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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Dove la contemporaneità è indagata con quesiti rilanciati al pubblico

Daniela De Dominicis

L’inaugurazione risale ad alcuni mesi fa, al 24 novembre 2016, dopo dieci anni di lavori ed un investimento di 83 milioni di sterline.  E’ in questa data che Londra ha riaperto il suo museo del design dopo la chiusura della storica sede presso l’ottocentesco deposito industriale nella riva Sud del Tamigi(1).
Un evento atteso soprattutto per la crescente curiosità sulle scelte espositive e il taglio curatoriale del  direttore Deyan Sudjic(2), campo nel quale la capitale britannica da anni funziona da battistrada.   
Questa tipologia museale – in origine definita delle Arti Applicate o delle Arti Decorative – è stata l’ultima   ad essere istituita in Occidente. Ha fatto la sua comparsa soltanto nel secondo Ottocento, dopo la prima Esposizione Universale del 1851 e deriva la sua consistenza dalla produzione in serie di marca industriale. Si tratta di musei difficili da organizzare a ragione dell’eterogeneità e vastità del materiale di propria competenza: a partire dalle spille sartoriali fino ad arrivare ai grandi mezzi di trasporto, ogni cosa  vi potrebbe trovare posto. A Londra inoltre, il museo del design deve fare i conti con la più antica istituzione  di questo genere,  il famoso Victoria and Albert Museum che nonostante il suo secolo e mezzo di storia, è più competitivo che mai, recentemente ingrandito(3) e costantemente vitalizzato, per volontà del direttore Tristan Hunt, da esposizioni innovative  di altissimo livello(4).
Il museo del design di Londra è stato fortemente voluto nel 1989 da Sir Terence Conran, il famoso fondatore di Habitat, l’imprenditore che ha contribuito a rendere democratico il design nel secondo dopoguerra con una politica dei costi contenuta e una capillare diffusione dei punti vendita. Proprio per non confliggere con il Victoria and Albert, Conran aveva orientato la scelta più che sugli oggetti d’autore –marginalmente presenti– sull’infinità degli anonimi prodotti che ci circondano e con cui quotidianamente ci relazioniamo –le scatole dei cibi dei supermercati, il packaging dei detergenti, le lattine, i biglietti dell’autobus, etc.– per ripercorrerne la progettazione, le difficoltà realizzative, i costi, le trasformazioni... Le dimensioni contenute della sede originaria a Butler’s Wharf hanno spinto ad accogliere con favore il progetto di cambiamento di sede giunto dall’amministrazione cittadina nel 2008. Si tratta di un esempio virtuoso di collaborazione tra pubblico e privato: una delle maggiori società immobiliari britanniche infatti, la Chelsfield, in collaborazione con la Ilchster Estate, ha avuto il permesso di costruire 54 appartamenti di lusso al limitare di Holland Park(5),  articolati in tre diversi edifici, offrendo come tributo il restauro del Commonwealth Institute che insiste sulla stessa area e che avrebbe permesso al Design Museum di triplicare i suoi spazi. Secondo la politica urbanistica condivisa dalle ultime tre amministrazioni cittadine, si  preferisce infatti intensificare  le aree già urbanizzate,  servite dai mezzi pubblici, e recuperare strutture esistenti dismesse, piuttosto che costruire ex novo in zone verdi e periferiche. L’area in questione inoltre,  Kensington High Street,  rientra  in un più generale e ambizioso progetto di rilancio di questa zona  Ovest della città(6).  L’edificio originario del Commonwealth Institute, costruito tra il ’60 e il ’62, è stato progettato da Robert Matthew e Stirrat Johnson-Marshall – fondatori dello studio oggi noto con la sigla RMJM – nella forma  di grande tenda espositiva con un’ originale ed ardita volta cementizia paraboloide iperbolica – unica al mondo –  rivestita di rame e  con muratura perimetrale in metallo e vetro azzurro-verde. I tre piani interni organizzati intorno ad una hall centrale hanno ospitato, fino alla chiusura del complesso nel 2002, un’esposizione permanente sugli stili di vita nelle diverse nazioni del Commonwealth.
Considerata una struttura di particolare prestigio architettonico della Londra dell’ultimo dopoguerra, seconda soltanto al  complesso del Royal Festival Hall del 1951 sulla riva Sud, è stata posta nel 1988 sotto speciale tutela giuridica(7)e questo ne ha impedito la demolizione, ipotizzata a ragione degli alti costi del suo mantenimento.
La Chelsfield, scegliendo tra sei diversi studi di architettura internazionali(8),  ha affidato la rivisitazione dell’edificio al gruppo olandese OMA – fondato da Rem Koolhaas – e al britannico Allies and Morrison con la collaborazione ingegneristica di Arup; gli interni sono invece stati firmati dal designer John Pawson.
Il restauro ha ripristinato l’antica funzionalità della copertura che resta la protagonista indiscussa della costruzione, perfettamente visibile com’è da ogni angolo dell’interno, con le sue strane curve, diverse  a seconda dei vari punti di osservazione, che non si lasciano mai cogliere per intero. Due possenti cavalletti in cemento, inizialmente inclinati secondo la tangente alla curva nel piano d’imposta e poi verticali, ne scaricano il peso a terra; esternamente altri due cavalletti ad Y rovesciata contengono le spinte delle volte a ventaglio degli altri due lati.  Un sistema di rampe perimetrale permette di salire di tre livelli o di scendere di due lasciando  libera la grande corte centrale a tutta altezza.  John Pawson è intervenuto nella rivisitazione interna con il suo consueto stile, sobrio e raffinato. Il legno chiaro di quercia che riveste le superfici pavimentali, l’illuminazione diffusa, regolata in funzione delle diverse ore del giorno e delle condizioni atmosferiche, creano un ambiente accogliente e gradevole. Anche le divise del personale rincorrono una semplicità inconsueta, sono infatti dei grembiuli grigio scuro con una grande tasca anteriore come quelli usati dagli artigiani nelle antiche officine o nelle falegnamerie e rimandano alla cultura del fare che è alla base della nostra civiltà.
E veniamo ai contenuti. Due piani, quelli inferiori, sono dedicati alle mostre temporanee(9)che, vista la molteplicità degli spazi, possono essere più d’una contemporaneamente.  Questo genere di attività – unitamente alle conferenze, eventi, visite guidate e convegni – si è rivelata vitale per i musei e non solo perché costituisce una fonte di rientro economico, l’unica a pagamento nel Regno Unito a fronte della gratuità della collezione permanente, ma anche perché è la sola modalità per richiamare al museo il pubblico degli appassionati che così vivacizza ed affolla periodicamente gli ambienti.
La collezione permanente è ospitata all’ultimo piano. Spazi un po’ angusti in realtà, in cui le diverse sezioni si accalcano e si sovrappongono anche visivamente in contrasto con l’ampio respiro delle strutture d’accoglienza e dei disimpegni.
Designer Maker User, questo il titolo con cui viene proposta questa sezione, ad indicare le tre fasi strettamente interconnesse per la creazione degli oggetti: la progettazione, la realizzazione e l’uso. Dopo un lungo pannello esplicativo che propone una carrellata con gli snodi salienti del design del XX e XXI secolo, si accede alle sale espositive.
Il criterio utilizzato non è quello cronologico bensì tematico. Una modalità non inedita, avviata tra molte polemiche nel duemila dal direttore della Tate Modern, Sir Nicholas Serota(10),  cui si sono ispirati diversi musei(11),  l’ultimo dei quali, la Galleria d’Arte Moderna di Roma. Una scelta che si basa sullo scardinamento di un’idea progressiva dell’arte e che affonda le radici nelle riflessioni di Walter Benjamin(12) di una storia che si dà per frammenti, sottratti al fluire di un avanzamento lineare, frammenti che portano in sé gli echi del passato e le anticipazioni del futuro.  Questa rinuncia al divenire storico si è inoltre arricchita, ormai da tempo, di una visione più ampia che scavalca i confini del cosiddetto ‘occidente’ e si apre ad altre civiltà, le modernità plurali(13). 
Tematiche globali dunque che ci inducono a riflettere su alcuni aspetti basilari del design.
 In primis: qual è il suo campo di produzione? La frase di Ernesto Rogers, “dal cucchiaio alla città”, che apre la rassegna, ci lascia intendere la sua pervasività nel nostro quotidiano. Dalla segnaletica stradale progettata  da Jock Kinneir e Margaret Calvert per la prima autostrada britannica nel 1957 poi utilizzata in tutto il mondo, alla semplificazione grafica per la cartina della metropolitana di Harry Beck del 1933 anch’essa universalmente adottata.
Secondo aspetto: che cos’è un ‘buon’ design? Questa sezione si apre con una vetrina che mostra due oggetti entrambi frutto di un’attenta progettazione, alte qualità tecniche e ottimo funzionamento ma con finalità opposte: un AK-47, meglio noto con il nome di Kalashnikov, e un tutore per fratture alle gambe. Il primo progettato da Mikhail Kalashnikov –donde il nome— nel 1947 e prodotto da un’anonima fabbrica cinese, il secondo commissionato dalla Marina statunitense a Charles e Ray Eames nel 1942 e prodotto dalla Evans Products Company con il  compensato, all’epoca un’assoluta novità tecnica. Entrambi leggeri, maneggevoli, resistenti, con bassi costi di produzione, facili da utilizzare, in uso per un lungo periodo. Ma può definirsi un buon oggetto di design ciò che è prodotto per seminare morte? I criteri utilizzati per attribuire un valore di qualità possono non tener conto della finalità del prodotto?   
E ancora, può il design essere politico? Tra le immagini delle proteste di piazza con  la grafica spontanea degli striscioni, dei manifesti e dei loghi che ormai fanno parte della nostra cultura visiva, emerge la campagna denuncia contro la politica del presidente Robert Mugabe dello “Zimbabwean newspaper” (2009) realizzata con poster fatti di banconote per un valore nominale di  tre miliardi di dollari zimbabwiani in cui ciò che vale di più è la carta su cui sono stampati.
L’ultima sezione proposta nel percorso museale è relativa allo stretto connubio tra ricerca tecnologica e  design e come questo incida profondamente sui nostri stili di vita. L’evoluzione dei telefoni, delle radio, dei lettori di musica hanno trasformato il nostro quotidiano in modo radicale senza che ce ne rendessimo pienamente conto.
Il museo di Deyan Sudjic sembra quindi non offrirci soluzioni precostituite nell’analisi della realtà che ci circonda, al contrario ci presenta diverse tematiche su cui riflettere. Forse ciò che più conta è raggiungere un livello di consapevolezza che orienti le nostre scelte con cognizione. E non è un caso allora che l’ultima vetrina proponga circa 200 oggetti selezionati dal pubblico attraverso un crowdsourcing  lanciato dal sito del museo con la domanda “What are your favourite Things?”

[Ottobre 2017]



1) Tom Wilson, The Story of Design Museum, Phaidon, 2017.
2) Deyan Sudjic, apprezzato critico del “The Observer”, ha diretto la rivista “Domus” dal 2000 al 2004, ha curato la Biennale di Venezia nel 2002 e dal 2006 è direttore del Museo del Design di Londra, è autore inoltre di numerosi testi sull’architettura e sul design contemporanei.
3) Il V&A si è recentemente dotato di un nuovo accesso sulla Exhibition Road realizzato dall’architetto Amanda Levete fondatrice dello studio AL_A. Si tratta di una  piazza pubblica di 1100 mq che un lieve diaframma, l’Aston Webb Screen, separa dalla strada pedonale e sotto la quale si trova la Sainsbury Gallery, il nuovo spazio espositivo del museo.
4) Di alto profilo scientifico le mostre:  Plywood, Material of the Modern World (a cura di Christopher Wilk a Elizabeth Bisley) che inaugura una serie di mostre sui materiali;   Opera: Passion, Power and Politics (a cura di Kate Bailey) in una innovativa ricostruzione delle sette prime serate in sette città di altrettante composizione d’opera.
5) Il complesso immobiliare, noto con la denominazione di Hollandgreen, è stato progettato da Rem Koolhaas e Reinier de Graaf del gruppo OMA, mentre la sistemazione del giardino, i percorsi di raccordo con il vicino parco e gli assi viari circostanti, nonché il piano interrato per il parcheggio è stato affidato allo studio West8, gruppo olandese specializzato in architettura del paesaggio.
6) Già zona molto trafficata e depressa è stata inserita nel progetto delle “100 Public Spaces” promosso dal sindaco Ken  Livingstone nell’ambito del quale, nel 2003, ha avuto luogo la sistemazione dell’Exhibition Road, totalmente pedonalizzata,  ad opera degli architetti Jeremy Dixon e Edward Jones.
7) Inserito nella Grade II* Listed Building, massimo grado di tutela nel Regno Unito equivalente al nostro vincolo di bene artistico nazionale (istituito in Italia dalla legge 1089/1939).
8) La scelta è stata effettuata tra i seguenti studi: Rafael Moneo, Rafael Viñoly Architects, Eric Parry Associates, Caruso St John, OMA  e Make Architects (cfr. sito dello studio OMA.eu/Office).
9) La mostra inaugurale è stata Fear and Love: Reactions to a Complex World (a cura di Justine McGuirk) cui è seguita Breathing Colour by Hella Jongerius; in contemporanea il museo ospita la rassegna Beazley Designs of the Year che presenta le più importanti novità in questo settore.
10) Nicholas Serota è stato direttore della Tate Modern dal 2000 alla fine del 2016, sostituito in questo ruolo da Francis Morris.
11) Su questo tema cfr.  il saggio di Claire Bishop, Radical Museology, Or, What’s Contemporary in Museums of Contemporary Art? Koenig Book, 2013 (versione italiana pubblicata da Johan&Levi, 2017).
12) Walter Benjamin, I “passages” di Parigi, Einaudi, 1986; sui concetti di contemporaneo e di storia interviene anche Giorgio Agamben, Che cos’è il contemporaneo?, Nottetempo, 2008.
13) La prima mostra che ha aperto alle civiltà extra europee è stata Magiciens de la Terre, (a cura di Jean-Hubert Martin), Parigi, Centre Pompidou, 1989; più recentemente Modernités Plurielles de 1905 à 1970, (a cura di Alain Seban e Catherine Grenier), Parigi, Centre Pompidou, 2013-15. Quest’ultima esposizione ha sovvertito la disposizione cronologica delle opere ed ha aperto a contributi di Paesi diversi.