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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Un viaggio attraverso la varietà delle arti del Marocco degli ultimi 20 anni: dai pionieri dell’arte contemporanea fino all’artista più giovane, classe 1991. Dal 15 ottobre 2014 al 25 gennaio 2015, l’esposizione curata da Jean Hubert Martin all’Institute du Monde Arabe di Parigi, racconta il Marocco nelle sue mille contraddizioni.

 

Valentina Vacca

Cinque piani per un totale di 2500 mq espositivi. Più di ottanta artisti esposti, le cui opere sono state raccolte entro una pluralità di tematiche che vanno dalle “immagini ambigue” fino all’ “emigrazione”: sono numeri che sconcertano e lasciano sbigottiti, quelli proposti all’interno dell’esposizione Le Maroc contemporain presso l’Institute du Monde Arabe di Parigi. Una pluridisciplinarietà variopinta e variegata, che ha portato sulla scena la pittura come la fotografia, la moda come il design, la video arte come le installazioni, così come la danza e il cinema per mezzo dei numerosi eventi organizzati nel corso del periodo espositivo.

Le Maroc contemporainè una mostra che, al principio, potrebbe trasmettere allo spettatore una sensazione di smarrimento: perdersi nell’infinita ricchezza dell’arte marocchina, è un fenomeno col quale ci si può imbattere con estrema facilità. Difatti siamo davanti allo sviluppo di un dinamismo energico nell’animo di ciascun artista, fenomeno questo che dà origine ad un vortice artistico che non ci si aspetta o, perlomeno, non con la portata di una tale forza espressiva. Il Marocco e la sua arte sono costituiti da diversificate tessere di un mosaico e, solo una volta che lo si è osservato con attenzione, esso risulta possedere delle forme ben definite pure nella loro estrema eterogeneità.

Tale rivelazione tuttavia, talvolta può condurre ad un crollo delle nostre salde certezze, le quali per automatismo sono state acquisite entro la nostra dimensione da occidentali, ove non di rado siamo dei percorritori di un binario scandito da continue stazioni omologate. L’esposizione all’Institute du Monde Arabe invece, insegna che si può essere il riflesso di un popolo come anche di tanti, i portatori di un sentito misticismo, ma anche gli aspiratori ad una dimensione libertaria: è la descrizione di un affresco variopinto che illustra la diversità e tale pluralità culturale si riflette interamente nell’eredità artistica ivi rappresentata.

Il percorso proposto da Le Maroc contemporain, si snoda dall’alto verso il basso, inaugurandosi pertanto all’ultimo livello dell’Institute du Monde Arabe: man mano che si procede nella visita, si cala sempre più in basso, fino ad arrivare alle profondità dell’edificio.

Si inizia partendo dal secondo piano, ove sono esposte delle opere che risultano essere delle variazioni di cinque differenti tematiche: Fantasmer, Les Pionniers, Images ambigues, Organiser, détruire, combiner, e Traduire.

L’introduzione è alla vita quotidiana marocchina, rintracciata nello sviluppo della tematica Fantasmer, all’interno della quale -per mezzo dell’humour, dell’aneddotto e della satira- gli artisti illustrano vari aspetti, anche politici e sociali, del loro paese. Il fotografo Merjy (1985) ad esempio, nella sua foto immortalante i tetti di Marrakkesh ricoperti di enormi girasoli al posto di parabole, effettua una trasmigrazione dell’irreale nel reale, mirando tuttavia ad esprimere il realismo di una nuova sfaccettatura di un paese in piena mutazione. All’interno della tematica Fantasmer, risulta molto interessante anche la ricerca del fotografo nonché insegnante, Hicham Benohoud (1968): egli, nella serie di scatti La salle de classe realizzati tra il 1994 e il 2002, ha immortalato i suoi studenti in pose strane e anticonvenzionali ove il corpo è apparentemente al centro dell’attenzione, ma dove in realtà, la sua rappresentazione riflette l’assimilazione inconscia dei bambini di un qualunque vincolo sociale o culturale.

In Les Pionniers sono invece racchiusi tutti quegli artisti marocchini che, a partire dagli anni Sessanta, hanno sviluppato una versione innovativa ed originale della pittura. In questo senso, risulta capitale la menzione di Farid Belkahia (1934-2014), tra i più conosciuti e raffinati interpreti dell’arte marocchina, fondatore pure di una scuola d’arte a Casablanca insieme all’altrettanto celebre Mohamed Melehi –anch’egli in mostra-. La ricerca di Belkahia si è basata sempre sulla fusione della tradizione del suo paese - e in particolar modo quella del Sahara del sud- con la modernità. Al posto dell’olio e dell’acrilico, Melehi utilizzò ad esempio henné e ossidiana, dando origine a delle forme straordinarie rimembranti la calligrafia dei decori islamici. Nelle opere in mostra (fig. 1), risalta difatti questo geniale e innovativo connubio fra tradizione e modernità del quale l’artista fu uno straordinario esponente di prim’ordine. Il già citato Melehi (1936) dà invece una sua personale visione dell’astrazione, rifiutando però l’egemonia occidentale della linea a favore invece delle curve, allusive queste ultime della sessualità femminile. Presente all’interno di questa sezione e indubbiamente degno di una menzione, è El Khalil El Gherib (1948), artista di Rabat tra i più conosciuti e rispettati del Marocco. Egli si rapporta in maniera a dir poco straordinaria con l’eternità dell’opera d’arte, interrogandosi sulla possibilità che essa sia destinata a sparire col passare dei tempi. Nel suo atelier questo raffinato artista, accumula cartone, pezzi di legno, oggetti rovinati dall’umidità per i quali è il tempo stesso, col suo scorrere, a creare un’opera fragile fondata sulla distruzione. Per questo motivo l’artista, ha deciso in maniera radicale non solo di non vendere le sue opere, ma neppure di firmarle, in modo tale da garantire la disgregazione dell’opera stessa. A coronamento della sezione Les Pionniers, si segnala inoltre l’angolo dedicato al design d’arredamento tipico marocchino, il quale va a definire l’allestimento di un tipico salone domestico. Il segnale che si vuole trasmettere, è la spiccata propensione del popolo marocchino per l’ospitalità e l’accoglienza, tratto questo peculiare della loro variegata cultura.

Images ambigues è una delle sezioni più canoniche della mostra; ad esporre sono artisti che, con le loro opere, mirano a sottolineare una certa ambiguità dell’immagine stessa. Il messaggio è che essa non va letta a senso unico, ma necessita di essere esplorata e sviscerata nella sua molteplicità di significati nascosti, che spesso celano una forma stessa di poesia. E’ questa la ricerca proposta, ad esempio, nei disegni politici di André Elbaz (1934) dove è presente una forte denuncia dello schiacciamento del singolo individuo da parte dei regimi autoritari, o, in seconda battuta, nei bestiari favolosi che sembrano quasi delle coreografie pittoriche di Mohammed Tabal (1959).

Organiser, détruire et combiner è uno spazio nel quale gli artisti si interrogano sull’architettura e, in particolare, sulla sua dialettica del distruggere ai fini di una qualsivoglia creazione. In questo senso, l’artista visivo Mounir Fatmi (1970) nella sua installazione Modern Time, a history of the machine (2009-2010) paragona questo fenomeno a quanto proclamato da Charlie Chaplin in Tempi Moderni; una metafora dunque, della società industriale che il mondo arabo si trova ora applicata in maniera preponderante. Ultima tematica affrontata in questa prima sezione della mostra è Traduire: qui gli artisti hanno creato le loro opere attraverso l’impiego di materiali inaspettati e deviati dal loro uso originario. E’ anche lo stesso artigianato marocchino, molto spesso, a condurre gli artisti verso tecniche e metodi localizzati entro una prospettiva innovativa e inattesa. Eric Van Hove (1975) è uno di questi: egli ha riprodotto il motore di una Mercedes V12 attraverso l’impiego di 560 pezzi realizzati artigianalmente da una cinquantina di artigiani marocchini (fig. 2). L’opera è composta da 53 differenti materiali tipici del paese: dalla ceramica alla pelle di capra, fino alla terracotta e l’osso.

Nel primo piano dell’Institute du Monde Arabe ci si interfaccia invece con il misticismo, e in particolare col soufisme[1], il cuore esoterico della tradizione islamica. In questo senso, l’artista più interessante della sezione è indubbiamente Younès Rahmoun (1975), il quale con l’installazione Zahra Zoujaj (2010, fig. 3) fa risplendere entro un’architettura ottogonale bianca rimembrante –per le forme verso l’alto- le piramidi, 77 lampade di vetro tutte differenti –assemblate in modo da portare alla mente un bouquet di fiori- simboleggianti gli altrettanti 77 rami della religione musulmana. Lo spettatore è invitato dunque, grazie alla luce, alla meditazione, al misticismo, all’estasi nel pieno spirito della quiete islamica di cui il soufisme non è che un aspetto. Najia Mehadji (1950) con la serie Mystic dance (2011, fig. 4) evoca invece la calligrafia sacra, ma soprattutto le vesti delle dervisci rotanti, ordine soufi originario della Turchia le cui adepte, grazie alla musica, compiono la loro tipica “danza turbinante”, riuscendo a raggiungere l’estasi mistica.

Nel primo seminterrato, sono due le tematiche che Le Maroc contemporain affronta: Émigrer e Interroger les conventions. Entrambe parlano di rivolta connessa all’energia, alla volontà di cambiamento e al desiderio di libertà. E’ la parte della mostra che denuncia, che ha il sapore tragico del dolore. Per quel che attiene la prima, essa risulta di grande attualità: si focalizza sugli abitanti, specie dell’Africa subsariana, che ogni giorno corrono enormi rischi per salire su barche di fortuna e raggiungere le coste europee con la speranza di una vita migliore. Gli artisti marocchini si mostrano molto toccati e coinvolti da tale drammatica situazione, la quale risulta essere fonte d’ispirazione per molti di loro. Ne è un esempio Hassan Echair (1964), il quale con l’installazione Caravanne carbonisé (2004) libera su un letto di sale evocante il Mediterraneo, dozzine di strutture metalliche che portano delle pietre carbonizzate. Nel video Crossings (2013) invece, la giovane Leila Alaoui (1982) porta all’attenzione in maniera piuttosto toccante, le drammatiche condizioni di vita degli uomini e delle donne di Tangeri destinati ad una perpetua partenza che mai arriva e mai probabilmente arriverà.

Interroger les conventionssottolinea invece il coinvolgimento manifestato da molti giovani del Marocco per la critica politica e sociale. Una severità rispetto a quella che è pure la loro tradizione culturale del resto, che si manifesta ad esempio nell’opera realizzata dal collettivo Pixylone. L’installazione 9oua-lab (2013, fig. 5) presenta una piramide di pan di zucchero, simbolo questo di prosperità e oggetto di offerta in occasione di matrimoni. Nell’installazione del collettivo Pixylone però, questi simboli di prosperità, si trasformano via via in missili grazie ad una sequenza programmata di immagini virtuali.

Nel secondo seminterrato, troviamo una delle sezioni più interessanti della mostra: Incarner, territorio entro il quale gli artisti sono stati chiamati ad interrogarsi sul corpo. A dialogare in maniera più proficua, sono senza dubbio le artiste donne, per le quali la rappresentazione del corpo e delle sue infinite possibilità costituisce un fenomeno inedito, ma affrontato in maniera aperta e senza tabù. Con o senza il velo, l’esigenza che sentono è quella di essere se stesse, libere di esprimere la loro corporeità. Ed è qui che stupisce come, queste artiste marocchine, si sentano perfettamente a loro agio nella riappropriazione della loro femminilità, come anche nella descrizione delle relazioni uomo-donna. Si rapportano con tali tematiche mettendosi spesso loro stesse in gioco, prendendo parte alla messa in scena in qualità di protagoniste e, per questo, correndo dunque dei rischi. Lo fa, ad esempio, con eleganza e ironia, la giovanissima Nadia Bensallam (1991) nel video 2 mn 45 à Marrakech (2011), nel quale la sovversiva artista è la protagonista di una performance realizzata per le strade della città marocchina. In essa la Bensallam, indossa il niqab cortissimo e i tacchi alti, infrangendo dunque la regola convenzionale islamica dell’abbigliamento femminile che vuole le gambe totalmente coperte. Le reazioni delle persone infatti, sono particolarmente forti: insulti, indignazione e intollerenza alla vista di una donna che non rinuncia a mostrare la sua femminilità. La fotografa Randa Maroufi (1987) si rapporta invece con la violenza delle relazioni uomo-donna con la serie Reconstitution. Gestes dans l’espace public (2013, fig.6), ove l’artista immortala gesti scorretti dei quali le donne sono quotidianamente vittime. Presente anche la fotografa Fatima Mazmouz (1978), uno dei grandi nomi dell’arte marocchina. Con la serie Super Oum (2009, fig.7) composta da 14 fotografie, l’artista riflette sul corpo femminile, desacralizzando l’evento della gravidanza.

Procedendo verso la fine dell’esposizione, si attraversa un corridoio colonnato, ove si ha modo di scoprire la moda marocchina con le creazioni dell’audace stilista Noureddine Amir, e, in seconda battuta, l’architettura degli ultimi cinquant’anni attraverso lo sviluppo di cinque temi fondamentali, strettamente collegati all’infinito universo simbolico marocchino.

L’epilogo di Le Maroc contemporain, è affidato allo srotolamento di tre tematiche: Questionner les croyances, Printemps arabe e Tisser le fil de la vie. Nel primo, gli artisti si interrogano sulla religione e le relative rappresentazioni e, in particolare, viene evocato il Hajj, ossia il pellegrinaggio verso La Mecca. La parte più interessante però, è indubbiamente quella che mira a rappresentare la Primavera araba: difatti, benché il Marocco non sia stato direttamente toccato dalle rivoluzioni sviluppatesi in seno ad essa, gli artisti di tutte le generazioni ne hanno sentito il drammatico riverbero. Batul S’himi (1974) col suo Monde arabe sous pression (2014) simboleggia con una pentola, l’esplosione che si può verificare in pochi minuti –quasi equivalente del tempo che occorre per far bollire l’acqua in una pentola- delle rivoluzioni, e soprattutto la costante situazione di imprevedibilità alla quale è condannato il mondo arabo. Abdelkrim Ouzzani (1954) col suo acrobata, descrive la situazione di precario equilibrio che contraddistingue il mondo arabo. In ultimo con Tisser le fil de la vie, si è voluto dar spazio alla vivace arte della tessitura femminile, quivi rappresentata da straordinari tappeti recanti un grande valore simbolico e realizzati in vista di importanti eventi familiari.

Rimarcabile dunque, l’eterogeneità artistica che questa grande esposizione porta all’attenzione: grazie ad essa, alla fine del percorso, pure chi non ha familiarità con l’arte marocchina, riuscirà a nutrire un’idea relativamente completa delle tendenze contemporanee del paese africano. Notevole è, inoltre, l’interesse estetico delle opere proposte. E del resto, per comprendere l’ingente valore intellettuale ed artistico enunciato in Le Maroc contemporain, basti pensare che l’esposizione è curata da Jean Hubert Martin, uno dei più grandi conoscitori del mondo di arte africana. Lo stesso che, nel 1989, curò la rivoluzionaria e leggendaria Magiciens de la Terre tenutasi presso il Centre Pompidou, ove per la prima volta l’arte contemporanea aprì le sue autorevoli porte pure ad artisti africani ancora pressoché sconosciuti.

E’ ineluttabile come ancora una volta Jean Hubert Martin sia riuscito nell’arduo compito di esprimere l’effervescenza di un popolo, e non per mezzo di un incanalarsi entro una dimensione strettamente etnografica, ma bensì grazie alla descrizione delle sue plurime sfaccettature, spesso pure antitetiche a quella che è la sua tradizione culturale.

[1] In italiano, la traduzione è sofismo