Daniela De Dominicis

Chi arrivasse a Marsiglia dal mare mancandovi anche solo da pochi anni, non riconoscerebbe appieno il suo profilo, tanto è cambiato, e continuerebbe ad essere disorientato a terra, qualsiasi fosse la banchina di approdo.

Una trasformazione imponente pensata dalla metà degli anni ’90 in due fasi successive chiamate Euromediterranée 1 e 2 che ha dato vita ad una ridefinizione complessiva – architettonica e urbanistica – dell’area portuale e dei quartieri limitrofi, permettendo alla città di ottenere la nomina di capitale della cultura per il 2013. L’area coinvolta è di 480 ettari, le risorse utilizzate (europee, statali, regionali, comunali e private) si aggirano intorno ai 600 milioni di euro, in un progetto faraonico non ancora ultimato.

Gli interventi si sono orientati nei quartieri operai e popolari a Nord del Vieux-Port, lungo quegli approdi costruiti nel secondo Ottocento – la Joliette, il Port d’Arenc…. – a rincorrere uno sviluppo mercantile incalzante imposto dalla rivoluzione industriale, quando sembrava che non ci fossero mai sufficienti dock per stipare le merci e alloggi per accogliere il fiume di lavoratori che qui approdava da tutto il Mediterraneo.

Questa espansione progressiva è venuta meno solo nel corso degli anni Sessanta del ‘900 con la sofferta indipendenza delle colonie africane. Marsiglia, primo porto coloniale di Francia, la porta d’Africa, ne ha subito un contraccolpo feroce. A questo è seguita nel decennio successivo la crisi industriale, quando si è passati da un’industria a gestione familiare ai grandi monopoli internazionali che hanno finito per delocalizzare la produzione e svuotare le fabbriche. Da qui lo sviluppo di un’economia alternativa, fatta di clan e di conflitti etnici che i romanzi di Jean Claude Izzo ci hanno reso, almeno in parte, familiari.

Euroméditerranée vuole essere un ambizioso progetto di riscatto che ha investito tutto sulla cultura e sulle sue capacità rigenerative.

Eppure dietro gli slogan ad effetto che sostengono il riposizionamento di questa città si celano luci ed ombre, e tra le ombre c’è la continuità con una politica urbanistica discutibile di lunga tradizione, una politica nella quale taluni storici individuano la ragione prima dei conflitti sociali di cui ci parlano spesso le cronache (Alèssi Dell’Umbria, Histoire universelle de Marseille. De l’an mil à l’an deux mille, Agone, Marseille, 2006).

Da sempre Marsiglia è stata una città difficile, insofferente al potere centrale di Parigi. Forse è l’autonomia di cui ha sempre goduto fin dal medioevo la ragione dello spirito anarchico e rivoluzionario che ne ha costantemente caratterizzato la storia. Contea indipendente nell’ambito del Sacro Romano Impero, viene annessa alla Francia solo nel 1481 ma con il titolo di città regia, quindi con notevoli libertà e privilegi. Luigi XIV deve mettere in campo una violenta operazione militare per conquistarla. Il Fort Saint-Jean che il re costruisce all’ingresso del Vieux-Port, isolato dalla terraferma con il taglio verticale di uno spicchio di collina, non viene concepito per proteggere il centro urbano ma, al contrario, per garantire alla corona il controllo militare della città così faticosamente assoggettata.

Le trasformazioni urbane storicamente messe in atto o semplicemente ipotizzate hanno sempre cercato di intervenire nei quartieri popolari intorno al porto: aree a densità abitativa altissima, impenetrabili e socialmente ingovernabili. Se nel corso della storia la collina del Panier non è stata del tutto rasa al suolo lo si deve soltanto agli alti costi che l’operazione implicava, non certo al rispetto delle preesistenze, ma tanta parte dei quartieri medioevali è stata invece abbattuta.

I lavori di marca haussmaniana per esempio, avviati con una differita di una decina di anni rispetto alla capitale, hanno messo in campo una serie di sbancamenti, il primo dei quali ha permesso il tracciato della rue Impériale (oggi rue de la République) che ha diviso in due l’area medioevale ad Est del Panier, con 16 mila sfollati trasferiti in alloggi economici nei primi sobborghi (i faubourg d’Endoume, de la Belle-de-Mai e Saint-Lazare) . Questo primo asse viario è stato seguito ben presto dal boulevard des Dames, rue Colbert, Saint-Louis, etc., strade rettilinee, affiancate da anonimi e uniformi immobili borghesi che non offrono alcun riparo né dal fastidioso libeccio né dal potente sole estivo, diversamente dai tortuosi vicoli preesistenti che con le loro molteplici angolazioni avevano fino ad allora egregiamente assolto ad entrambe queste funzioni.

Il secondo tentativo di incidere sul tessuto sociale ed urbanistico della città antica è ad opera del governo di Vichy con la legge sui “Grandi Lavori” promulgata il 30 maggio 1941 che recepisce progetti formulati già negli anni ’30 (da Jacques Greber, poi da Gaston Castel e Jean Ballard, infine da Eugène Beaudoin). Saranno gli artificieri della Wehrmacht, nell’ambito della feroce retata Opération Sultan, a permetterne sbrigativamente la realizzazione con cariche di dinamite che in venti giorni, a partire dal 1 febbraio 1943, radono al suolo 1482 case, distruggendo 15 ettari dell’antico insediamento sul fronte Nord del Vieux-Port.

La ricostruzione avvenuta tra il ‘46 e il ‘53, presenta tipologie diverse: dalle dignitose palazzine in pietra di Fernand Pouillon sulla banchina, al falansterio di case in linea – completamente fuori scala rispetto al contesto - costruite dallo stesso Pouillon in collaborazione con Andrè Devin sul crinale Ovest della collina del Panier, alla Tourette, su una raccapricciante ed invasiva sostruzione di cemento armato. Questi edifici sono i primi a modificare la natura sociale del Panier, riducendo la densità abitativa (da 2000 a 750 abitanti a ettaro) ed elevando le locazioni, tanto che nessuno dei vecchi abitanti – quelli non avviati ai campi di lavoro e trasferiti in periferia – si è potuto permettere di ritornarvi.

I piani di sviluppo della metà degli anni ’50 ribadiscono la separazione tra un’area Nord industriale con relativi insediamenti operai e i quartieri più agiati ad Est e a Sud. Prioritaria in questa fase sembra essere la connessione viaria: vengono costruite le autostrade Nord (1951-55), Est (1962), il viadotto sotto il Vieux Port (1964) e ampliata la strada costiera della Corniche (1968), i tracciati arrivano fin nel centro contribuendo a disintegrare ulteriormente il tessuto urbano.

Il declino portuale e industriale coincide paradossalmente con la massima espansione della città sostenuta dagli ultimi tentativi di rilancio economico con le nuove darsene per accogliere le superpetroliere (1965) e i cantieri nella regione di Fos (1968-75), sempre nell’area Nord. Gli insediamenti abitativi promossi dagli HLM (abitazioni ad affitto economico), giganteschi edifici popolari in cemento armato, si concentrano per il 70% in quelli che d’ora in poi sono definiti i “Quartieri Nord”, o semplicemente “i Quartieri”. La politica zonale di marca razionalista, ne promuove la vocazione unica, quindi esclusivamente abitativa. Queste zone, tagliate fuori dai collegamenti metro, raggiunte solo da alcune linee pubbliche, senza la possibilità di attivare nessuna piccola realtà imprenditoriale perché le aree a vocazione commerciale sono altre – i grandi centri distributivi – diventano degli spazi sterili, ghettizzanti (François Ruffin, Quartier nord, Fayard, Paris, 2006). Nell’arco di una generazione, tali periferie si trasformano in polveriere ingovernabili, terreno fertile per attività illecite e, più recentemente, predicazioni sovversive. Gli schemi con cui sono costruite sono così rigidi da essere inadatti a qualsiasi tipo di riconversione contrariamente agli antichi insediamenti che hanno dimostrato nel corso della storia flessibilità e capacità di adattamento alle trasformazioni sociali e economiche.

Il progetto dell’Euroméditerranée insiste sulle tormentate aree a Nord del Vieux-Port, recuperando strutture industriali dismesse o sottoutilizzate, creando costellazioni culturali ma, soprattutto, incidendo radicalmente sulla natura sociale degli abitanti.

Luci ed ombre si diceva. E veniamo alle luci.

Il fiore all’occhiello dell’ intera operazione è il polo museale a ridosso del Fort Saint-Jean. Si tratta di una piattaforma realizzata ex novo sull’area del porto della Joliette detta J4, trasformata in penisola ad affiancare il Forte partendo dalla chiesa di Sainte Marie la Major: una grande piazza sul mare che non sottrae spazio urbano anzi lo aggiunge e recupera alla fruizione anche quella parte della città che era diventata marginale e inaccessibile. Il MuCem, il museo delle civilizzazione dell’Europa e del Mediterraneo, è la costruzione più importante di questa nuova area. Progettato dallo studio Ricciotti – vincitore di concorso nel 2002 – emerge per due lati dal mare e si presenta come un natante ormeggiato che le alghe hanno via via ricoperto. Il frangisole in fibrocemento nero che lo riveste per due lati e sul soffitto è organizzato infatti come una rete fitomorfa dalle forme irregolari che creano all’interno una piacevole penombra con i raggi del sole che filtrano qua e là, come avviene sott’acqua. Un geniale ponte aereo collega il museo al Forte – area fin’ora inaccessibile e per questo fortemente degradata – e un secondo ponte, superando la strada (il quai de la Tourette che fin dal ’38 aveva interrato il vecchio canale di Saint Jean), collega a sua volta il Forte al quartiere del Panier.

Interessante soluzione urbanistica dunque per una zona incongrua che punta ora su fruizione e connessione esclusivamente pedonale a contenere i danni di una presenza stradale a scorrimento veloce che aveva creato cesura e separazione. 

Insistono su questa piattaforma della Joliette, anche la Ville Mediterranée, il centro congressi progettato da Stefano Boeri – bianca costruzione circondata d’acqua con un’ardita  sala sospesa in un aggetto di 36 metri –  e il Musée Regards de Provence, unico museo ad iniziativa privata che recuperando i locali della stazione sanitaria costruiti nel 1948 (Fernand Pouillon e René Egger), offre una panoramica delle ricerche pittoriche ospitate nel corso del tempo in Provenza.

Questa penisola dei musei vuole attivare un’ economia culturale ambiziosa che punta a fare sistema con soggetti preesistenti, come La Friche Belle-de-Mai – dismessa fabbrica di tabacchi che il Comune ha riconvertito nel ‘92 a centro culturale multimediale – e il Frac (Fonds Régional d’Art Contemporain) nella nuova sede a rue Dunkerque, sempre alle Joliette, progettata nel 2012 da Kengo Kuma.

Nella rivisitazione del Vieux-Port, Euroméditerranée ha affidato alla firma di Norman Foster la sistemazione pedonale dell’area del Quai des Belges anche questa trasformata in piazza pedonale caratterizzata dal segno fortemente connotante, ma discreto e raffinato, lasciato dall’architetto: una tettoia in acciaio che riflette a specchio, protettiva ed invisibile al contempo.

Ma la trasformazione più incisiva per la città, e qui veniamo agli aspetti discutibili del progetto, è l’imponente operazione immobiliare messa in campo alla Joliette, al Quais d’Arenc e, in realtà già dal ’72, al Panier. Questa vasta area centrale ha visto requisite tutte le costruzioni industriali, i depositi, le strade ferrate, le vecchie abitazioni, gli immobili haussmaniani per un intervento di restyling radicale. Tutto è in atto di riconversione in uffici, residenze di lusso, negozi destinati a grandi firme, centri commerciali, alberghi, gallerie d’arte, studi professionali.

Il capitale in questa fase è per il 70% privato e i lavori affidati a firme spendibili come valore aggiunto: Zaha Hadid – cui si deve il grattacielo CMA CGM per uffici – Jean Nouvel, Roland Carta, Yves Lion, Jean-Baptiste Pietri, lo studio genovese 5+1AA che sta riconvertendo ad uso commerciale e culturale gli storici Docks, Massimiliano Fuksas.

I vecchi abitanti e le attività precedenti? Déplacés, come si usa dire con un eufemismo, spostati. La vetrina della città intende puntare ad un target elevato e, ancora una volta come nei precedenti storici ricordati, nessuno dei vecchi residenti potrà permettersi di rientrare lì dove fin’ora è vissuto. Questo fenomeno viene chiamato, con una brutta parola mutuata dalla sociologia, gentrificazione, usata ogni qual volta un quartiere eleva il suo stato sociale. Una cosa però è che questa avvenga lentamente nell’arco di generazioni, con un naturale evolversi dell’economia, delle scelte spontanee, delle trasformazioni sociali, tutt’altra che sia imposta d’imperio dalle autorità, scatenando violente rivolte com’è accaduto appunto a Marsiglia. La memoria di tutto ciò è affidata soltanto ad alcune coraggiose inchieste giornalistiche (p.e. François Ruffin per “Le Monde diplomatique”) ma soprattutto ai circuiti di informazione alternativa, come quello dei gruppi musicali o dei filmati autoprodotti (il gruppo hip hop IAM, i video di Keny Arkana).

Le interviste agli abitanti mostrano lo spaesamento provato nel non riconoscere più i propri luoghi, come Michel, il personaggio di Retour à Marseille – film di Réné Allio – che torna nella sua città dopo trent’anni. 

Si può solo sperare che tutta questa operazione produca un benessere diffuso, ma per ora il centro sembra una città fantasma: i nuovi edifici non ancora abitati, quelli vecchi non più.