908 [Sociology: Investigations on the Forms of Sociation]