Dall'immaginazione al potere, al potere immaginario

Domenico Scudero

Nelle sue lettere al direttore della Revue Française  in occasione del Salon del 1859 Baudelaire scrive alcune considerazioni sull'identità dell'artista moderno, sul pubblico e le nuove dinamiche espositive, sulle facoltà artistiche che in sintesi identifica con l'immaginazione (1). Per Baudelaire l'immaginazione era un pensiero che inglobava il significato del concetto astratto in un oggetto e, al di là dello scavo etimologico, oraziano (2), dimostrava la ragione storico-politica del romanticismo come origine e misura di ciò che allora si definiva moderno. Il termine moderno per noi ha naturalmente un'inclinazione complessa; modernità che si fa coincidere con l'inizio del Rinascimento, modernità contemporanea che in storia dell'arte si fa iniziare con l'Impressionismo; era qualcosa di simile a questa l'idea che motivava l'indagine del poeta francese. La modernità ottocentesca consisteva nella bravura dell'individuo di poter descrivere con un grado prossimo alla perfezione un'idea "fotografica" di un pensiero intimo e di conseguenza privo di possibilità altre d'essere descritto. Qui allora l'immaginazione è il contrario della contemplazione della realtà, la quale avrebbe condotto a suo dire a una condizione di inanità del pensiero e del sentire, ciò che noi adesso chiameremmo una complessa anestesia, privazione di estetica. Il pittore, diversamente dallo scultore - che per Baudelaire era leggermente noioso perché a suo dire costretto alla contemplazione - raggiunge la sua potenza espressiva quando la sua immaginazione coincide perfettamente con l'identità della sua pittura. Qui allora riconosciamo il potere simbolico dell'artista la cui immaginazione, libera, ma consapevole, racconta di quei mondi a venire che per l'appunto venivano etichettati col termine moderno. La modernità di Baudelaire è nata nel pensiero dell'artista romantico e sebbene egli stesso riconosca che il ciclo iniziale di questa modernità ha già esaurito il suo corso gli viene riconosciuta una sorta di primogenitura. L'immaginazione romantica è moderna, preesistente allo stesso momento impressionista, coeva dell'idea positivista del realismo courbetiano, e del suo racconto verista. Un'immaginazione densa di propositi futuri.
Se l'Impressionismo è l'origine della disarticolazione dell'arte dal suo contesto reale, l'immaginazione è quindi l'oggetto di questa "riflessione" interiore che ne determina la riuscita. Se per Baudelaire la fase del romanticismo era ampiamente superata non lo erano alcuni concetti, il sublime così come era discusso nei Principi della critica geniale del Coleridge (3), o persino il senso idealista della scuola romantica di Heidelberg. La rovina, o, se vogliamo, l'evoluzione del senso di realtà determinato dall'agire impressionista assume però un coinvolgimento massivamente iconoclasta se equiparato al senso di verità; il realismo dell'impressionista non è la pura verità, ma come suggeriscono Adorno e Horkheimer, è la distopia determinata da un progredire realista che nel fare arte si trasforma in "produrre", quindi mistificazione dell'utopia attraverso la distorsione della realtà. In fondo, sempre a tener presente la dialettica di Adorno, il tradimento della realtà attraverso l'immaginazione "realista", anche nelle sue dinamiche letterarie di "verismo", mette in gioco il senso dell'immaginazione trasferendolo dal campo dell'utopia al campo della distopia, ovvero traducendo immaginazione con identità della realtà probabile in forma di contenuto fortemente soggettivo, al di là del problema etico. Dopo l'immaginazione romantica, propositiva, e il successivo ciclo decadente, l'immaginazione nella scuola di Francoforte assume l'idea sintomatica della forma come contenuto essenziale della comunicazione, forte dei suoi significati poetici o anche preordinati di assiologica rilevanza attraverso la memoria della forma puro visibilista e che sarà poi simbolica panofskiana. La sua determinazione propositiva in quanto forma reale si è perduta, sostengono Adorno e Horkheimer, nel momento in cui la realtà dell'interpretazione, una sorta di tradimento del positivismo, ha superato le soglie del concreto trasferendo l'azione dell'arte dalla realtà al concetto (4) . A rifletterci adesso, la Dialettica dell'illuminismo, e forse ancora più la Dialettica negativa, sono la palese anticipazione dell'arte come immaginazione che sarebbe emersa negli anni successivi concludendosi nel concettualismo. Ma c'è di più; nell'idea approfondita da Adorno sull'opera d'arte come luogo narrativo in quanto monade del significato, persiste l'idea di una irrealtà della descrizione attraverso l'oggetto concreto, prodotto dalla persistente richiesta di funzionalità della cultura. L'immaginazione della scuola di Francoforte non è moderna nel senso romantico e propositivo del termine, semmai è visione, anticipo del tempo ma priva di univocità; è proiezione nel tempo di un frammento di presente, ma si racchiude nel buio, nella sua negazione. Si dirà che l'immaginazione di Baudelaire è ciò che rimane dalla sottrazione, o dalla scarnificazione del negativo di realtà, in questo è modernità. Mentre l'immaginazione nella dialettica è visione d'insieme, ma di un insieme che per dirla alla maniera di Garrone è senso e contrario di questo, entità ma non per questo descrivibile, e nemmeno ascrivibile al senso del proporre e del sottrarre. Possiamo anche dire che quando Guy Debord elabora nel 1967 il suo pensiero di sintesi, quando descrive il collasso della rappresentazione destinata a diventare spettacolo unitario, l'idea dell'immaginazione, o anche usando un termine desueto, la fantasia, che nelle università dello stesso anno 1967 andava a costituirsi come luogo ideale per la realizzazione del nuovo potere, non poteva che fare i conti ancora una volta con la realtà, o in riduzione di questa, con la merce che comunque avrebbe rappresentato (5).  Nel giro di un secolo l'arte ha quindi aggirato il significato di immaginazione, dal significato di visione complessa della modernità sino al riduzionismo concreto strutturalista, superando la dialettica e il suo relativismo tautologico. L'immaginazione vuole essere al potere.
L'immaginazione al potere era il sintomo terminale di un'acculturazione di massa trasferita sui binari delle già sghembe macerie dell'Illuminismo e della sua mistura inebriata di classico e rivoluzione: così come classica, o classista in senso etimologico sociale, è stata la rivoluzione permanente del post sessantotto, la falsa libertà della geometria applicata realisticamente alla guerriglia urbana, l'ascesa e la caduta degli idoli mitologici dell'immaginario rivoluzionario sprofondati nelle sabbie mobili del postmoderno (6). Qui allora l'immaginazione che sarebbe dovuta essere al potere diviene apollodorica, postideologica; gli artisti rifiutando il romantico ne rimangono invischiati sino addirittura a rifiorire come classici. In quella disordinata nebulosa concentrica di vecchi stilemi consacrati nel termidoro della rivoluzione iconoclasta affinata dal "terrore" ideologico avviene il ritorno mitologico della fantasia che si dirà postmoderna. "Dal punto di vista filosofico mi sembra che oggi siamo anarchici, nichilisti, solipsisti, certamente relativisti, spiritosi, cinici, attenti alla tradizione, amiamo il mito e i simboli piuttosto che la ragione e la scienza."(7) Così declamava Johnson in una conferenza del 1975 presso la Columbia University in quello che sembra per sonorità un quasi manifesto dell'epoca, la condizione che si definirà postmoderna e che iniziava a prendere forma in modo paradossale, quasi contraddicendo la ragione della modernità.  Sì, c'era lo spettacolo, come non comprenderlo, ma questo si era fatto anche più insidioso, si sentiva che l'apparire perdeva la sua importanza, si preparavano le successive chiose di Lyotard e la lezione ancora inesauribile di Derrida, la via perduta del centro. L'immaginazione era diventata merce.
La tendenza francese all'immaginazione non era diretta al potere, semmai era da questo schiacciata; la cultura del Sessantotto aveva ammirato, come una sorta di idolo, il saggio sull'uniformità di pensiero del tempo moderno, fra persuasori occulti e strategie di fiction. L'uomo ad una dimensione di Marcuse suggeriva però anche alcune eresie inconciliabili con l'idea di futuro immaginabile: "Liberare l'immaginazione in modo che possano esserle concessi tutti i sui mezzi di espressione presuppone la repressione di molte cose che ora son libere e perpetuano una società repressiva" scrive Marcuse (8). E in questa società repressiva la vera novità era l'idea di introdurre un'immagine di "razionalità tecnologica" che potesse essere usata per rendere disponibili a tutti le risorse di ciò che era nell'immaginazione proiettiva, un'idea futuribile di utopia reale, facendo coincidere i due termini inconciliabili. L'immaginazione al potere come aporia futuribile assume per Marcuse una volatilità realistica, e si trasforma in una soluzione raziocinante, nel vociare della rivolta sociale del '68, nella traduzione standardizzata della massima proudhoniana, l'immaginazione al potere è il potere. Ma è per l'appunto il bagliore di un attimo, quando già in pieni anni Settanta Derrida riduce e ricostruisce il senso dell'immaginazione in metafisica ragionata e poi senso dell'esserci, allusiva tensione esistenziale scalzando le fasi dell'esistenza reale e fornendone una visione sempre più distante, distaccata in quei suoi "margini" sino alla elaborazione dei fini dell'uomo, del suo pensiero, della sua ubiquità essenziale. In Derrida per raggiungere l'idea stessa dell'immaginazione occorre rifare a grandi passi la storia del pensiero da Hegel a Sartre e oltre Heidegger, senza peraltro riuscire mai a districarsi nella spasmodica chiusura di agglomerati di pensiero e nella definizione di questo (9).  L'immaginazione strutturalista si fa pensiero umanista, o semplice volontà del dire, ricadendo nella retorica, la bianca complessità del dire che nel tempo di questo flash postmoderno è una sorta di abbagliante nebbia di alba elettronica di cui non si è ancora compreso il senso. La condizione postmoderna di Lytard ne aprirà alcuni squarci e in particolare l'immaginazione di un altrove difficile da chiarire al suo teorico apparire, e che tutti poi avrebbero potenzialmente compreso con l'esperienza reale. La virtualità dell'immaginario elettronico.
Prima di questo, a detta di un filosofo della catastrofe, Michel Onfray, è stato lo strutturalismo propagandato dai post esistenzialisti marxisti Barthes, Deleuze, Lacan, Derrida, Foucault, ad aver cancellato la possibilità che il significato di realtà avesse un posto nella dialettica metafisica, facendo di questa dialettica il luogo del nichilismo che trama per raggiungere il simbolico; un simbolico dell'immaginario concreto che assume nello strutturalismo la veste deificatoria, divina, voltando le spalle al senso della storia necessariamente confluito nel tempo della fine delle ideologie. Secondo Onfray la possibilità dataci dalla fine di quel tempo dogmatico non si è ricostruita secondo la centralità storica umanista, ma avendo tralasciato storia e senso dell'esperienza umana ci ha ripiombati nell'ultimo baluardo di realtà che si poteva considerare "strutturalisticamente" comune, ovvero il mercato, il dominio dei soldi (10).
L'arte contemporanea sguazza in questo dominio finanziario, dopo aver superato l'impasse del postmodernismo maturo, col suo bagaglio di stupore e di immaginazione ma anche e soprattutto dopo aver metabolizzato la sua illusione di essere parte di un sistema autoriale – quando subito dopo ci si era accorti che in arte non esiste un solo sistema ma tanti quanti sono gli autori -; nella caduta di questo ultimo mito resistente, il "sistema dell'arte" anni Ottanta, si scopre un'arte individualista che produce oggetti sognati, o anche sottratti al campo di altrui immaginazioni, ci si separa attraverso gli spazi Ottanta dopo più di un decennio di collettivizzazione, intrusione, dialettica e critica. Si scopre l'insofferenza verso le parole, forse perché come dice Onfray apocalittico, le parole delle scuole filosofiche dello strutturalismo vengono usate con sapienza per non dire niente (11). Che è come dire il senso stesso della coscienza baroccheggiante "baciccia" e pirotecnica del postmoderno maturo anche e soprattutto nella visione che ce ne danno gli artisti. Ma soprattutto è un immaginario descritto da quegli artisti che hanno compreso il senso, per molti misterioso, di questo tempo dell'immagine che non si collettivizza, ma che rimane visione "circondariale" di un'inanità politico-comportamentale. Un immaginario che si riconosce solo ed esclusivamente nel frastuono e nei privilegi dei mercati finanziari. Insomma, mettiamo insieme quel rombo di tuono performativo, il sangue della violenza nel reportage tipo body-art, il nichilismo fotografico del trash, l'oggettualità metafisica in forma scultorea, la pittura hypercitazionista in visione geoconcettuale, il genio stregone dell'artista come umbratile rumore di fondo e avremo l'istanza concreta di una falsificazione interpretativa dell'immaginazione (12). Ci si illude che se la finanza è al potere l'arte è la sua figlia prediletta e che gli artisti ci sono perché vendono ciò che "immaginano", esistono e lottano con noi per guadagnare un radioso futuro, mentre invece la verità è che dalla dematerializzazione dell'opera, passando attraverso l'ascensione cristologica del postmodernismo, e la sua sacralizzazione in quanto merce, i sogni e l'immaginazione si sono trasformati in paradossale scenografia priva di significato e portatrice di interessi di pochi. E piuttosto è vero, come dice "filosofando col martello" Žižek, che come in un sogno ad occhi aperti o in una trance alla "matrix" milioni di esseri vivono una vita d'illusioni (13).  Immersi come siamo nel sogno narcisista dell'artista che ha immaginazione, solleticati dallo schermo "intelligente" della rete che analizza, concatena, rimuove e innesta incestuosamente le stesse immagini restituendole al mittente con la didascalia del proprio nome e relativo copyright, si vive destinati all'immortalità immaginaria, mentre intanto lo scenario del dominio regna immoto in universi "paralleli" sempre più distanti.
Aprile 2018

(1) Charles Baudelaire, Scritti sull'arte, Einaudi, Torino 1992. "Salon del 1859", pag 211 – 277.
(2) Ibidem.
(3) L'immaginazione in Coleridge è definita "esemplastica", evidenza concreta del genio in opposizione alla cultura. L'antinomia fra natura e cultura d'età classica in Coleridge si risolve con la differenziazione di "genio" come natura separato dal concetto di cultura, ma di fatto univoca a questa. Cfr. Luciano Anceschi, Autonomia ed eteronomia dell'arte. Il progetto di una teoria estetica "aperta", sezione III – Da Coleridge a Keats, Garzanti Milano, 1992 (1976). T. S. Coleridge, Sui principi della critica geniale (1814) in Biographia Literaria, trad. it. P. Colaiacomo, Roma, Editori Riuniti, 1991 (Oxford, 1907).
(4) Max Horkheimer, Theodor W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo,  trad. it. Einaudi, Torino 1966,  (ed. or. Querido Verlag, Amsterdam, 1947), pp. 130-180.
(5) Guy Debord, La Società dello spettacolo, Stampa Alternativa, Roma 1995 (I ed. it. De Donato Bari 1968; ed. or. Société du Spectacle, Buchel Chastel, Paris 1967).
#18. Là dove il mondo reale si cambia in semplici immagini, le semplici immagini diventano degli esseri reali, e le motivazioni efficienti di un comportamento ipnotico. Lo spettacolo, come tendenza a far vedere attraverso differenti mediazioni specializzate il mondo che non è più direttamente percepibile, trova normalmente nella vista il senso umano privilegiato, che in altre epoche fu il tatto; il senso più astratto, più mistificabile, corrisponde all'astrazione generalizzata della società attuale. Ma lo spettacolo non è identificabile con il semplice sguardo, anche se combinato con l'ascolto. Esso è ciò che sfugge all'attività degli uomini, alla riconsiderazione e alla correzione della loro opera. E' il contrario del dialogo. Dovunque c'è una rappresentazione indipendente, là lo spettacolo si ricostituisce.
(6) Herbert Marcuse, L'uomo ad una dimensione, trad. it. Einaudi, Torino, 1967 (ed. or. Beacon Press, Boston, 1964).
(7) Philips Johnson, Verso il postmoderno. Genesi di una deregulation creativa, trad. it. Costa & Nolan, Genova, 1985,  pg. 235.
(8) Herbert Marcuse Op. Cit. pg. 259.
(9) Jacques Derrida, Margini della filosofia, trad. it. Einaudi, Torino, 1997 (ed. or. Le Edition de Minuit, Paris, 1972) pp.170-175.
10) Michel Onfray, Decadenza. Vita e morte della civiltà giudaiico-cristiana, trad. it. Ponte delle Grazie/Adriano Salani Editore, Milano, 2017 (ed. or. Flammarion, Paris, 2017), pagg. 140 – 155.
11) Ibid.
(12) Sul tema "hype" vedi Tommaso Guariento, La macchina dell'hype, not.neroeditions, 31 gennaio 2018 <https://not.neroeditions.com/hype-iperstizione/> visto il 09/04/2018. 
(13) L'immaginario è centrale in Slavoj Žižek, a partire della possibilità o meno che esista una immaginazione compiuta e possa distinguersi reale da virtuale. Cfr. Slavoj Žižek, Che cos’è l’immaginario, tr. it. di G.Illarietti e M. Senaldi, Il Saggiatore, Milano, 2016. L'epidemia dell'immaginario, tr. it. di G.Illarietti e M. Senaldi,, Meltemi, Milano, 2004.