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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Analisi e decontestualizzazione delle immagini di guerra nelle opere di Francesco Simeti tra anni Novanta e Duemila.

Teresa Lucia Cicciarella

Con l’artista italo-americano Francesco Simeti (Palermo, 1968) si sono esaminate, a partire dalle ricerche condotte per la Tesi di Specializzazione[1] discussa a Siena nel 2011, metodologie di lavoro, ispirazioni e caratteri di una poetica in fieri ma decisamente indirizzata all’attenzione di argomenti di stringente attualità sociale e politica. Iniziale tra tutti in ordine temporale, quello bellico, osservato a partire dalla guerra nelle regioni dell’ex-Jugoslavia, nelle sue implicazioni mediatiche di vasta portata ma di ambiguo effetto presso il “pubblico” occidentale.

Primo conflitto riportato in presa diretta, apparentemente senza filtro alcuno, sugli schermi televisivi e sulle pagine della carta stampata europea e americana, quello tra le diverse etnie dell’area balcanica ha innescato una serie di riflessioni in ambito semiotico e sociologico, intorno al carattere di presunta “immediatezza” assunto dall’informazione, con il massiccio inoltro di testi visivi e reportage dalle zone di combattimento. La strada, di certo, era stata aperta dai difficili anni del conflitto in Vietnam[2] e dal dilagante movimento d’opinione innescato nella società americana in chiave pacifista, e successivamente - nei modi di diffusione di notizie della Guerra del Golfo - si era notata una tendenza all’astrazione caldeggiata dalle forze occidentali coinvolte e favorita dalla distanza geografica del teatro bellico. Tuttavia, “sia pure filtrati […] dalle immagini asettiche degli schermi radar e dei voli dei missili intelligenti, erano via via rientrati a pieno titolo, nel linguaggio della politica e in quello dell’informazione, termini come «ultimatum», «raid aereo», o anche «intervento militare umanitario»”[3], nota l’analista Claudio Fracassi a margine dello slittamento, osservato almeno in una parte dell’opinione pubblica occidentale, dell’idea di guerra da male assoluto ad azione (talora) necessaria e facente parte, a ragion veduta, delle possibili attività promosse da governi influenti in ambito mondiale. L’informazione, al tempo di “Desert Storm”, era stata accuratamente setacciata dall’esercito statunitense, preliminarmente alla sua diffusione: l’unica fonte autorizzata erano le conferenze stampa dei militari, ricorda ancora Fracassi, continuando col dire che “il capolavoro dei pianificatori della guerra del Golfo, tuttavia, non fu la censura che impedì di vedere e di sapere, ma l’apparente ricchezza dell’informazione, che convinse i cittadini del pianeta di avere visto e di avere saputo”[4].

Diversamente si è poi manifestato, dal punto di vista mediatico, l’impatto della guerra nei Balcani, quella che ha toccato la sensibilità del giovane Francesco Simeti spingendolo ad analizzare in che maniera il reportage di guerra, con la sua crudezza, influisse sulle coscienze occidentali, stavolta geograficamente contigue – e in modo allarmante – all’evento bellico. “Al contrario di altri conflitti degli anni ’90, quello jugoslavo è entrato nelle nostre case senza maschera, con tutto il suo carico di morti, di stragi e di sangue”[5] e “sono cominciate ad arrivare sugli schermi della tv, all’ora di cena, le immagini delle stragi della Kraijna, e poi in Bosnia. Hanno fatto orrore, certo: ma un po’ come fa orrore il tragico incidente stradale, o un disastro ferroviario: avvenimenti luttuosi, commoventi e che in fondo fanno però parte di una terribile quotidianità”[6]. La situazione si complicherà ulteriormente nei primi anni del Duemila quando l’opinione pubblica internazionale, entro un atteggiamento globale parzialmente possibilista suo malgrado – come si notava – nei confronti dell’evenienza bellica, si troverà a dover interpretare correntemente le immagini provenienti dall’Afghanistan e dalle terre coinvolte nella seconda Guerra del Golfo.

Colpita al fianco dall’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, l’America genererà un’ondata di trasporto diffuso al momento dell’azione contro le forze dei Taliban in territorio afghano. Alla gran parte del “pubblico” spicciolo – quella non toccata personalmente dalla partecipazione al conflitto - non resterà che guardare la guerra, con un atteggiamento di pur umanissima distanza paradossalmente amplificato ogni qual volta il testo visivo verrà reiterato, posto in accumulo su schermi televisivi e giornali, perdendo la sua forza dirompente sulla coscienza di chi guarda. Consapevole di tali questioni, già a metà anni Novanta Simeti intraprende una sua prima, personalissima, attività di selezione ritaglio e accumulo d’immagini tratte dai giornali, in funzione di analisi e comprensione delle stesse. Riconosce, sulla base di quanto notato nel 1957 da Roland Barthes, come i testi visivi messi in circolo dalla stampa e dalla televisione siano contrassegnati da una solo apparente innocenza e da una “naturalezza” che invoglia il riguardante alla “complicità”: a ben guardare, tali aspetti si rivelano artificiali e costruiti, assecondando l’ideologia predominante la cultura di massa[7]. Tale argomento è, ormai da mezzo secolo a questa parte, indagato in primis dalla sociosemiotica e da diverse scienze sociali quali l’antropologia, la psicologia, la sociologia, la sociolinguistica, le quali “hanno preso progressivamente atto dell’importanza della dimensione visiva e della necessità di integrarne lo studio, quando non di metterlo al centro della propria prospettiva”[8]. Talmente vasta è, infatti, l’influenza della sfera delle immagini nella società attuale, da spingere alcuni studiosi a ritenere che “la chiave di lettura della nostra stessa epoca passa attraverso la comprensione del ruolo inedito che vi giocano le immagini. Ogni giorno esse scorrono o fluttuano intorno a noi, nella più grande quantità e secondo modalità fra loro diversissime, senza che ci soffermiamo troppo a riflettere sul loro apparire, in un consumo istintivo e irriflesso. E nondimeno la loro forza, la loro efficacia, sono indiscutibili, anzi si situano proprio in questa apparente immediatezza che le caratterizza”[9]. Isabella Pezzini, studiosa di semiotica dei nuovi media, nota come nel merito del consumo delle immagini fotografiche e televisive – intese in toto – agisca una capacità di fascinazione che non viene solamente sfruttata dalle strategie pubblicitarie, ma che è “presente anche e forse soprattutto quando le immagini restituiscono eventi sublimi o catastrofici”. Conclude con l’affermare: “Ai nostri occhi, le immagini non sono mai insignificanti. Possono essere banali, brutte, volgari, persino inutili, ma risultano sempre dall’atto sintetico di uno sguardo, di un ritaglio, spesso di una vera e propria composizione, che ci invita o ci impone un momento di confronto, di sorpresa, di piacere o di riposo, un pretesto di interrogazione o di scandalo […]”[10].

Le immagini e in special modo quelle giornalistiche, d’altronde, solo di rado si presentano isolate, mostrandosi invece il più delle volte entro flussi discorsivi di segno ibrido nonché densi di implicazioni politiche, sociali e ideologiche.

L’osservazione di Simeti e la pratica di selezione e classificazione di testi visivi che ne deriva, si pone alla radice del personale lavoro di formazione di immagini, in massima parte di strutturazione eterogenea in quanto mostrano, in un medesimo campo visuale, la coesistenza di elementi decorativi (o pittorici o di repertori scientifici) di origine classica o modernista con elementi tratti dai reportage fotogiornalistici della contemporaneità. Ciò che Simeti preleva dalla stampa o da illustrazioni di vario genere può agire alla stregua di un objet trouvé[11], ma nella particolare accezione data dal ritaglio che viene inserito nel collage o nel fotomontaggio. Chiarificatrice, in tal senso, è l’indicazione – offerta dall’artista stesso – di un riferimento alle modalità operative di Gerhard Richter, in particolare evidenziate dalla sterminata raccolta di immagini confluita nell’Atlas intrapreso nel 1962.

Un ultimo passo, pur enormemente distante per cronologia, nell’avvicinamento all’analisi delle modalità operative di Simeti, può considerarsi un pensiero di Siegfried Kracauer il quale già alla precoce data del 1927, a un pessimismo estremo nei confronti dei media sposava l’idea che “[…] il fiume di fotografie spazza via le dighe della memoria. L’assalto a questa massa di immagini è così potente che minaccia di distruggere la consapevolezza potenzialmente esistente delle caratteristiche cruciali. […] Nelle riviste illustrate la gente vede lo stesso mondo che proprio queste riviste gli impediscono di vedere. […] Mai prima d’ora c’è stato un periodo che abbia saputo così poco di sé stesso”[12].

Simeti, preso atto del paradossale indebolimento dell’impatto delle immagini scaturito dal loro massiccio reiterarsi, pilotato dalle strategie di comunicazione, decide non di analizzare quelle immagini in sé e per sé, magari alterandone alcuni aspetti[13], ma di agire attraverso una prima selezione di dettagli e l’inserimento di questi in un contesto per definizione “neutro”, connotato da piacevolezza, decorativismo e ripetizione circolare degli elementi costitutivi, ossia la carta da parati. La sua opzione è dunque a favore della creazione di un “oggetto” piacevole esteticamente[14] e piuttosto comune nella sua struttura-contenitore (che è quella del wallpaper e della stampa digitale o, a partire del 2007, anche del gioco componibile) la cui riproduzione su largo formato è ovviamente demandata ad aziende che si occupano di arti grafiche o della fabbricazione di carte da parati.

Forte è l’intento critico da parte dell’artista, che specialmente agli esordi non risulta scevro da una certa amara ironia nel proporre, quasi in maniera letteralmente mimetica, immagini di guerra o distruzione ambientale entro decori di gusto borghese. Il dialogo instaurato con il pubblico, nel lavoro di Simeti, diviene elemento essenziale nella misura in cui l’opera esiste pienamente – e agisce secondo l’intento dell’autore – solo grazie a un surplus di attenzione concessole da parte del riguardante. Solamente in quel caso, la carta da parati erompe dal ruolo di sfondo decorativo e “non invasivo” al quale viene relegata nell’accezione comune, per divenire oggetto d’attrazione e veicolo di una critica e di una poetica socially engaged perché mossa da argomenti di stringente attualità quali l’alterazione dei rapporti socio-politici (attraverso la guerra) e l’alterazione degli equilibri tra uomo e ambiente (tramite l’inquinamento e gli effetti del global warming).

Agli esordi creativi dell’artista, un primo interesse per la scultura e per le tecniche tradizionali si associa ben presto all’esigenza, fortemente sentita, di selezionare e raccogliere immagini provenienti dai media. Immagini non di segno positivo, se così può dirsi, ma legate a una extra-ordinarietà dettata da eventi drammatici: Simeti parlerà in proposito di “una forma di ossessione”[15] risolta solo recentemente. Primo vero passo nella strutturazione del suo attuale modus operandi, l’urgenza di osservare, selezionare e accludere in immensi archivi immagini – fisicamente ritagliate da reportage giornalistici – dei conflitti bellici e delle aspre conseguenze di questi sulla vita dei civili, si è rafforzata intorno al 1994, uno tra gli anni chiave della sua esperienza, ossia quello di un primo trasferimento negli Stati Uniti d’America.  “Nell’autunno del 1994 vado a New York per due mesi” – ricorda Simeti in un’intervista a Daniela Bigi, datata 2002[16]. “In quel momento Sarajevo è sotto assedio e io seguo il tutto, passo passo, con estrema attenzione, molta incredulità e un forte desiderio di capire i motivi di tale guerra e la nostra incomprensibile indifferenza nei suoi confronti. Arrivo a New York e di indifferenza non si può neanche parlare. Gli americani non sono ancora intervenuti nel conflitto e i media sono assolutamente disinteressati all’argomento”[17]. Dalle parole dell’artista emerge, forte, il disagio che fu comune a molti europei alla metà degli anni Novanta: motivo contingente, l’assistere in presa diretta – qui sottolineando soprattutto quella forma di contiguità virtuale consentita dai mezzi giornalistici – a un evento di eccezionale gravità e per di più in svolgimento nel cuore del Vecchio Continente (fatto, quest’ultimo, che a ragione evocava da vicino lo spettro dei due conflitti mondiali).

Un episodio mette in allarme l’artista, innescando una serie di riflessioni che diverranno punto d’avvio – e oggi chiave di lettura – di ampia parte del suo lavoro; ancora una volta, si vogliono qui riportare le parole di Simeti in proposito, quale miglior testimonianza dell’accaduto: “[Nell’autunno-inverno del 1994] Torno in Italia e vengo invitato a realizzare le scenografie di uno spettacolo per una compagnia teatrale di Udine[18]. Voglio vedere cosa significhi essere al confine con la Jugoslavia. Se si può sentire la guerra nell’aria. Invece con alcuni teatranti si va in macchina a Trieste e passiamo il confine per andare in Slovenia… «perché la benzina e le sigarette costano molto meno». Rimango abbastanza scosso. Rientro a New York. Gli americani sono entrati in guerra e se ne parla tanto: «i nostri ragazzi al fronte». Questo il mio passaggio americano”[19].

Dalle considerazioni riportate emerge dunque, in prima istanza, la quotidiana verità di un doppio e desolante fattore di lontananza instauratosi tra Italia e Jugoslavia da una parte e Jugoslavia e Stati Uniti (questi ultimi, visti come punto di riferimento supremo tra le Nazioni occidentali) dall’altra: qui questioni di spicciola convenienza portano infatti a valicare il confine di terra mentre, al di là dell’oceano, la partecipazione emotiva dei cittadini americani si accende, forte, solo e soltanto al momento (novembre ‘94) della partecipazione diretta delle forze armate e dell’invio dei ragazzi nelle zone di combattimento.

Conflitto in epoca di globalizzazione, la sanguinosa vicenda delle regioni dell’ex-Jugoslavia parla forse (ancor prima dell’11 settembre e delle operazioni in Afghanistan del 2001, della nuova guerra del Golfo, innescata nel 2003 e delle operazioni in Libano, del 2006) di una nuova coscienza dell’Occidente, sempre più spesso mossa solamente dall’entità dell’intervento bellico e responsabilità delle singole Nazioni o, conseguentemente, dalle perdite subite in un dato frangente. Lungi dall’essere indice di cinismo, probabilmente il ragionamento, da parte dei cittadini, sul labile margine tra vicinanza e lontananza risale all’insopprimibile istinto di auto-salvaguardia e alla necessità di distacco da ciò che non interferisce tangibilmente con la propria quotidianità.

In questo contesto, si diceva, Simeti analizza i messaggi inviati alla società americana dai media – in primis dal “New York Times” – trattenendone parole e soprattutto immagini, riflettendo sulla progressiva perdita d’incisività da parte di queste, a seguito di un sempre più fitto flusso mediatico. Alcune opere, alle quali si farà adesso riferimento, focalizzano l’attenzione sull’indirizzo offerto dai mezzi di comunicazione alla formazione dell’opinione pubblica. Le prime sono esempi di intervento diretto su alcune immagini analogiche tratte dalla stampa e isolate mediante l’accostamento di minimi interventi pittorici al fine di evidenziarne aspetti formali (si vedano due Untitled del 1995 o le Truppe e gli Aerei estrapolati dalla pagina giornalistica e analizzati iconograficamente nel 1998 o, ancora nel 2000 ma senza intervento pittorico diretto, la serie di Iris prints[20] nella quale le immagini vengono sottolineate da cornici classiche) o raggruppate mediante collage, come nel caso di Colonna, del ’98. Presentato alla PS122 Gallerydi New York, consta di una lunga teoria di figure umane in bianco e nero: l’artista accosta e mescola sagome di militari e civili tratte dai quotidiani, riferite a scenari bellici differenti, per ridurle “ad uno stesso comun denominatore – la scala e la direzione di marcia – facendole diventare parte di un gruppo”[21]. In tal modo, la fila di personaggi risulta svuotata di senso e i singoli soggetti divengono parti di un fregio quasi illeggibile, collocato in alto sulle pareti dello spazio nel quale viene proposto.

Il linguaggio dei mezzi di comunicazione di massa, oggi più che mai, è sottilmente attraversato da sconfinamenti di campo (dal settore pubblicitario e da quello cinematografico innanzitutto, volti a una ricerca dell’appeal e del glamour di richiamo per il grande pubblico) che ne intaccano gradatamente tanto l’approccio formale alla diffusione d’immagini, quanto lo statuto ontologico di queste ultime che risultano, per forza di cose, ambivalenti. “[…] Mi interessa l’estetizzazione compiuta dai media sulle fotografie di guerra, di attualità politica o sociale (le migrazioni, i profughi ecc.)”[22], nota a tal proposito Simeti, introducendo il criterio d’indagine adottato nel suo lavoro riguardo le istanze di mercificazione paradossalmente subite dai reportage di guerra[23] ed enfatizzate a partire dall’introduzione del colore nella stampa dei quotidiani. L’intento critico dell’artista mira – con un certo intento parodistico[24], al contempo – a “[…] confondere ulteriormente l’intersecarsi e omogeneizzarsi dei diversi linguaggi formali della pubblicità, di Hollywood e del fotogiornalismo. Linguaggi accomunati sempre più sotto il profilo estetico, ai quali però siamo chiamati a reagire secondo dettami morali ben canonizzati e distinti”[25].

Partendo allora da un approccio basato – come accennato – sull’archiviazione d’immagini, Simeti decide nel ‘97 di approfondire le tecniche di elaborazione digitale per riformulare quelle figure entro il contesto per definizione neutro, ripetitivo e in certo senso banale[26], costituito dal wallpaper, medium che consente ampio margine di gioco sul versante estetico e contenutistico, legandosi spesso al contesto per il quale viene peculiarmente prodotto (come site specific installation) e provocando un cortocircuito di senso. I wallpapers nati da tale concezione diverranno presto il primo dei cardini del lavoro di Francesco Simeti, sua cifra d’immediata riconoscibilità e campo di sperimentazione. “Il Wallpaper costituisce uno sfondo sempre presente e nello stesso tempo assente”, nota l’autore. “Non è mai particolarmente degno delle nostre attenzioni. Rimane al più come una superficie generica, una grana che raramente ci preoccupiamo di mettere a fuoco. Rappresenta lo stesso atteggiamento che comunemente riserviamo a certe notizie e relative immagini. Un altro aspetto del Wallpaper che mi interessa è la sua ripetizione all’infinito. Offre la possibilità di uscire dai limiti fisici di una fotografia, dalla gabbia costituita dalla «cornice» e permette di diventare più «invadente», assumendo così anche un peso maggiore”[27]. Le immagini del fotogiornalismo vengono dunque intese da Simeti al pari di un rumore di fondo, non più decifrabile: come il decoro di una carta da parati, assimilata alle mura domestiche – e dallo sguardo di chi le abita – fino al punto da non esser più osservata e “letta” nel dettaglio.

Tra le prime prove di adozione del wallpaper, Colpi di mortaio (cadono su Sarajevo) e Gragnaruola (1998). Il primo lavoro mantiene – specie nello sfondo bianco neutro – un appiglio di leggibilità alle immagini proposte, pur uniformate tramite l’utilizzo di un unico colore per ciascuno dei due gruppi: una nube densa, causata da un’esplosione, è resa in un azzurro-violaceo compatto; un piccolo raggruppamento di persone – il cui atteggiamento non è immediatamente comprensibile – è virato sui toni del rosso. Il secondo lavoro, Gragnaruola, mimetizza invece in maniera netta la natura dell’immagine utilizzata: un gruppo di prigionieri in andatura forzata, le cui sagome sono inglobate in un arabesco specularmente reiterato. Dunque può accadere che fotografie scattate nei luoghi di guerra, se decontestualizzate e ripetute, perdano quasi del tutto la capacità di scuotere l’osservatore disattento, riservandosi invece la possibilità di agire a un livello più profondo, sulla percezione di chi si sofferma a guardare oltre il piacevole pattern decorativo. Simeti pare affermare che sua intenzione sia quella di “provocare un cortocircuito, una sensazione di disagio causata da questo piacere visivo che sconfigge ogni logica. Come si fa a provare piacere di fronte a certe immagini?”[28]. Nel suo lavoro, infatti, “[…] il decorativo, altamente estetico ma apparentemente rilassante aspetto del wallpaper, è congiunto ad episodi disturbanti delle guerre in corso, per arrivare ad un effetto piuttosto destabilizzante per lo spettatore, che è stato appropriatamente descritto come «décor di guerriglia»” – nota Katerina Gregos nel 2005; “Il wallpaper funziona come uno scenario che apparentemente «neutralizza» ciò che mostra ed è il fulcro della strategia di Simeti per attirare l’attenzione sulle problematiche tattiche dei media […]”[29].

Il gennaio 2002 vede la partecipazione di Simeti a una collettiva di sessanta artisti residenti tra Stati Uniti e Canada; la selezione è operata da Renato Barilli in funzione del progetto “Officina America”, promosso dalla Galleria d’Arte Moderna di Bologna e dislocato in quattro sedi espositive dell’Emilia Romagna[30]. Per la sezione “Una nuova casa per l'uomo”, Simeti presenta a Bologna – Villa delle Rose, dépendance espositiva della Galleria d'Arte Moderna – un’impegnativa wallpaper installation dal titolo Watching the war (2002), nella quale i colori delicati del soffitto classicheggiante della sala d’ingresso (recante affreschi ed eleganti partiture architettoniche) vengono ribaditi e commentati sulle pareti, attraverso un sofisticato schema decorativo. Chiara è dunque l’intenzione – in questo caso, ma più in generale si tratta di un modus operandi caratteristico dell’artista – di creare un lavoro site-specific, partendo da elementi caratteristici del luogo destinato all’esposizione che Simeti si premura di analizzare, annotare, fotografare. Soggetto-chiave del pattern per Villa delle Rose è la guerra (con un non marginale richiamo anche alla funzione del sito negli ultimi tempi del secondo conflitto mondiale, quando divenne prima ospedale e poi sede di comando delle truppe tedesche); titolo dell’opera è l’invito a guardarla attraverso scene minime, soffocate dalla pervasiva presenza di nubi dense, effetto di esplosione. Unica traccia umana, quella di donne coperte dal burqa afghano, di un gruppo di talebani, le cui fisionomie sono parimenti illeggibili e di un uomo in osservazione, di spalle, collocato su un territorio desertico: l’esortazione a guardare risulta pertanto avvalorata, in senso letterale, dalla vista dei personaggi inseriti nel wallpaper, rivolta a scenari non raffigurati analiticamente ma suggeriti entro la fitta coltre di nubi.

Il 2003 segna per Simeti un’ulteriore forzatura – in chiave critica – del decorativismo dei più classici parati d’arredo in associazione a scene tratte da teatri bellici lontani. Nel mese di febbraio si inaugura infatti a Providence, al Museo della Rhode Island School of Design (RISD), l’ampia rassegnadal titolo “On the Wall: Wallpaper by Contemporary Artists” curata da Richard Brown Baker e Judith Tannenbaum e trasferita con alcune modifiche al Fabric Workshop and Museum di Philadelphia, tra maggio e settembre dello stesso anno[31]: punto forte del progetto promosso dal RISD, la commissione di nuovi lavori ad artisti contemporanei e installati direttamente sulle pareti delle sale d’esposizione, congiuntamente a una selezione di opere acquistate o ricevute in prestito per l’occasione. Tra gli artisti coinvolti è appunto Simeti, che decide di operare sul tema di un parato facente parte delle collezioni di Providence, realizzato da Jean Baptiste Reveillon nel 1789, alla luce dell’introduzione, presso l’opinione pubblica americana, del costituendo nuovo assetto dell’Afghanistan “libero e democratico”[32] auspicato dall’amministrazione Bush e non privo di ombre. Il decoro di Reveillon, esemplare della tipologia toile de Jouy con paesaggi e scene bucoliche, uniti a suggestioni di gusto esotico (in voga a partire da Francia e Inghilterra nella seconda metà del ‘700) si compone delle vedute di suggestivi angoli di un grande parco con laghetti, obelischi e arbusti fioriti. In questo scenario idilliaco, giocato su toni raffinati di bianco-rosa-celeste, tipici della sensibilità rococò, Simeti accampa gruppi di profughi afghani alle prese con il fortunoso trasporto dei propri averi sul dorso di muli, figure di uomini in bicicletta e di donne al lavaggio dei panni in brevi corsi d’acqua e appone il titolo Arabian nights (2003), anch’esso echeggiante favolistiche immagini dell’Oriente. Agli uomini in bicicletta associa folti gruppi di palloncini colorati, quasi il mezzo di trasporto fosse strumento di una gioiosa vendita di giochi per bambini: difficile non notare, a tal proposito, il richiamo critico all’edulcorazione – a scopo propagandistico – messa in atto da certi media americani nel presentare le immagini del rinnovato Afghanistan, cui sopra si accennava. Una porzione di Arabian nights – che rimane tra i più apprezzati wallpapers di Simeti – è stata acquisita dal Victoria and Albert Museum nel 2007[33] ed esposta in numerose altre occasioni. La sua presentazione sulle pareti del RISD Museum[34], nel 2003, era alternata al pattern di Are you ready? (2003), altra stampa digitale su carta a grandi dimensioni, elaborata per l’occasione espositiva a partire da folti raggruppamenti di profughi – assemblati da Simeti a partire da vari ritagli giornalistici – le cui sembianze sono omogeneizzate e rese scarsamente visibili mediante la partitura monocromatica celeste chiara, scelta per la stampa. Quest’ultimo pattern viene presentato in Italia nel novembre del 2003, in occasione della collettiva “Specie di Spazi”[35] – ordinata da Luca Beatrice alla Galleria Vitamin Arte Contemporanea di Torino.

 

 


[1] Teresa Lucia Cicciarella, Francesco Simeti. Walking around a Plastic Eden. Appunti per una monografia. Tesi di Diploma della Scuola di Specializzazione in Storia dell’arte dell’Università degli Studi di Siena, relatore Prof. Enrico Crispolti, correlatore prof. Davide Lacagnina, Anno Accademico 2010-2011.

[2] Con la sensazione, espressa da una congrua parte dello Stato Maggiore dell’esercito americano, di una guerra “«persa nel salotto di casa, davanti alla televisione», mentre «tecnicamente» si sarebbe potuto certamente vincerla sul campo”. O. Calabrese, U. Volli, I telegiornali: istruzioni per l'uso, Laterza, Roma-Bari 1995, p.125. 

[3] C. Fracassi, Sotto la notizia niente. Saggio sull'informazione planetaria,Editori Riuniti, Roma 2007, pp.137-138.

[4] Ivi, p.124.

[5] Ivi, p.137.

[6] Ivi, p.138.

[7] Cfr. R. Barthes, Miti d’oggi, CDE, Milano 1984. Cfr. I. Pezzini, Immagini quotidiane: sociosemiotica visuale, Laterza, Roma 2008, pp.8-9.

[8] I. Pezzini, op.cit., p.6.

[9] Ibidem.

[10] Ivi, p.7.

[11] L’immagine pittorica o fotografica realizzata da altri – reporter, artisti del passato – e selezionata da Simeti può estensivamente considerarsi quale objet-trouvé poiché, in ciascun singolo caso, risulta “particolarmente dotato della sua complessa fenomenologia” sulla quale o mediante la quale l’artista conia il suo linguaggio e orienta la sua critica. Cfr. B. Corà, Gerhard Richter: L’esperienza della pittura nella conoscenza della realtà in B. Corà (a cura di), “Gerhard Richter”, Prato, Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci, ottobre 1999-gennaio 2000. Catalogo Gli Ori, Prato 1999, p.11.

[12] S. Kracauer, 1927. Cit. in B. Corà (a cura di), op. cit., p.150.

[13] Solo nei primi anni di attività, i ritagli di stampa prelevati da Simeti vengono isolati mediante l’apposizione di labili “contorni” di pittura bianca che ne cancellano i contigui testi giornalistici.

[14] E in questo aspetto, talora tendente al sovraccarico di stimoli e richiami uniformati da una piacevolezza d’insieme, rimanda a certe modalità operative di marca post-moderna, ampiamente incentrate sulla figurazione e sul contemperamento di immagini di varia provenienza.

[15] Conversazione con Francesco Simeti, 20 ottobre 2010.

[16] D. Bigi, Francesco Simeti. Immagini in cortocircuito, in “Arte e Critica”, Anno VIII n.32, ottobre-dicembre 2002, pp.28-29.

[17]F. Simeti in D. Bigi, op.cit., p.28.

[18] Simeti realizza le scene e gli apparati per Verso Tebe, opera ispirata alle tragedie di Euripide, ideata e composta dall’attore palermitano Luigi Lo Cascio assieme ad alcuni colleghi della compagnia del CSS, Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia.

[19]F. Simeti in D. Bigi, op.cit., p.28.

[20] Per “iris print” si intende la bozza di verifica, prima della stampa giornalistica, derivata da una macchina adatta a produrre larghi formati a colori. Le stampanti chiamate “iris printers” sono anche utilizzate, dalla fine degli anni Ottanta, come dispositivo per la riproduzione digitale di opere d’arte su vari supporti (carta, tela, seta e altri tessuti), consentendo di ottenere immagini a colori accurate e ad alta risoluzione o, ancora, per la produzione di immagini stampate a partire da collage.

[21] F. Simeti in D. Bigi, op. cit., p.28.

[22] F. Simeti in S. Chiodi, B. Pietromarchi (a cura di), Prototipi. Laboratorio di cultura artistica contemporanea, Roma, Fondazione Olivetti 2004. Catalogo L. Sossella, Roma 2004, p.158.

[23] Cfr. K. Gregos, Bellezza pericolosa, in “Francesco Simeti”, Torino, Vitamin Arte Contemporanea, febbraio-marzo 2005. Catalogo della mostra Cast Industrie Grafiche, Moncalieri 2002. N.d.a: il catalogo non presenta pagine numerate.

[24] Cfr. F. Simeti in D. Bigi, op. cit., p.28.

[25] Ibidem.

[26]Ibidem.

[27]Ibidem.

[28] Ibidem.

[29]K. Gregos, op.cit. Cfr. nota 23.

[30] R. Barilli (a cura di), “Officina America”, Bologna, Villa delle Rose; Imola, Museo di San Domenico; Cesena, Ex-pescheria; Rimini,Palazzo dell’Arengo, gennaio-marzo 2002. Catalogo Mazzotta, Milano 2002.

[31]Si tratta di due mostre in pendant: stessi curatori, R. Brown Baker, J. Tannenbaum, per “On the Wall: Wallpaper by Contemporary Artists”, Providence, RISD Museum, febbraio-aprile 2003; e “On the Wall: Wallpaper and Tableau”, Philadelphia, Fabric Workshop and Museum, maggio-settembre 2003.

[32]A. Flores D’Arcais, L'eccidio dei Taliban nel 2001. Bush e Cheney nascosero tutto, in “La Repubblica”, 14 luglio 2009, p.15.

[33] Arabian Nights, scheda di catalogazione online (Victoria and Albert Museum, Londra): <http://collections.vam.ac.uk/item/O1134801/wallpaper-arabian-nights>

[34] L’allestimento della mostra prevedeva la permanenza in loco degli arredi in stile Impero e del grande tappeto orientale facente parte delle collezioni del RISD Museum.

[35]L. Beatrice (a cura di), “Specie di spazi”, Torino, Galleria Vitamin Arte Contemporanea, novembre 2003.