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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Il rilancio del Lanificio e la ricerca del glocal perduto

 

Brunella Velardi

 

Il Lanificio Sava aprì nel 1824 negli ambienti dell’ex convento cinquecentesco dei Celestini di Santa Caterina a Formiello. Forniva divise ai corpi dell’esercito del Regno di Napoli, lavorate da maestranze scelte dapprima tra i reclusi dell’Albergo dei Poveri e poi – quando il re (Ferdinando IV di Borbone), sostenendo la crescita dell’impresa, le affidò anche dei vecchi granai nei pressi del porto – tra i forzati della Marina Militare. La sua attività fu florida e in continua espansione fino al 1870, quando Raffaele Sava, che aveva fatto del suo lanificio una sorta di centro per l’impiego dei reietti, mettendo in pratica quello che oggi è il farraginoso, infrequente reinserimento lavorativo, non riuscì più a mandare avanti una macchina troppo acciaccata dalle leggi unitarie. Gli eredi Sava furono costretti a vendere a poco a poco gli spazi del lanificio a privati e artigiani che vi impiantarono le loro botteghe, dando avvio alla parcellizzazione che caratterizza attualmente il complesso. La sua storia è affascinante, come lo è la scoperta di un mondo che fu e che oggi, camminando per quelle strade così centrali eppure così lasciate all’incuria collettiva, non si immaginerebbe mai.

Negli ultimi tempi una parziale, zoppicante forma di gentrificazione inizia a trovare spazio a Napoli, città che ha la speciale caratteristica di ospitare nidi di degrado socio-ambientale-architettonico-economico nel bel mezzo del suo affascinante centro storico. (Deve essere stato forse questo folkloristico connubio di bellezza e sporcizia a far andare in brodo di giuggiole gli eclettikitsch Dolce&Gabbana, che nei giorni scorsi hanno fatto sfilare le loro malcapitate modelle sulle basole sgangherate di Via dei Tribunali).

In quest’ottica, il grande reperto di archeologia industriale di Santa Caterina a Formiello rispecchia appieno il target di facoltosi investitori che con poche lire possono accaparrarsi stanzoni e spazi di vario genere, ricchi di stratificazioni storiche e architettoniche, dove riprodurre in chiave radical creative chic il connubio ricchezza/sgarrupatezza di cui sopra. Il fine dichiarato, è ovvio, è quello di mettere in atto circuiti positivi per il quartiere, oltre che nel quartiere. Il primo intervento di grande richiamo fu, nel 2006, l'apertura di Lanificio 25, spazio per performance teatrali artistiche e musicali gestito dall’Associazione Carlo Rendano, tra i cui scopi è la promozione del turismo nella zona compresa tra Porta Capuana e Via Carbonara. Nel più vicino 2015 Dino Morra ha spostato la sede della sua galleria dal quartiere Chiaia proprio nel Lanificio, stabilendosi in due ambienti tra pianoterra e interrato a cui ha preferito lasciare l’aspetto grezzo di un deposito. Ciò ha comportato che gruppi appartenenti ad ambienti sociali ben definiti (ragazzi tra i 16 e i 30 anni politicamente schierati a sinistra nel primo caso, élite del mondo dell’arte contemporanea nel secondo) vi si recassero in massa in occasione di eventi specifici (serate e inaugurazioni), senza tuttavia incentivare una frequentazione più assidua, peraltro ingiustificabile in una zona che non ha praticamente nulla da offrire nel quotidiano.

Incastrato tra il portale d'ingresso al Lanificio, che apre sull’ex chiostro grande, e la facciata della chiesa, c'è un varco per lungo tempo rimasto chiuso e inosservato che dà accesso al chiostro piccolo del vecchio convento. Questo spazio, rilevato dalla Fondazione Tramontano Arte e rilanciato col nome di Made in Cloister, è un suggestivo mix di architetture religiosa e industriale, al cui centro si eleva un’alta lanterna in legno e vetro, probabilmente luogo dove i filati Sava venivano messi ad arieggiare e asciugare. La ristrutturazione è consistita nel restauro delle strutture e dei frammenti di affreschi rinvenuti – affidati al corso di restauro dell’Accademia di Belle Arti di Napoli –, nella copertura in ETFE dell’interstizio tra la lanterna e il perimetro porticato (con risultati a dire il vero dubbi in fatto di temperatura e mantenimento della “trasparenza” dei teloni) e nella rifunzionalizzazione dell’ex refettorio ora adibito a bar-ristorante.

L’associazione vanta amici illustri, tra cui la poliedrica Laurie Anderson, guest star dell’opening - che ha avuto luogo in pompa magna, dopo la visita del ministro Franceschini, il 28 maggio scorso - della mostra The withness of the body, per la quale ha scelto di allestire, insieme a nuovi lavori, alcune grandi tele della serie Lolabelle in the Bardo, del 2011, che si alternavano a scene video nel suo film Heart of a dog, insignito, tra l’altro, della menzione speciale alla 72° Mostra del Cinema di Venezia (2015). A partire dalla morte di Lolabelle, il cane che Laurie e il suo compagno Lou Reed avevano adottato e amato come una figlia, l’artista entra in un vortice di flash, sogni, riflessioni che rimettono in gioco l’eterna tensione eros-thanatos tra visioni oniriche e credenze orientali.

Ritornando sulla rappresentazione dei suoi sogni, già raccolta nel libro Nightlife (ancora del 2011), e sull’esplorazione del corpo, fulcro delle sue sperimentazioni dalle prime performance a Dal vivo (1998) a The Record of the Time (2002-2004) – per citare lavori presentati in Italia – la Anderson racconta per immagini il suo desiderio di maternità rivelato appunto da un sogno in cui un’esasperazione della corporalità mescola amore e caos, agglomerazioni di tempi e spazi, brani di violenza in tele turbinanti, talvolta catastrofiche. Qui, all’indagine sulla morte, manifesto filo conduttore della mostra, si unisce la visceralità del rapporto madre-figlia, incarnato nel rapporto Laurie-Lolabelle. Attraverso i dipinti l’artista tenta di cogliere la simultaneità di avvenimenti e suggestioni e il processo di dissolvimento dello spirito di Lolabelle che precede il momento della reincarnazione durante il periodo che i tibetani chiamano Bardo. Se “withness” indica la qualità del rapporto tra il sé e la propria esistenza/consistenza fisica, The withness of the body testimonia la ricerca di un equilibrio, quello tra la tristezza della morte e l’energia vitale che da questa viene sprigionata, come "luogo" di riassestamento della vita dell’artista, sconvolta dalla perdita dei suoi affetti più vicini, e del suo percorso intellettuale.

Una surreale narrazione della gravidanza e del parto del piccolo rat terrier dal grembo della sua padrona prende forma tra le arcate del chiostro in un suggestivo bianco e nero che si ripete nell'architettura e nei dipinti. Un intervento sofferto, quello della Anderson, ma soprattutto di forte risonanza. L'impressione è che il secondo aspetto prevalga sul primo, col risultato di destare una certa perplessità, neutralizzata per fortuna dalla bellezza di un luogo ritrovato.

Quanto ai propositi di coinvolgere le scuole del circondario in progetti didattici in cui saranno impegnati anche gli artigiani del Lanificio, è doveroso concedere gli opportuni tempi di rodaggio e assestamento al neonato Made in Cloister, che i suoi creatori definiscono “progetto di rigenerazione urbana”. Certo, viene da pensare, il processo di integrazione tra le nuove esperienze e il territorio in cui vengono a innestarsi – che si traduce, in ultima istanza, in integrazione tra attori di diversa estrazione sociale, oltre che provenienti da diverse zone della città, fattore di non poca rilevanza a Napoli, mix originalissimo di caratteri globali e provinciali – sarebbe forse più efficace se avviato in fase progettuale invece che a posteriori, conoscendo il muro di diffidenza dietro il quale si barricano i napoletani di fronte al nuovo che si fa posto all'improvviso nella loro quotidianità. Almeno, questa è la spontanea riflessione fatta quando, visitando il chiostro deserto in un caldo sabato pomeriggio di giugno, un gruppo di ragazzi che riconosco tra gli "autoctoni" entra incuriosito, ma con la chiara irruenza di chi è indotto a sentirsi ingiustamente un pesce fuor d'acqua.

D’altronde, il confine tra gentrificazione e colonizzazione è assai labile e il pericolo di valicarlo è quasi scontato, soprattutto quando a proporsi è l’incontro tra il debole, seppure di alta qualità, settore manifatturiero napoletano e l’imponente mercato del gusto globale. Incidere sul tessuto di quartieri che hanno in sé la fierezza di una storia secolare e insieme la durezza di un corpo da sempre bastonato da una miseria che non sembra lasciare scampo, innescando circoli virtuosi destinati a risollevarne l'economia e dunque la qualità della vita, richiede tempi lunghi e grossi investimenti, ma anche una consapevolezza profonda delle mille fibre che compongono il tessuto stesso. Il rischio, altrimenti, è di disperdere un’ulteriore goccia nell’oceano con interventi effimeri, destinati a essere fagocitati in tempi brevissimi dalla desolazione generale.

I migliori auguri al nuovo vicino di casa e alla sua causa, quindi, nella speranza che l’antica e ancora in parte inesplorata area di Porta Capuana possa risollevarsi senza perdere la sua identità e, soprattutto, i suoi abitanti. Magari anche sulla scorta dell’eredità di un’esperienza per molti versi illuminata e certamente carica di significati (per noi che viviamo oggi e per coloro che abitano in quella zona), come fu quella del Lanificio Sava.