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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Pratica e poetica di un’archiviazione perpetua

Brunella Velardi

Riflettendo sul lavoro di Gianfranco Baruchello prende corpo un'impressione suggestiva quanto pervasiva. Ogni cosa è archivio. Non si tratta di un'allucinazione, ma di una chiave di lettura che ha il potenziale per essere universalmente applicabile. Questa idea nasce da una constatazione abbastanza immediata: Baruchello non è affetto da febbre d'archivio né da occasionale 'impulso archivistico'. Piuttosto la sua pratica, di impronta certo dichiaratamente archivistica, si configura come modus operandi che innerva la sua visione del mondo e delle cose prima ancora che come strumento espressivo. È probabilmente quel tipo di vertigine a cui faceva riferimento Tommaso Trini quando scriveva, ragionando sulle chiavi interpretative dell'opera dell’artista: «Se cerco fili di Arianna altrove, negli scritti suoi e altrui, rientro in archivi del tutto, in descrizioni di vie lattee, in cataloghi del possibile, in labirinti che mimano quel labirinto che è questa pittura»(1). Questa circolarità, questa sorta di loop a cui induce l'osservazione dei suoi lavori, ha a che fare tanto, come rilevava Trini, con la simultanea contemplazione dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo che innerva i suoi lavori, quanto con la scelta metodica e instancabile di conferire a queste due dimensioni una forma coerente e sempre riconoscibile, in cui ogni pensiero e ogni affermazione ritrovano una loro definizione attraverso un sistema linguistico costante pur nelle diversissime declinazioni che può assumere.
Torniamo dunque all’ipotesi iniziale: tutto è archivio. In questo siamo tutto sommato confortati dalle innumerevoli accezioni che dell’archivio vengono date ogni giorno – anche a rischio di polverizzarne il significato in un particellato solubile da somministrare a qualsiasi cosa che così diventa un po’ archivio anch’essa. Dunque, se ‘archivio’ è raccolta, memoria, stratificazione, classificazione, traccia, allora è ragionevole pensare che ogni oggetto a cui possano applicarsi uno o più di questi concetti sia a suo modo un archivio; e poiché questi concetti sono alla base dei nostri schemi mentali e ritornano nella nostra cultura, sia scientifica sia umanistica, allora quell’ipotesi-chiave di lettura diventa effettivamente pervasiva e quasi onnicomprensiva.
Archivio dei cinque cuori e altri archivi,  in mostra alla Fondazione Baruchello la scorsa primavera, si presentava come una dimostrazione, quasi un manifesto – in cui confluiva tutta la poetica di Baruchello dalle origini ad oggi – di questa possibilità. Se i "cinque cuori" corrispondono a cinque fasi della vita dell'artista, gli "altri archivi" sono al contempo rappresentati dalle opere in mostra e, ad un livello evocativo, da infiniti altri archivi possibili.
Ne classificherò alcuni schematicamente, come il principio tassonomico-archivistico storicamente prescrive, per cercare una verifica dell’ipotesi.
Archivio 1. Archivio delle cose scelte (compilazione)
Archivio dei cinque cuori, 1962-1998
Duecento volumi, rilegati a simulare altrettanti tomi di un unico corpus enciclopedico, si estendono su una scaffalatura che li espone a mo’ di vetrina. Questi libri apparentemente anonimi, copertina grigia e algidi caratteri sans-serif, racchiudono il girovagare emotivo di Baruchello nell’arco di trentasei anni, durante i quali l’artista ha accumulato ritagli, immagini, scritti autografi, pagine, raccolti intorno a soggetti da cui sono scaturiti i titoli, che rigorosamente si susseguono in ordine alfabetico, ad ogni tomo del suo corpus. Ogni pagina è presentata in fotocopia, come a distaccarsi dal portato emozionale del documento originale, oppure come a voler conferire loro la fissità e la durevolezza della carta stampata.
Il carattere esclusivamente e ‘scientificamente’ personale delle pagine raccolte nei volumi fa dell’Archivio dei cinque cuori un vero e proprio monumento all’arbitrio, alla scelta come oggetto stesso della ricerca, consacrata in una forma codificata e universalmente riconosciuta. È infatti con una scelta precisa e personale che si è costretti a fare i conti sfogliando questi cataloghi dell’esistenza particolare dell’artista. D’altra parte, non è il catalogo un prodotto scientifico di operazioni d’archivio?
Archivio 2. Archivio delle cose scartate (inventariazione)
Leftovers, 1975
Sorta di contraltare delle scatole in plexiglas degli anni precedenti, in cui Baruchello ricostruiva piccoli diorami immaginari dai temi politici e filosofici, i Leftovers sono baluardi della dignità del residuo. Come piccoli ossari, le teche trasparenti accolgono gli scarti del lavoro, rimasti sul tavolo a fine giornata. È la conservazione del tralasciato, dell’inutilizzato ma non per questo indesiderato, che prende il sopravvento. Come a dire: non badate solo alle scelte fatte, c’è tutto un mondo da esplorare, dietro. Tant’è che nel ’96 l’artista stilerà l’inventario di tutte le cose contenute nei box e poi dimenticate, operazione registrata nel film Inventario di ottobre, anch’esso in mostra. Anche lo scarto è materia prima per nuove opere, dunque, e la sua documentazione diventa a sua volta soggetto di un altro lavoro, in una specie di catena dell’infinito riciclo – per tornare al loop di prima.
La didascalia dell’opera ci avvisa che le scatole «nascono dall’analogia fra l’idea di spazio chiuso e l’idea dell’interno, dello spazio privato, intimo, segreto», che tuttavia rompe la barriera della riservatezza per adagiarsi in contenitori trasparenti. In una schietta e sferzante intervista rilasciata a L'Espresso nel 2014 l'artista confessa: «Io mi sento amato da quei giovani curatori alla ricerca di personalità coerenti persino controcorrente. Quelli che per capire cosa è stato il Novecento dei loro padri vanno a scoprire chi è rimasto fuori dal sussidiario»(2) . “Io sono un leftover” è il leitmotiv dell’intervista, e “a me va benissimo” è il sottotesto, come ebbe a dire ad Umberto Eco che lo definì «il più tradizionale dei pittori che siano mai esistiti»(3) . Si spiega così il nesso intimità-scarto che è alla base dei Leftovers e della loro delicata poeticità senza tempo.
Archivio 3. Archivio delle cose uguali (stratificazione)
Foto di foto, 1962-1979
Cos'è un archivio se non una serie di elementi identici (faldoni) che racchiudono altri elementi tra loro simili (fascicoli) in cui sono conservati elementi a loro volta assimilabili (documenti)? Ognuna delle cose appena elencate può essere paragonata a un granello di una roccia sedimentaria, in cui ogni livello è affine ai livelli vicini, che comprende in sé indizi sul tempo e sullo spazio a cui si riferisce e può accrescersi nel tempo per essere sempre sottoposta a un’analisi stratigrafica che ne rivelerà tipologia, caratteristiche, dettagli inediti.
Gli aspetti dell'identità e della ripetizione sono comuni ad ogni archivio, così come quelli della raccolta e della registrazione. Foto di foto è un soggettivo repertorio di immagini altrui, intercettate dall'artista, registrate attraverso il mezzo fotografico e riprodotte con altri mezzi nelle sue opere: in passato su legno o su porcellana, qui ripresentate come diapositive che si susseguono alla stregua delle pagine scelte nei volumi dell'Archivio dei cinque cuori. L'immagine finale proiettata è, ironicamente, un archivio autonomo di stratificazioni multiple, poiché racchiude in sé la ripresa primaria dell'oggetto (fotografia), la registrazione della ripresa (fotografia di fotografia), la memoria della replica che ne è stata fatta nei lavori precedenti e il frangente attuale in cui l'immagine viene riproposta con un nuovo medium.
Archivio 4. Archivio delle cose diverse (classificazione)
 
Quanto, 1999
Se dovessi scegliere il punctum in quest’opera, direi: 89. Un indugio, poi uno sguardo teneramente incerto seguito da un altro rassicurante e delicato di chi vuole dirti “è forse 89 che stai pensando? Conosco questo tuo segreto, non devi vergognartene”, infine la sentenza per una domanda mai posta, “89”. È l’ottantanovesima volta che questo signore guarda la telecamera e pronuncia un numero, che puntualmente è quello che noi tutti collocheremmo subito dopo il precedente, eppure ogni volta potrebbe non essere come pensiamo. La sequenza numerica di Baruchello non è affatto scontata, nonostante il suo essere assolutamente e indubitabilmente all’interno della convenzione. Ogni numero, dall’uno al cento, ha una sua specialità, ha un carattere che interagisce con il carattere dell’artista: ne deriva un elenco per certi versi imprevedibile, e perciò sigillato ad ogni voce dal nome del numero, che una volta pronunciato pone fine agli indugi che hanno preceduto la sua assegnazione. All’interno della serie, ogni numero è diverso non solo perché designa una diversa quantità, ma anche perché ha un aspetto e un ritmo diversi che lo distinguono da tutti gli altri. Al contempo, la sua enunciazione ha la forza della classificazione dell’emotività che ha generato.
Archivio 5. Archivio tautologico (registrazione)
Ars memoriae, 2009
L’artista, davanti a una telecamera, è soggetto e oggetto dell’opera, forma e contenuto, pratica ed estetica. I quattro video che la compongono – già tutti a modo loro filmati d’archivio – ruotano intorno alla sua figura: lui bambino ripreso dal padre, le sue mani che sfogliano schede in cui ha registrato ricordi legati a immagini, le stesse immagini che ritraggono persone incontrate; su tutte prevale il primo, in alto a sinistra. Un autoritratto parlante in cui Baruchello ragiona del suo stesso archivio e della memoria di cui gli altri tre video sono custodi. Cos’è questo archivio, cosa ne ha fatto, cosa farne ora, sono i punti sui quali si innesta il monologo, la sua conclusione è, inaspettatamente, nel dimenticare, nell’eliminazione delle schede, nella negazione della registrazione, negata a sua volta dalla registrazione del video che documenta l’operazione, affiancato da quelli in cui compaiono gli oggetti eliminati, di cui resta una traccia-simulacro, diventando infine archivio dell’oblio.
Perché? Forse semplicemente perché, come ha detto l’artista parlando della sua mostra attualmente in corso al Mart, «non appena si cerca l’oblio affiora il ricordo di quello che si credeva perso, e arriva il momento di lasciarlo andare per davvero»(4) .
Ma questo è un altro archivio.
Luglio 2018
1) Cit. T. Trini, Introduzione a Baruchello. Tradizione orale e arte popolare in una pittura d’avanguardia, Galleria Schwartz, Milano, 1975, p. 15.
2) A. Mammì, Finalmente è il momento di Baruchello, in «L’Espresso» online, 10 dicembre 2014: http://espresso.repubblica.it/visioni/cultura/2014/12/09/news/finalmente-e-il-momento-di-baruchello-1.191104
3) Cit. in T. Trini, op. cit., p. 15.
4) Cit. G. Baruchello in G. Bria, Oltre le regole. Intervista a Gianfranco Baruchello, in «Artribune», 1 giugno 2018. http://www.artribune.com/arti-visive/arte-contemporanea/2018/06/intervista-gianfranco-baruchello-mostra-mart-rovereto/ .