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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Il declino della New Media Art e la nuova era che verrà

Domenico Scudero

C’era d’aspettarselo e alla fine ci siamo. La crisi della New Media Art. Un’etichetta, la New Media Art, che ha inizialmente sconvolto le prassi politiche della prima Net Art; ha poi indicato un paesaggio variegato di situazioni e progetti digitali che vanno dall’azione culturale sino alle più complesse teorie di ogni performance ipertecnologica, infine è stata usata per definire svariate strategie dalla cura dell’opera alle biennali specialistiche. Non ci si può stupire che questo sia accaduto. La crisi stava arrivando come un luminoso temporale, ne avevamo già udito il frastuono. La pausa di Random (www.random-magazine.net), diventato un database abbandonato e destinato a futura memoria, la trasformazione di Rhizome (rhizome.org) in autorevole portale del contemporaneo non limitato alla NMA, la crisi d’identità di CRUMB (www.crumbweb.org), sono stati segnali critici inequivocabili di una massiccia erosione del concetto autarchico della NMA che nel primo ventennio di internet ha goduto di grande seguito e ha determinato alcuni danni. In primo luogo l’assordante isolamento di cui la NMA ha volutamente beneficiato nel contesto culturale con susseguente complesso di superiorità, una situazione che ha disturbato la volontà di partecipazione di molti autori non dogmatici e quindi non iscritti al fanatismo stilistico. Ma proprio adesso infine il clima si è postdigitalizzato. Il termine pare sia stato usato da Negroponte nel 1998, quando il fondatore del MIT nelle sue “visioni” parlava della società futura. Da una decina d’anni si parla diffusamente del postdigitale come di un mondo in divenire e questo mondo ha sembianze non esplicitamente connesse con l’estetica del “far west” digitale.

In Italia ne accennava Maurizio Bolognini, che ha pubblicato Postdigitale da Carocci (Maurizio Bolognini, Postdigitale, Conversazioni sull'arte e le nuove tecnologie, Carocci, Roma, 2008), sostanzialmente un libretto che analizzava l’identità dell’artista Bolognini alla luce della sua idea d’azione al di là del digitale. Oltre, non solamente dentro. Il suo attraversamento era stato forse troppo anticipatore per i suoi tempi. Di fatto oggi dalla stessa Brescia di Bolognini, segno che qualcosa di più complesso è nel lavoro di questo artista a volte frainteso, una galleria www.linkartcenter.eu e una casa editrice web www.atypo.org di cui fanno parte i tre soci fondatori Domenico Quaranta, Fabio Paris, Lucio Chiappa, nelle rispettive vesti di direttore artistico, direttore manageriale e direttore commerciale, stanno disegnando il nuovo paesaggio del postdigitale locale. Domenico Quaranta inoltre è stato per anni l’autore più “copy-past” dagli studenti per le sue ricerche da dottorando universitario ed è adesso il più autorevole NMA professor in Italia. Il suo libro Media, New Media, Postmedia (2010) pubblicato non a caso da Postmedia, che come sappiamo è la casa editoriale del contemporaneo italiano, ripercorre le tappe di una storia recente e introduce nel più grande incubo interpretativo della storia recente: il Postdigitale.

Sull’argomento si è soffermato diffusamente il MAD, Museum of Arts and Design di New York con la mostra Out of Hand: Materializing the Postdigital  (2013 – 2014) che ha indagato sulle possibilità creative derivate dall’uso di una tecnologia super avanzata, stampanti 3D, macchine CNC (computer-numerically-controlled) o le magliatrici digitali che forniscono la possibilità di elaborare nuovi materiali e nuovi formati per oggetti impensabili o difficili da realizzare sino a pochi anni fa. ll simposio organizzato da Alpha-ville (London 2011) era stata un’anticipazione abbastanza felice riunendo figure chiave quali Tom Uglow, creativo di Google, Patrick Hussey di Art & Business, Charles Beckett dell’Arts Council inglese. Alla fine del simposio era emersa l’idea che la cultura digitale fosse comunemente accettata come basilare ma procedeva di pari passo con una nuova consapevolezza di cultura digitale immateriale, in cui proprio la pervicace stratificazione del digitale nelle comuni esistenze definiva una invisibilità del media stesso e la nascita di una cultura iperdigitale o postdigitale. La contemporanea sparizione dei mega sistemi hardware e il repentino dimagrimento dei finali di connessione dimostrava che l’epoca postdigitale era di fatto la fine dello “screen” la sparizione del video, del monitor. Nelle relazioni di Transmediale pubblicate dalla Kunsthal Aarhus October 2013 con il titolo Post-digital-research una delle tesi più interessanti e condivise era quella di Josephine Bosma  Post-Digital is Post-Screen – Shaping a New Visuality (http://post-digital.projects.cavi.dk/?p=580).Il postdigitale non è infatti la fine dell’epoca digitale, o la sua mancanza, semmai è l’origine, lo stadio archetipale, il “noumeno” di un’epoca che non possiamo capire e che ci coinvolge sempre di più, ma inesorabilmente senza una forma apparente, e privata dal suo simbolo estremo, immediato: il monitor, lo schermo. Il “noumeno” del postdigitale sarà inoltre ancora il tema delle ricerche di Transmediale. Lì stanno coagulandosi gli interessi degli stessi animatori più attenti di quella scena che una volta si definiva NMA o ex Net Art, o ex Hacker Art. Il postdigitale tuttavia non è soltanto uno schematismo liberatorio di un’estetica invisibile, il corrispettivo di un cloud computing gigantesco che contiene l’identità stessa del mondo. Postdigitale invece definisce una transizione epocale che probabilmente solo i nativi sapranno spiegarci e che noi relegati nel postghetto (tutto è post o new) degli analogici possiamo solo intuitivamente valutarne la forma come esterna al postmoderno, una iperlocazione o postlocazione concettuale e modernista del contemporaneo, rastremato nella logica del digitale solamente in funzione della sua immaterialità lyotardiana. E ancora una volta ci meraviglia la lungimiranza del pensiero di Lyotard.

In qualche modo possiamo dire però che l’epoca della NMA è stata la chiusura definitiva del postmoderno e ha d’altra parte condotto alla nascita del concetto di ipermoderno, che ne ha accompagnato per almeno un decennio la fine. Postmoderno come luogo di chiusura del mondo della nostra modernità e anello di congiunzione con l’epoca dell’ipermoderno o con termine dei nativi digitali, postdigital.

Tutto ciò si connette strettamente con un problema interpretativo che sta producendo alcune polemiche accademiche e letterarie sul termine e sul significato di ipermoderno.  Gli anziani, gli analogici, pare si stiano schierando palesemente per la definizione di postdigitale quale enfasi arcaico modernista o per l’appunto postmodernità. Viceversa i giovani, quella generazione nata nell’alba elettronica, trenta/quarantenni altamente digitalizzati sostengono che l’ipermodernità, così platealmente riconosciuta dal guru intellettuale Gilles Lipovetsky, è il tempo oltre il postmoderno, una nuova era. D’altra parte questo è un pensiero abbastanza comune che anche ben meno dotti pensatori, o persino sfrenati frequentatori di centri commerciali sperduti fra le fantasmagorie dei non luoghi, avranno fatto: e che una trasformazione così profonda dei modelli di comunicazione e di gestione non può che determinare l’inizio di una nuova epoca. Un cambiamento che invece la vecchia guardia, impersonata nella scrittura aulica di Remo Ceserani, non ha molto apprezzato, insistendo, con argomenti criticamente vari e naturalmente di dottissima, ancorché accademica levatura – ovvero con note realizzate secondo gli standard così cari alla VSIEI Vecchia Scolastica Imperante e Inossidabile -. Obiettano per voce di Remo Ceserani gli antichi battaglieri della VSIEI, il postmoderno è proprio nella continua rielaborazione del moderno, come un grandioso elastico o una molla con la quale fare esercizi di muscolatura intellettiva (Remo Ceserani La maledizione degli “ismi” in http://www.leparoleelecose.it/?p=11196). La fine di quest’epoca avrà ben altri esiti, sostengono i dotti professori della VSIEI. I giovani agguerriti profanatori del verbo VSIEI e non senza una qualifica altrettanto accademica sostengono invece con la scrittura di Raffaele Donnarumma che l’epoca postmoderna è la fine della modernità e che questa ipermodernità del presente è l’inizio di un nuovo mondo, e anche in questo caso i rimandi, partendo da Eco sino al nostro Lipovetsky si sprecano. La qualifica più sostanziosa comunque a giudicare da quanto si legge pare quella di aver partecipato per almeno dieci anni al mondo freneticamente competitivo della precarietà accademica, titolo nel quale modestamente sono un principe forte dei miei 25 anni, nozze d’argento con madame precarietà, tale da far pensare che in realtà ciò che si dice sociologicamente coerente nel contesto dell’ipermodernità comune è proprio l’idea dell’aleatorietà del lavoro: e qui l’ipermodernità simbolica del lavoro intellettuale risulta in tutta la sua palingenesi spasmodica. Siamo noi, l’ipermodernità, siamo noi, il postdigitale. Noi, gli invisibili, gli intellettuali cancellati dall’abominio del potere accademico.

Lo spunto per i letterati in questione nasceva dalla definizione temporale del presente come di un “anno zero”, visione condivisa da Donnarumma, Cortellessa e Mazzoni che all’argomento hanno lavorato per un volume di “Allegoria” (“Allegoria” n. 65/66 Palumbo editore, Palermo 2013), citato dall’analogico Ceserani (op. cit.) e sbugiardato come un tipico esempio di “ismo”. La polemica, di cui riesce persino difficile richiamare le citazioni e le cavillose idiosincrasie che accomunano entrambi i contendenti a nome di estese generazioni, sembra calzante per la definizione di ciò che è adesso la comune percezione del postdigitale. Per la generazione analogica è postdigitale il passato, ovvero un’ipotesi dell’eterno ritorno, la clautrofobica tendenza di una generazione atrofizzata dal proprio stesso esilarante potere a ridurre tutto al proprio postmoderno, sebbene ismizzato. La versione dei nativi digitali o di sparute minoranze che hanno cavalcato la trasformazione telematica della società è invece che siamo entrati in una nuova era e che il postmoderno altro non è che un’alba del digitale, la nascita del sole elettronico e che proprio perché siamo dentro l’era digitale non ne vediamo più la materia così come quando guardiamo il sole ne rimaniamo abbagliati, non lo possiamo vedere. Il postdigitale o ipermoderno si configura non come superamento dell’epoca digitale, ma al contrario come inizio di questa.