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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Edoardo Trisciuzzi

 

In un saggio pubblicato qualche anno fa, la storica della letteratura (ed esperta di studi sul femminismo) Marianne Hirsch si interrogava sul modo in cui la memoria dell’Olocausto possa sopravvivere nelle generazioni future, nel momento in cui il trascorrere del tempo concorre a cancellare le tracce degli avvenimenti. Infatti, se la traduzione in immagini o in parole della reale natura dei crimini commessi risulta assai ardua per chi li visse –a causa dei processi di rimozione o dei limiti dei mezzi espressivi– tanto più appare difficile l’impresa per chi, nato successivamente, quegli eventi non li ha vissuti da vicino. Tuttavia, Hirsch indica l’importanza del ruolo rivestito dagli esponenti della “seconda generazione”, gli eredi dei testimoni diretti che, pur non essendo del tutto immuni dal trauma, possiedono un punto di vista più critico rispetto ai propri padri.

A tal proposito la studiosa parla di “postmemoria”, concetto che «descrive la relazione tra i figli dei sopravvissuti e dei testimoni di traumi culturali o collettivi e le esperienze dei loro genitori»(1). Sebbene costituite da vicende o immagini tramandate, le esperienze che compongono la sfera della postmemoria non sono meno autentiche rispetto a quelle primarie, poiché sono connesse alle fonti attraverso i principi freudiani di proiezione e di investimento. In qualità di “testimonianza retrospettiva”, secondo Hirsch «la postmemoria costituisce un modello di lettura sia dell’evidente fenomeno della ripetizione sia delle stesse immagini canonizzate. […] L’insistita e sconvolgente ripetizione crea un legame tra le due generazioni, riproducendo e non evitando quell’effetto traumatico vissuto invece in maniera molto più diretta da parte dei sopravvissuti e dei testimoni diretti come una ripetizione compulsiva»(2).

Numerosi altri studiosi si pongono sulla stessa linea tracciata da Marianne Hirsch e sottolineano come l'occhio indiretto dei testimoni secondari possa meglio focalizzare e tradurre in immagini ricordi così drammatici. Lawrence Langer e Cathy Caruth concordano sul fatto che la difficoltà di raccontare, da parte delle vittime della Shoah, risieda in una frammentazione del sé che porta a una narrazione necessariamente incompleta. D’altra parte, Ernst van Alphen invoca la distinzione tra storia e immaginazione e segnala che solo una più sofisticata comprensione della rappresentazione – possibile solo per chi è meno coinvolto– arrivi meglio al cuore del trauma. Anche Joan Gibbons, rifacendosi alle tesi di Hirsch, rintraccia nelle testimonianze estetiche delle generazioni successive un processo ontologico in fieri di produzione della memoria. Intesa come eredità delle esperienze passate ancora in corso di elaborazione, «la postmemoria comporta l’obbligo di continuare quel processo di lavoro attraverso o sull’evento e non è ancora una risposta definitiva»(3).

Sebbene, a grandi linee, possano esser incluse nel bacino della postmemoria le operazioni di ogni artista che, nato dopo la metà del Novecento, lavora sulle testimonianze dell'Olocausto –a tal proposito Gibbons annovera anche i casi di Christian Boltanski e di Anselm Kiefer– ancor più legittime, da un punto di vista morale e dialettico, sono le interpretazioni dei familiari delle vittime.

Uno degli esempi più interessanti di arte della postmemoria è quella offerta dall’americano Jack Sal, nato a Waterbury (Connecticut) nel 1954 da genitori ebrei sopravvissuti all’Olocausto e immigrati in America nel dopoguerra. Artista minimalista e concettuale, fin dagli esordi egli pone al centro dei propri interessi l’attenzione al passaggio temporale, come dimostra il frequente utilizzo della tecnica fotografica del cliché-verre(4). Stabilmente in Italia dalla seconda metà degli anni Ottanta, Sal in numerosi interventi e installazioni site specific mette a confronto la storia dei luoghi e la percezione dello spazio. Cifra peculiare del suo lavoro è l'analisi condotta sui segni e sui colori, in particolare quelli primari, una sorta di mappa esistenziale e trascendente che, dai primi progetti – tra cui spicca la decorazione pittorica della settecentesca Cappella Gandini di Padova, realizzata nel 1986– giunge fino ai progetti più recenti(5).

Re/Place (1998-2000) è il primo lavoro di Jack Sal sul passato e sulla persecuzione ebraica. Incentrato sulle vicende della sua famiglia, esso può esser considerato a buon diritto un manifesto dell'arte della postmemoria. Come accade spesso nei lavori di Sal, il titolo del progetto gioca su un doppio senso e indica la natura dell'operazione, la deposizione di una lastra di bronzo davanti al portone d’ingresso di un edificio di Monaco di Baviera, il numero 9 di Max Weberplatz (fig. 1). Il punto non è casuale, ma corrisponde al luogo dove, scampati allo sterminio nazista, avevano abitato i suoi genitori dopo la fine della Seconda guerra mondiale. L’installazione urbana è, tuttavia, solo l'evento conclusivo di Re/Place, poiché è l'epilogo di un viaggio condotto dall'artista insieme ai suoi genitori nel cuore dell'Europa, in un vero e proprio percorso a ritroso negli antri più oscuri della memoria familiare.

Ester Petrower e Philip (Faiwa all’anagrafe) Sal si erano conosciuti in un ospedale nei pressi di Monaco subito dopo la fine del conflitto. Ester, originaria di un villaggio allora polacco e dal 1991 appartenente all'Ucraina, arriva in Germania dopo aver vissuto due anni in un rifugio sotterraneo costruito da suo padre nei boschi della Galizia ed essersi così sottratta ai rastrellamenti compiuti delle ss. Nato nel 1925 nella città lituana di Šiauliai – dove la fiorente comunità ebraica viene quasi interamente cancellata dalle truppe tedesche – Philip proviene invece dal lager bavarese di Dachau, dove era giunto dopo esser transitato per altri campi e aver perso, per mano nazista, alcuni dei propri familiari. A Monaco i due vivono tra il 1945 e il 1949, periodo in cui si sposano e nasce la prima figlia Betty, prima di imbarcarsi definitivamente verso gli Stati Uniti, dove cinque anni dopo vede la luce Jakob (solo in seguito l'artista muterà il suo nome in Jack). Lo stimolo a realizzare un lavoro come Re/Place nasce in lui dal fatto che, per molti anni, il passato aleggia tra le pareti domestiche come uno spettro, perché i coniugi Sal, anche parlando tra loro in lingua yiddish, cercano di tenerlo nascosto più possibile ai figli. Il muro inizia a rompersi quando, a metà degli anni Novanta, il regista Steven Spielberg fonda la Survivors of the Shoah Visual History Foundation, un grande “archivio della sopravvivenza”(6) formato dalle testimonianze di molti sopravvissuti allo sterminio, tra cui figura anche quella della nonna materna dell’artista.

L'obiettivo di Sal non è solo commemorare con un intervento artistico un avvenimento che intreccia storia recente e vicende personali, ma sancire pubblicamente, anche se in forme tutt’altro che appariscenti, il processo di riconciliazione della sua famiglia con il proprio passato. Così, nel corso dei mesi precedenti, l'artista decide di accompagnare Ester e Philip attraverso i loro luoghi della memoria. Parti essenziali del progetto sono una pubblicazione(7) e il film documentario Max Weber-Platz, scritto e diretto da Michele Buono e Piero Riccardi in collaborazione con Carmine Fornari e prodotto da Aleph Film e RaiTre (Italia, 2000). Il film documenta la genesi e lo sviluppo del lavoro di Sal, dal momento in cui l'artista giunge a Monaco in seguito a una richiesta della madre e constata che l'edificio esiste ancora. Egli è impressionato dal fatto che i suoi genitori abbiano vissuto, per ben quattro anni, a diretto contatto con quelle persone che potevano esser state i loro aguzzini e pensa che l'unico modo per rimarginare le ferite di quel passato sia entrarvi con il proprio lavoro.

Max Weber-Platz è un vero climax emozionale in cui l'artista, a partire dall'idea progettuale, mette i suoi genitori a duro confronto con sé stessi, convincendoli –dopo cinquant'anni– a tornare da Miami in Europa a saldare i conti con la propria coscienza. Il viaggio prende il via proprio da Monaco e prosegue verso est, lungo interminabili tragitti ferroviari, appunti sui diari e incontri con gli abitanti dei luoghi. Dopo aver toccato le tappe della memoria di Philip ed Ester –da Dachau all'Ucraina fino alla Lituania– il percorso torna al numero 9 di Max Weberplatz dove, prima della deposizione della lastra, i Sal chiudono idealmente il cerchio e varcano la soglia di quella che era stata la loro abitazione tanti anni prima. Alla cerimonia di inaugurazione di Re/Place partecipa una delegazione del Municipio monacense, a dimostrazione di quanto il processo di elaborazione del lutto sia avvenuto, nella comunità tedesca, anche attraverso le politiche di integrazione e accoglienza attuate a partire dalla fine della guerra.

Tutti i passaggi sono punteggiati da improvvise riemersioni di ricordi e dalla progressiva manifestazione di traumi sopiti per anni che, in taluni momenti, raggiungono intensi vertici di emotività, come nella scena del pianto incontrollato di Philip tra le baracche del campo di Dachau. Il progetto Re/Place ha un grande rilievo sia da un punto di vista psicologico che storico. Da un lato, infatti, l'operazione artistica compiuta dal figlio attutisce l’impatto dei coniugi Sal con il loro vissuto, senza che una ricaduta nella fiction comprometta l’autenticità delle impressioni e delle sensazioni. Dall'altro, pur pienamente immerso in una vicenda che lo riguarda direttamente, l'artista mantiene il necessario distacco critico e realizza un lavoro di grande affidabilità archivistica. In questo senso, al di là della tradizionale distinzione tra storia e memoria, Sal è un artista-storico che, trovando nuove vie di storicizzare il passato, si accorda alla nozione di artista quale testimone secondario e vettore di postmemoria(8).

La componente autobiografica che contraddistingue Max Weber-Platz avvicina il lavoro di Jack Sal a due opere letterarie, il romanzo Ogni cosa è illuminata di Jonathan Safran Foer(9) e il graphic novel Maus di Art Spiegelman. Il primo caso è la narrazione autobiografica di un viaggio compiuto dall'autore, allora ventenne, dagli Stati Uniti alla provincia ucraina, alla ricerca della donna che si presume abbia salvato suo nonno, ebreo scampato alla persecuzione nazista ed emigrato oltreoceano. La missione, che porta Jonathan a conoscere il tragico destino della comunità ebraica di Trachimbrod(10), si rivela un vero e proprio affondo nella sua memoria e in quella dei suoi accompagnatori. In una combinazione di verità e finzione letteraria, la struttura narrativa del romanzo alterna alla descrizione della ricerca del protagonista le vicende dei suoi antenati –surreali incroci di passioni umane e rigide tradizioni cabalistiche– e determina un duplice piano temporale, che avvicina gli eventi del passato a quelli del presente. Il progressivo affioramento del ricordo avviene per mezzo di racconti e oggetti sottratti all'oblio e porta i personaggi a guardare in faccia le ombre del proprio trascorso, rimosso, incapsulato o ignoto che sia. Come per i membri della famiglia Sal, così per i personaggi di Ogni cosa è illuminata l'approdo definitivo si ha nell'incontro, insieme catartico ed elegiaco, tra il senso di colpa –per aver ucciso, per essersi salvati– e il compimento dell'elaborazione del lutto.

Se il tema del viaggio è il comune denominatore tra Max Weber-Platz e il romanzo di Safran Foer, il confronto diretto con la biografia e la memoria paterna avvicina il lavoro di Sal al graphic novel di Spiegelman(11). Concepito sin dagli anni Settanta, il lavoro viene dapprima pubblicato a puntate e quindi raccolto, tra il 1986 e il 1991, nei due volumi Maus I e II (in origine intitolati rispettivamente My Father Bleeds History e And Here My Troubles Began). Nel suo genere, il libro resta «un esempio pressoché unico di sintesi tra le modalità espressive della cultura di massa e le complesse problematiche legate alla riflessione sulla possibilità di rappresentare l'Olocausto»(12). Infatti, una delle specificità di Maus consiste nell'aver incrociato la questione della rappresentabilità della memoria con uno dei maggiori generi letterari della cultura di massa –il fumetto– aprendo la strada a numerose altre interpretazioni sul tema. Il testo deriva dalle memorie raccontate all'autore da suo padre Vladek, ebreo polacco sopravvissuto ad Auschwitz insieme alla moglie Anja e, come nel caso dei genitori di Jack Sal, emigrato con lei negli Usa dopo un primo rifugio europeo.

L'aspetto centrale del libro di Spiegelman è la resa zoomorfa dei personaggi, laddove gli ebrei sono raffigurati come topi –da qui il riferimento al titolo– i nazisti come gatti, i polacchi come maiali e così via. Oltre che rinviare alla tradizione iconografica classica ed ebraica e all’assimilazione tra gli ebrei e i ratti stabilita da Hitler nel Mein Kampf, la scelta della trasfigurazione simbolica consente parzialmente all'autore di svincolarsi dalla difficoltà di rappresentare l'indicibile della Shoah, senza correre il rischio di una banalizzazione realistica. La resa zoomorfa delle illustrazioni, in un medium considerato d'evasione come il graphic novel, non pregiudica in alcun modo la veridicità della testimonianza di Vladek, ulteriormente rimarcata dalla frequente presenza di riferimenti storici all'interno delle strisce.

Similmente al docu-film sull'opera di Jack Sal e all'intricata impalcatura narrativa assemblata da Foer, anche la vicenda di Maus presenta una complessa organizzazione spazio-temporale, alternando continuamente presente e passato, tra i momenti delle interviste rilasciate da Vladek ad Art, le rievocazioni degli eventi e le fasi di lavoro dell'artista stesso (fig. 2). I molteplici piani autobiografici puntano i fari sul difficile rapporto tra padre e figlio e scuotono entrambe le coscienze sul rapporto con la memoria e con l'elaborazione del lutto. Se i coniugi Sal fanno ritorno in Europa dopo più di cinquant'anni solo grazie alla sollecitazione del figlio, sono le interviste di Art che spingono Vladek Spiegelman a far riemergere un passato rimosso, espresso perfino nella distruzione dei diari scritti dalla moglie Anja, morta suicida nel 1968. D'altra parte, il dialogo con il padre induce l'artista a rivelare antichi rancori stratificati, dipesi dalla sua tormentata condizione di figlio di sopravvissuti e dalla decisione di voler effigiare l'orrore più grande, senza averlo vissuto in prima persona. Al pari di Max Weber-Platz, Maus riflette il diritto di esprimere in arte l'inesprimibile, rappresentando così «il nodo centrale dell'esperienza della “seconda generazione” dei figli dell'Olocausto, cioè lo scontro doloroso tra la responsabilità imposta dall'imperativo della memoria e la fatica di trasmettere la memoria stessa, o meglio la postmemoria»(13).

Allargandosi dalla dimensione privata a quella sociale e pubblica, le “fondamenta” piantate da Sal in Re/Place ricordano gli Stolpersteine (Pietre d’inciampo) realizzati dall’artista tedesco Gunter Demnig, una delle manifestazioni più interessanti di arte della memoria. Gli Stolpersteine sono sampietrini che, fin dal 1995 –il progetto ha raggiunto oggi la sistemazione di quasi 50mila pietre in diciassette diversi paesi europei– Deming colloca sui marciapiedi davanti alle abitazioni originarie dei deportati politici, razziali e militari nei lager nazisti. Essi sono preziosi testimoni del passato che, al di là di ogni eccesso retorico, riportano i riferimenti della deportazione sulla superficie in ottone (fig. 3), si insinuano nella topografia dei luoghi e fungono, così, da antidoto alla dispersione della memoria “scomoda”. Concepito come lavoro in progress, il progetto degli Stolpersteine ha per Demnig l'obiettivo di “riportare a casa” i deportati(14), poiché ridà vita al ricordo e ne diffonde la conoscenza nelle comunità di appartenenza. In questo modo, il processo diviene un atto rituale e, al contempo, un'occasione per riallacciare i legami fra parenti di una stessa famiglia, spesso allontanati da distanze geografiche e generazionali.

Come per gli Stolpersteine di Demnig, in Re/Place Jack Sal attiva un vero e proprio processo di riflessione etica e sociale. Di colore diverso e leggermente più bassa rispetto al piano di calpestio del marciapiede, la lastra bronzea –la cui superficie è per metà incisa e per l'altra non lavorata– si innesta in modo poco appariscente nel contesto urbano e si profila solo gradualmente nella percezione dei passanti che vi camminano sopra (fig. 4). Ed esattamente alla stregua degli Stolpersteine, che «non esigono contemplazione ma una fruizione dinamica e temporalizzata»(15), Re/Place ha un valore “contro-monumentale” –con riferimento ai memoriali alla Shoah invisibili realizzati da artisti tedeschi come Jochen Gerz o Horst Hoheisel– che, nella sua transitorietà, simboleggia la diaspora vissuta dalla famiglia Sal a causa della persecuzione ebraica e riproposta nel viaggio di Max Weber-Platz. In un altro punto della piazza, la riproduzione metallica di alcuni documenti relativi ai Sal –come il modulo di registrazione del loro domicilio di Monaco o il certificato di rilascio di Philip dal lager (fig. 5)– chiarisce ai passanti il significato dell’operazione. L'obiettivo finale dell'artista è che le vicende della giovane coppia, tracce vive della storia e dell'identità del luogo, definiscano così un nuovo inizio, uno sguardo proteso verso il futuro:

Volevo fare qualcosa che non fosse verticale; non un segno che fermasse il tempo, piuttosto un segno del tempo orizzontale, del tempo come continuità. Perché questo luogo rappresenta una transizione orizzontale per i miei genitori, come per la maggior parte di quelli che sopravvissero alla guerra, che continuarono la vita, che trovarono la forza di mettere insieme le vite, di ricominciare e, infine, di emigrare.(16)

Nel 2006, in occasione della Giornata della Memoria, il Comune di Pisa chiede a Jack Sal di realizzare un intervento in cui confluisca la sua vicenda personale e quella della città. Nasce così, presso il Museo Nazionale di San Matteo, l'installazione ambientale Art/&/Memory, in cui alla presentazione di Max Weber-Platz egli lega un intervento basato sullo studio della storia e sulla morfologia della città. Sal si concentra sull'inscindibile legame che Pisa ha con l'Arno e utilizza nel suo intervento le sabbie del fiume che, nel corso dei secoli, hanno alternativamente assicurato alla città sopravvivenza e declino. L’artista appende i sacchi di sabbia a grandi pannelli scuri e li accumula in orizzontale –quasi a formare degli argini fluviali o delle trincee belliche– e crea un’installazione dal sapore poverista (figg. 6-7), vicina in particolare ad alcuni lavori di Jannis Kounellis (Senza titolo, 1993, collezione privata)(17). Il materiale interessa Sal in quanto testimone di una narrazione diacronica, scandita sulla base di tre riferimenti storici fondamentali. Infatti, in età medievale le secche del territorio furono una delle cause del graduale crollo della grande Repubblica Marinara pisana, mentre nella prima metà del Cinquecento Michelangelo Buonarroti mescolò le sabbie dell'Arno ai suoi colori per realizzare i suoi sontuosi affreschi nella Cappella Sistina. Infine, ispirato da una fotografia che ritrae Piazza dei Miracoli “imbottita” di sacchi durante la Seconda guerra mondiale, l’artista americano si serve della sabbia per rappresentare anche il piano più recente, in cui essa diventa prezioso antidoto alla distruzione della città e alla dispersione della sua memoria.

Nello stesso anno, Jack Sal torna ad affrontare il passato “scomodo” dell'Europa Orientale in White/Wash II, memoriale costruito nella città polacca di Kielce su incarico della United States Commission for the Preservation of Americas Heritage Abroad (Commissione americana per l'Olocausto), in ricordo di un pogrom scatenato contro la comunità ebraica nel 1946.

Durante la Seconda guerra mondiale, grandissima parte dei circa 24mila abitanti ebrei di Kielce fu deportata dai nazisti e i sopravvissuti che riuscirono a tornare alle proprie case furono solo 150. A una prima intimidazione scatenata contro la comunità mentre era riunita nel Centro ebraico, il 4 luglio del 1946 –quindi a guerra ormai finita da oltre un anno– la folla dei cittadini polacchi fece seguire un sanguinoso attacco che uccise 42 ebrei e ne ferì più di 50. La violenza venne scatenata in seguito alla diffusione della falsa notizia che gli ebrei avessero ucciso alcuni bambini cristiani e che un ragazzo polacco, poi ritrovato illeso in un villaggio vicino, fosse stato assassinato nelle cantine del Centro. In seguito, sette autori del massacro furono individuati e condannati alla pena capitale. La rapida diffusione dell'evento convinse molti cittadini ebrei dell'Europa Orientale che, sebbene guerra e persecuzione fossero terminate, l'emigrazione verso l'America o Israele fosse una strada più sicura rispetto al ritorno nei propri luoghi originari.

Giunto a Kielce nel 2003 per partecipare a una rassegna espositiva, Sal si rende conto che in città, lontano dal sito del pogrom, dal cimitero e dalla sinagoga, non esistesse alcun monumento che ricordi agli abitanti e ai forestieri l'avvenimento né, in generale, l'importante passato della comunità ebraica. L'artista si accorda con il sindaco di Kielce Wojeich Lubawski sulla possibilità di realizzare una “presenza pubblica”(18) e pensa alla possibilità di collocare una scultura all'interno dei giardini pubblici del Municipio, luogo centrale e molto frequentato dalla cittadinanza. Sebbene la decisione di Lubawski rifletta la buona volontà di non rimuovere una parte fondamentale del passato di Kielce, il progetto di Sal incontra presto l’opposizione della Commissione polacca sulle verità belliche, che contesta il numero delle vittime e persino la certezza che il pogrom fosse realmente accaduto all’interno della città.

L’artista riesce a portare a compimento il progetto solo grazie all'intercessione della Commissione americana –che ne era promotrice– ma è costretto a modificarlo per non urtare la sensibilità dei residenti, ancora resistenti a riconoscere e a elaborare un passato in parte contrassegnato da episodi antisemiti. Il luogo resta quello centrale dei giardini comunali ma, contrariamente all'idea iniziale, il compromesso impone che il monumento non debba riportare il numero dei morti. Sal costruisce una struttura di blocchetti quadrati di cemento a forma di angolo retto, una sorta di grande numero sette girato di lato che rimanda al numero civico originario del Centro ebraico. Sulla superficie della struttura, quarantadue blocchetti sono rivestiti da fogli di piombo e distribuiti in ordine sparso (fig. 8). Non facendo alcun riferimento diretto al loro numero, l'artista omaggia così le vittime del pogrom senza violare il veto della Commissione storica polacca. Nei pressi del monumento, un pannello illustrativo permette ai passanti di apprendere le date del pogrom e del completamento del lavoro.

Per affinità stilistiche, oltre che per la sua simbolica collocazione nel centro cittadino, il lavoro di Jack Sal a Kielce ricorda Black Form (Dedicated to the Missing Jews), memoriale della Shoah realizzato da Sol LeWitt –artista ebreo americano come Sal– a Münster, in occasione della rassegna Skulptur Projekt del 1987 (fig. 9). Nel solco delle Modular Structures licenziate dagli anni Sessanta, LeWitt «azzera nel nero l'identità materica»(19) della scultura, un parallelepipedo formato da mattoni di calcestruzzo, la cui rigida austerità è accentuata dal contrasto con l’eleganza della Schlossplatz della città tedesca. Se ostacoli “politici” frenano il compimento del lavoro di Sal, non meno spinose sono le vicende che contraddistinguono la vita del memoriale di LeWitt. Accusata di deturpare l'armonia del sito, rovinata da scritte e persino presa a martellate da alcuni studenti, Black Form viene spostata due anni dopo dall'artista ad Amburgo, dove oggi si staglia davanti al municipio neoclassico di Altona.

Tuttavia, ciò che distingue White/Wash II dal lavoro di LeWitt è il suo carattere transitorio e provvisorio. Come in Re/Place, il fulcro concettuale dell’opera di Kielce risiede nella dimensione ininterrotta della memoria poiché, se i blocchi di cemento utilizzati da Sal sono fatti a mano in una ex fabbrica il cui proprietario era ebreo, la calce che ricopre la scultura proviene da una cava appartenuta prima della guerra anch'essa a ebrei. Ma, soprattutto, la continuità rende il memoriale un’opera in progress, come già stabilito dal titolo. White/Wash II, infatti, non solo rinvia all’occultamento della reale vicenda del pogrom –in inglese white/wash significa “coprire la verità”– ma indica anche che, su disposizione dell’artista, annualmente la cittadinanza di Kielce ripulisca e ripassi la calce sul monumento. Sebbene anche in questo caso trovi non poche opposizioni, alla fine Sal riesce nel suo intento di affidare ufficialmente alla città di Kielce la giurisdizione del memoriale e, con essa, l’impegno alla sua annuale manutenzione. Attraverso la calce, la comunità del luogo è regolarmente chiamata a toccare con mani la memoria del pogrom e, così, non può sfuggire alla sua storia e cadere nel rischio di dimenticare, colpa perfino più grave del massacro in sé: «Il soggetto dell’opera non è tanto il pogrom con i suoi 42 morti, ma i 60 anni, fino ad ora, in cui la società polacca non si è assunta la responsabilità dell’evento»(20). Piantato nel cuore della città, nelle intenzioni dell'artista il monumento funge da vera e propria agorà spaziale e temporale, dove l'incontro “alla luce del sole” tra memoria e presente punta ad assicurare il risanamento di quell'antica ferita.

Nel 2009, l'indagine sulla memoria di Jack Sal si allarga anche alla dimensione performativa con An Austrian Walk/March. Documentata dall'omonimo video, l’azione è realizzata per il MiR/Museum im Rathaus della città austriaca di Gleisdorf ed è basata sulle ricerche condotte dalla storica austriaca Eleonore Lappin. Il progetto rimanda alla storia recente della città, divenuta alla fine della Seconda guerra mondiale crocevia di estenuanti marce a cui i nazisti, in seguito alla dismissione dei lager ungheresi, costringevano i deportati ebrei. Il lavoro di Sal rievoca un episodio avvenuto durante una di queste marce, quando, mentre il gruppo passava per le vie di Gleisdorf, diciotto prigionieri tentarono la fuga, per essere però rintracciati e assassinati dalle ss, con la collaborazione di alcuni cittadini. Sal concepisce per il MiR una riproposizione della marcia dei deportati e organizza insieme a diciassette volontari un percorso di nove chilometri che, dai dintorni di Gleisdorf, termina al centro della città. Come nel memoriale di Kielce, anche in An Austrian Walk/March, la numerologia possiede un'importanza particolare poiché il diciotto, numero delle vittime e dei partecipanti alla performance, nella tradizione ebraica corrisponde alla vita. La simbologia del numero viene ulteriormente evidenziata dal fatto che l'artista chieda a ognuno di portare con sé in tasca diciotto sassolini e di depositarli sul suolo durante il tragitto, rinviando al rituale ebraico di lasciare le pietre sulle tombe per onorare il ricordo dei morti. Il video della marcia viene proiettato nelle sale del Museo, accompagnato dall’installazione di un cumulo di sassi e dalla documentazione dell’evento storico (fig. 10).

Con De/Portees (2010) Jack Sal torna ad affrontare la relazione tra storia italiana e memoria della Shoah, in maniera più diretta rispetto ad Art/&Memory. Il progetto risale all’anno precedente quando, in occasione della Giornata della Memoria, il giornalista Alessandro Cassin invita l'artista presso il Primo Levi Center di New York per partecipare alla lettura dell’elenco dei deportati italiani. L’obiettivo di Sal è dimostrare il modo in cui il regime fascista sia stato protagonista, e non mero comprimario, delle politiche antisemite. Similmente agli Stolpersteine di Demnig, l’opera ha un’evidente finalità educativa, poiché trasmette ai visitatori le informazioni sulla vasta presenza dei campi sul territorio e illumina la consapevolezza sull’attivo ruolo di collaborazione avuto dall’Italia nella rete dello sterminio ebraico.

L’artista raccoglie i nomi dei deportati letti annualmente al Levi Center e li elenca, insieme ai relativi riferimenti geografici, in una triplice installazione video, realizzata attraverso l’uso dei colori primari su fondo nero. Nelle prime due proiezioni scorrono le liste dei luoghi originari dei deportati e dei campi di concentramento in cui furono rinchiusi, mentre la terza mostra le pagine, progressivamente sfogliate, del volume che raccoglie tutte le generalità (fig. 11). In sottofondo, la lettura di un testo di Primo Levi induce alla necessità di mantenere vivi i doveri, distinti eppure complementari, del ricordo e della speranza. L’installazione in un ambiente buio è funzionale a «creare nell’osservatore una sensazione di “dislocazione” psicologica, in cui le tre “immagini” dei nomi, dei luoghi e delle pagine del libro forzano l’associazione della deportazione con le sue radici in Italia»(21). Dopo la prima tappa all’Istituto Italiano di Cultura di New York il 27 gennaio 2010, Sal ha esposto De/Portees nella Casa della Memoria e della Storia di Roma (2010), nel Kyoto Museum for World Peace (2011) e nel Museo Ebraico di Bologna (2012).

Intervenendo sul concetto di responsabilità sociale dell’opera d’arte, Jack Sal si dimostra erede di Joseph Beuys che, per primo in Germania, aveva manifestato il dovere pubblico della memoria dell’Olocausto. E, come nel caso del grande artista tedesco, anche in Sal la “promessa” di non cedere all’oblio travalica l’ambito specifico e diventa per l’osservatore un espediente poetico per compiere una riflessione sul proprio impegno sociale. Se «la responsabilità artistica è dare un contributo che faccia recepire non solo la memoria, ma anche il nostro rapporto con essa»(22), le operazioni dell’artista americano, nella loro varietà espressiva, rimarcano l’importanza delle relazioni che ognuno di noi ha con la coscienza della storia e aprono a possibilità interpretative su quello che verrà.

 

1)M. Hirsch e L. Spitzer, «War stories. Witnessing in Retrospect», in, Image and Remembrance. Representation and the Holocaust, a cura di S. Hornstein e F. Jacobowitz, Indiana University Press, Bloomington 2003, p. 139.

2)M. Hirsch, «Immagini che sopravvivono: le fotografie dell’Olocausto e la post-memoria», in Storia della Shoah, vol. II, a cura di M. Flores e M. Cattaruzza, UTET, Torino 2006, pp. 300-301.

3)J. Gibbons, Contemporary Art and Memory. Images of recollection and remembrance, I. B. Tauris, Londra-New York 2007, p. 73.

4)Il cliché-verre è una tecnica ibrida a metà strada tra la litografia –in particolare l'acquaforte monotipica– e le prime sperimentazioni fotografiche. Il procedimento non prevede una stampa, ma un disegno su una lastra di vetro rivestita da inchiostro tipografico, opportunamente seccato; le immagini si formano su un foglio di carta fotosensibile grazie alla luce del sole, che passa sulla lastra solo nei punti “incisi” dal disegno. Già nel corso degli anni Cinquanta dell'Ottocento, uno dei maggiori artisti che si distinse nell’uso del cliché-verre fu Camille Corot. Cfr. Le tecniche artistiche, a cura di C. Maltese, Mursia, Milano 2014, pp. 303-304.

5)Cfr. Jack Sal. Project, catalogo della mostra a cura di R. Misselbeck e J. Sal, Museum Ludwig, Colonia 1995. Tra i principali recenti eventi espositivi, si segnala la personale Ring/Rings/Ring organizzata all'inizio del 2014 presso il Museo di Arte Contemporanea di Lissone (MB), a cura di Alberto Zanchetta.

6)Cfr. A. Wieviorka, L’era del testimone, Raffaello Cortina Editore, Milano 1999, p. 127.

7)Cfr. Jack Sal, Re/Place, Genoma, Regnano 1998.

8)Cfr. J. Gibbons, Contemporary Art and Memory. Images of recollection and remembrance, cit., p. 76.

9)Cfr. J. Safran Foer, Ogni cosa è illuminata, Guanda, Parma 2002. Nel 2005, dal romanzo è stata tratta la pellicola omonima, diretta dal regista americano Liev Schreiber.

10)Il villaggio descritto nel romanzo, luogo d'origine del nonno dell'autore, è nella realtà Trochenbrod (o Sofijovka), shtetl ebraico dell'odierna Ucraina occidentale completamente cancellato dalla furia nazista nel 1942, la cui storia è ben documentata in A. Bendavid-Val, I cieli sono vuoti. Alla scoperta di una città fantasma, Guanda, Parma 2013.

11)Cfr. A. Spiegelman, Maus, traduzione di C. Previtali, Einaudi, Torino 2000.

12)A. Di Liddo, «Il fardello della memoria, l'ansia della rappresentazione», in, Rappresentare la Shoah, Atti del Convegno (Università degli Studi di Milano, 24-26 gennaio 2005), a cura di A. Costazza, Cisalpino–Istituito Editoriale Universitario, Milano 2005, p. 459.

13)Ivi, pp. 461-462.

14)Nel testo scritto in occasione della prima edizione di «Memorie d'inciampo» nel 2010, Alberta Levi Tedeschi afferma che, per mezzo delle pietre d'inciampo, «i miei cari, almeno i loro nomi, tornano a casa, non sono più nel vento. Qui, su questo marciapiede cammina la vita, e i loro nomi ne faranno parte». A. Levi Tedeschi in A. Zevi, Monumenti per difetto. Dalle Fosse Ardeatine alle pietre d'inciampo, Donzelli, Roma 2014, p. 172.

15)A. Zevi, Monumenti per difetto. Dalle Fosse Ardeatine alle pietre d'inciampo, cit., p. 174. In linea con il progetto di Gunter Demnig e, di riflesso, con il lavoro di Sal, nel luglio del 2013 a Bari il Comune e la sede locale dell'Associazione nazionale partigiani d'Italia hanno promosso l'installazione di venti pietre d'inciampo, sull'asfalto della centrale Piazza Umberto I. L’iniziativa, realizzata dall’architetto Arturo Cucciolla, intende trasmettere il ricordo della strage che il 28 luglio 1943 si consumò nella vicina via Niccolò dell'Arca, quando un reparto dell'esercito regolare fascista fece fuoco contro un pacifico corteo di cittadini, in prevalenza giovani. Cfr. N. Signorile, «Venti «pietre» in via dell'Arca per inciampare nella memoria», in La Gazzetta di Bari, inserto de La Gazzetta del Mezzogiorno, 25 luglio 2013, p. II.

16)J. Sal in Max-Weber-Platz, docu-film sulla realizzazione del progetto Re/Place diretto da M. Buono, C. Fornari e P. Riccardi, RaiTre e AlephFilm (Italia 2000).

17)Allestita all’interno di un tendone, l’installazione dell’artista greco si compone di tre sacchi di tela, appesi ai sostegni con alcune corde e riempiti di polvere di pirite, polvere di zolfo e frammenti di calchi in gesso e pietre. Cfr. Jannis Kounellis, catalogo della mostra (Napoli, MADRE, 22 aprile-4 settembre 2006) a cura di E. Cicelyn e M. Codognato, Electa, Napoli 2006, pp. 92-93.

18)Il riferimento è tratto dal documento, redatto dall'artista stesso, relativo all'intervento di Kielce. Cfr. http://www.jacksal.com/permanent_installations/kielce_memorial.html .

19)A. Zevi, Monumenti per difetto. Dalle Fosse Ardeatine alle pietre d'inciampo, cit., p. 33. Nel 1993, LeWitt ripropone l'idea nel suo progetto originario per il Museo Memoriale degli Stati Uniti all'Olocausto di Washington, che prevede una struttura muraria composta da blocchetti neri di calcestruzzo, frammentata e irregolare sulla sommità. In seguito al rifiuto della Commissione, l'artista realizza Consequence, cinque wall drawnings quadrati in cui il nero delle cornici fa da contrappunto alla sequenza di grigio e colori primari. Cfr. M. Godfrey, Abstraction and the Holocaust, Yale University Press, New Haven-Londra 2007, pp. 213-216.

20)La citazione di Jack Sal è tratta da una conversazione che ho personalmente intrattenuto con lui nel centro di Roma il 29 ottobre 2012.

21)La citazione è tratta da un testo programmatico dell'artista sul progetto, gennaio 2010.

22)Ancora una citazione di Sal estrapolata dal nostro incontro dell’ottobre 2012.

Ottobre 2016