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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

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arte e oltre / art and beyond
Raffaella Petrilli
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1. Il problema
La difficoltà di valutare le idee sull’arte di Platone, incominciando dalla stessa definizione delle arti come mímēsis, non dipende soltanto dal fatto che, in materia di arte, il mondo teoretico di Platone è incommensurabile con il nostro – noi abbiamo alle spalle le arti, Platone e qualche secolo di riflessioni sull’arte, mentre Platone ha dietro di sé quasi soltanto le arti (1) –. Dipende soprattutto dal fatto che quando Platone si occupa delle arti, lo fa per segnalarne la crisi. Il tema dell’arte in Platone è il tema della crisi dell’arte a lui contemporanea. In ciò che segue vorrei sostenere che la crisi è affrontata nel contesto di un problema più ampio riassumibile nella domanda: è possibile che le attività che l’essere umano ha sviluppato nel corso del tempo e con le quali si relaziona al mondo restino identiche, funzionalmente identiche, se il mondo che le ha generate è cambiato? La risposta è no. Nella realtà allargata “di oggi”, afferma Platone, le conoscenze che hanno per lungo tempo assicurato la mediazione con il mondo umano e naturale non bastano più, sono inadeguate, superate. In particolare, lo sono gli strumenti che avevano funzionato come i più efficaci custodi e propagatori di conoscenza, le arti appunto, veicolo primario di «quella educazione scoperta ormai da tempo immemorabile» (Rep. 376 e 2-4) che ora, per i valori arcaici di cui è carica, Platone non può che considerare educazione all’errore (2). In sostanza, il dubbio di Platone sulle arti riguarda la loro collocazione funzionale nel mondo, nel momento in cui il mondo ha mostrato aspetti di sé di cui il passato era rimasto ignaro (3). Come dovrà adeguarsi l’arte, e la pittura in particolare, alla nuova dimensione assunta dalla realtà, nel mondo greco? Quali potranno essere le nuove modalità e finalità della fruizione dell’arte in un contesto – naturale e umano – radicalmente mutato? In definitiva, potremmo adattare a Platone la stessa osservazione in cui Tatarkiewicz ha riassunto le ambasce artistiche di un’altra e più recente modernità: la concezione arcaica di arte era chiara ed evidente ma non risponde più alle esigenze del V secolo (4). 

Il termine con cui Platone riassume il disvalore dell’intera cultura tradizionale è mímēsis, termine notoriamente densissimo sulla cui spiegazione Platone non smette di ritornare, in vari punti della sua opera, incoraggiato, nella finzione dei dialoghi, dalla sua scarsa comprensibilità sottolineata dagli interlocutori («Non capisco cosa intendi dire, obiettò», Rep. 377 a 3).

Su questa base, vorrei articolare la posizione di Platone nei confronti delle arti in tre punti.

Il primo è che la nozione platonica di mímēsis non riguardi la definizione generale dell’arte fatta propria da Platone (il dover essere delle arti), bensì la funzione specifica assolta in passato dalle arti ed “ora” superata dalla storia. Dunque, più che stabilire il modello di riferimento, Platone esprime con la mímēsis l’esigenza indifferibile di superare il modello esistente. Verso dove? Quale deve o può essere la nuova funzione dell’arte?

La domanda introduce al secondo punto: Platone risponde nei termini ricorrenti nella sua ontologia e nella filosofia della conoscenza che ne consegue. Le arti dovranno misurarsi con i caratteri della contemporaneità, ovvero: la ricerca (sképsis), che prende ad oggetto il mondo; la conoscenza che non si lasci fuorviare dall’apparenza (osservare, katamatheîn per evitare la ágnoia, ignoranza 376 b 4); la capacità metodologica di distinguere (diakrínein, 376 b 4) e valutare soluzioni differenti ai medesimi problemi (Soph. 265 c 8-10). Nelle intenzioni di Platone, tutto questo investe direttamente anche le arti – e forse soprattutto le arti, data la loro centralità nel mondo passato – le quali, una volta rinnovate abbandonando la mímēsis a favore di nuove funzionalità (eikōn 375 d 5), possono mantenere un posto anche nella nuova città ideale che Platone disegna nella Repubblica (401 b-c).

Infine, il terzo punto tocca un aspetto tipicamente estetico. Nel tentativo di ricollocare le arti adeguandole ai parametri della contemporaneità, Platone si confronta con la specificità delle attività artistiche. Le considera tecniche produttive, ma non le equipara affatto alle altre tecniche, perché il loro prodotto è peculiare (5). Infatti, al contrario di ogni altro artefatto tecnico (tavoli, scarpe, navi e mantelli…), l’artista non produce semplicemente oggetti d’uso, bensì oggetti che hanno effetti nell’anima (6) . Era proprio questa peculiarità che in passato aveva consentito alle arti di assumere il ruolo centrale di “educatrici” della collettività («quella educazione scoperta ormai da tempo immemorabile»). Ora, dovendo ridefinire quel ruolo, Platone chiarisce in che modo ciò potesse avvenire: le opere d’arte seguono la legge dell’isomorfismo fra forma e contenuto (homoiouménon Rep. 400 b sgg).  La potenza (dúnamis) delle arti sta nella immediatezza del loro effetto. Ciò accade alla poesia, dove “la forma enunciata (léxis) e il contenuto (lógos) vanno di pari passo con la disposizione (éthos) dell’anima” (400 d); alla musica, dove ogni schema ritmico è immediatamente espressione una passione (Rep. 400 a sgg.), alla pittura (Rep. 389 a). Questo fa anche in modo che i produttori di arte siano i detentori pieni non soltanto del proprio artefatto ma anche della sua efficacia. In ogni altro settore tecnico l’isomorfismo non vale più, Platone l’ha infranto, spiegando bene che il costruttore di oggetti può lavorare male e costruire un oggetto inadeguato alla funzione che dovrebbe assolvere; e che i nuovi tecnici dell’anima – il nuovo politico, il retore e il saggio filosofo  che non costruiscono artefatti ma oggetti mentali (costituzioni, leggi, conoscenza) – basano la propria competenza sulla capacità di distinguere gli strumenti di cui si servono (parole, impressioni percettive) dal contenuto (mentale) costruito. Nel caso delle arti, Platone non prova nemmeno a rompere quell’isomorfismo, non ha soluzioni per farlo, la forma continua a coincidere sia con il contenuto sia con l’effetto prodotto sui fruitori delle opere d’arte, per cui resta aperta la domanda: chi userà – e come – le opere d’arte, ora che il loro effetto sull’anima non può più essere lo stesso che in passato (la conservazione/ripetizione della tradizione)?

2. La mímēsis
Un’idea molto diffusa su Platone e l’arte è che, nonostante sia vissuto in un periodo di straordinaria creatività, sarebbe stato particolarmente ostile alla creatività artistica, fino al punto da bandirla dalla città ideale.

Gli argomenti che sarebbero stati utilizzati da Platone per sostenere la propria repulsione si riassumono nell’accusa all’arte di essere un’attività puramente imitativa (7). L’arte è senz’altro una realtà culturale preplatonica – un «genere delle cose che sono», potremmo dire, seguendo Sof., 260a 5-6, v. 263 d 7 –, ma la regola tipica della sua manifestazione, la mímēsis, ovvero produzione di copie di ciò che esiste realmente determinerebbe la sua svalutazione radicale, perché ogni copia, per quanto illusionisticamente perfetta, non può mai equivalere al modello, non può che essere approssimazione «imperfetta», restando sempre un passo indietro rispetto al modello. La nozione di mímēsis (tradotta variamente come: «imitazione», «copia», «riproduzione», «rappresentazione», «ri-presentazione», «aboutness»(8) etc.) e il suo effetto svalutativo sarebbero le necessarie conseguenze della nuova ontologia di Platone:

SOCRATE: Abbiamo preso la consuetudine di porre un’idea singola per ciascun gruppo di molti oggetti ai quali riferiamo lo stesso nome […] Per esempio, ci sono molti letti e molti tavoli […] E abbiamo anche la consuetudine di dire che l’artefice dell’uno o dell’altro di questi mobili guarda l’idea e in questo modo uno costruisce i letti, l’altro i tavoli di cui facciamo uso […] infatti, certamente l’idea stessa nessun artefice la costruisce. E come potrebbe?

[…] Dunque, ci risultano tre letti: uno è quello che è in natura e che potremmo dire, credo, che l’abbia prodotto il dio […] Uno è quello fatto dal falegname […] E uno è quello fatto dal pittore […] Dio lo chiamiamo “produttore della natura” (phuturgón) del letto […] E il falegname? Non lo chiamiamo “artefice” (dēmiourgón) del letto? E anche il pittore, lo chiameremo artefice e costruttore (poiētēn)?

GLAUCONE: Niente affatto […] Mi pare che il nome da dargli correttamente sia imitatore (mimētés) della cosa di cui gli altri sono artefici (dēmiourgoí).  (Rep. X, 596 a 6-597 e 2)

La svalutazione dell’opera del pittore sembra più che evidente. Eppure, soltanto poco più avanti, lo scenario cambia:

SOCR: Ammettiamo che il pittore dipinga delle briglie e un morso […] I produttori di questi oggetti saranno il pellaio e il fabbro […] E il pittore è competente dei requisiti che le briglie e il morso devono avere? Oppure nemmeno il produttore – il pellaio e il fabbro –, ne ha conoscenza (epístatai), ma solamente colui che sa usarne, vale a dire il cavaliere?

GLA: Verissimo!

SOCR: Non diremo allora che la situazione sta così in ogni altro caso? […] Per ogni oggetto ci sono queste tre tecniche: quella che lo usa, quella che lo produce e quella che lo imita.

GLA: Sì, è così.

SOCR: Ma ciascun oggetto, o essere vivente, o ciascuna azione, non deve la sua virtù, la sua bellezza e legittimità proprio all’uso (khreía) per il quale è stata da natura generata o fatta? […] È dunque assolutamente necessario che chi si serve di una certa cosa ne sia un esperto conoscitore […] Ad esempio, il flautista darà indicazioni al costruttore di flauti su quelli che usa nei suoi concerti; e quest’ultimo seguirà alla lettera le sue disposizioni su come si devono costruire […] Pertanto, in riferimento al medesimo oggetto, il costruttore avrà corretta convinzione (pístis) riguardo al suo pregio o al suo difetto, in quanto ha frequentato chi conosceva questi caratteri e da lui ha dovuto apprenderli; invece colui che l’usa ne avrà scienza (epistémē, Rep. X, 601 c 6- 602 a 1).

Qui c’è ancora il pittore che dipinge senza conoscere, ma lo stesso accade a qualunque altro produttore di oggetti, all’artigiano che, pur essendo il costruttore dell’artefatto, non ne è veramente competente e che, anzi, per produrre deve attendere indicazioni dall’unico che sappia darle, l’utente, cioè il vero e proprio esperto (negli esempi, il cavaliere e il flautista). Il problema della “modernità” platonica è posto: “oggi” la conoscenza è cambiata o meglio, va intesa come un processo complesso, articolato, che prevede gradi diversi di competenze. Platone lo dichiara a chiare lettere aprendo il libro X della Repubblica, che contiene la famosa condanna dell’arte: «Che l’aspetto imitativo della produzione poetica vada rifiutato mi sembra che risulti ancora più evidente ora (nûn) che, una per una, abbiamo distinto ciascuna delle specie (eîdos) dell’anima», ovvero i diversi gradi di competenza (Rep. X, 595 a 5-595 b 1) (9). Tutti i ruoli tradizionali in fatto di sapere e conoscenza non valgono più. L’autorevolezza del costruttore di utensili (poiētés o dēmiourgós) è ridotta a corretta “convinzione” (pístis) del tecnico (tekhnítēs), che sussiste però solo se e quando sia guidata dalla conoscenza (epistémē) dell’utente esperto, altrimenti non può che scadere ulteriormente in simulazione di conoscenza, mímēsis appunto (602 a 3).

Qual è stata in passato la conoscenza propria alle arti, la conoscenza oramai invalida che le rende “ora” semplici simulatrici di sapere (mimetiche)? Risponde chiaramente l’inizio del Libro X di Repubblica, che incolpa le arti di non essere più in grado di assolvere la loro antica funzione etica ed educativa:

SOCR: E del resto, Glaucone, credi che se Omero fosse stato davvero capace di educare (paideúein) gli uomini e di renderli migliori, potendo fare queste cose non per via di imitazione (mimeîsthai) ma per conoscenza (gignōskein), non si sarebbe guadagnato una folla di amici che l’avrebbero circondato d’amore e di stima? […] E allora i seguaci di Omero e di Esiodo, se davvero questi due fossero stati capaci di far progredire gli uomini sulla via della virtù, li avrebbero forse lasciati andare in giro per il mondo a cantare i loro versi? Non se li sarebbero invece tenuti stretti più dell’oro […] finché non avessero imparato quanto bastava (paideías metaláboien)? (Rep. X, 600 c 3-600 e 3).

Omero, Esiodo erano stati produttori di paideía, educatori dei Greci perché nei versi avevano esposto, conservato e ripetuto il sapere tecnico (10) e i valori etici della società arcaica (11). L’accusa è formulata contro Omero e Esiodo, dunque contro l’arte poetica, ma riguarda tutte le arti – oltre alla poesia, la musica, la danza, la pittura, la scultura –, tutte mimetiche, cioè degne di svalutazione, per la loro strettissima contiguità con il paradigma del passato (12). Dunque, l’accusa platonica alle arti non riguarda una presunta ineluttabile, ontologica insufficienza delle arti in quanto tali, bensì del ruolo di deposito e conservazione di una tradizione culturale sorpassata. Quel ruolo è svalutato sia perché il V secolo dispone oramai di nuove conoscenze e nuove esigenze etiche, sia perché una nuova figura di sapiente, il filosofo, ha assunto la funzione di educatore e guida (13). Perciò, in un primo senso, l’espressione “arte mimetica” va considerata come sinonimo di arte del passato.

3. La funzione dell’arte “contemporanea” (nûn) (14)
Platone non condanna né espunge le arti dalla modernità, ed è invece interessato a sollevare il problema della nuova funzione che possano assumere nel mondo di “oggi”. La Repubblica si chiude con l’attesa di una soluzione (se i poeti sapranno giustificare la loro utilità…), ma in altri testi Platone osserva l’arte come già inserita nel nuovo sistema delle conoscenze. È il caso del Sofista, dove torna sul tema con uno stile molto diverso da quello narrativo della Repubblica. Là, le insufficienze delle arti erano messe in scena, per così dire, attraverso la sequenza degli artigiani (dēmiourgós, poietēs) e dei loro prodotti (15). Nel Sofista, Platone usa il metodo della divisione (diaíresis, Soph. 219 sgg) e della definizione (logos perì tò érgon, 220 b1-2) e analizza modi differenti di intendere l’arte. In sostanza, invece di presentare le competenze dei diversi tipi di artigiani mostrandoli plasticamente inseriti in una catena di produzioni che si allontanano progressivamente dal modello ideale, esamina la produzione artistica in termini concettuali, valutandone la funzione conoscitiva rispetto alle nuove esigenze del tempo (16).

Anche in Sofista tornano la mímēsis e la tecnica mimētiké (219 b 1, 234 b 2, 6), ma con una estensione sensibilmente ridotta rispetto a quella assunta ora dai più generali poíēsis, poiētiké (tékhne). Mímēsis designa la tecnica imitativa ma, per i suoi prodotti, Platone dispiega un ampio ventaglio di termini, ponendo accanto a mímēma: eidōlon, eíkōn, phántasma, homoiōmata. La nozione di immagine, o copia, ne risulta notevolmente complessificata. Del resto, è nel Sofista che la tecnica della produzione di “immagini” (eidolopoietiké tékhne, da eídōlon) è suddivisa da Platone in due specie diversissime: produzione di “apparenze percettive”, phántasma, e produzione di “icone” (eikastiké) o “presentazioni analogiche” (homoiōmata) del reale (236 a-c). Nel passo in cui giustifica la distinzione, non solo il termine mímēsis non compare, compare invece la motivazione per escludere la pratica della pittura come copia (falsa) dell’esistente:

STRANIERO: Porrò quindi che le realtà dette naturali siano prodotte per opera di una tecnica divina, mentre quelle costituite dagli uomini a partire da queste e per opera di una tecnica umana, ecco perché vi sono due generi di tecnica produttiva (poiētiké), una umana e l’altra divina. […] Noi e gli altri viventi […] e le realtà naturali, come fuoco, acqua e gli altri elementi [siamo] cose reali generate dalla divinità […]  Mentre poi vi sono le forme non sostanziali (éidōla) di ciascuna di queste cose reali, che non sono a loro volta reali, ma sono anch’esse prodotte in virtù di un’operazione divina [e cioè] le apparenze (phantásmata) che compaiono in sonno e tutte quelle che, a quanto si dice, si formano naturalmente di giorno, cioè le ombre … in presenza del fuoco, oppure quelle duplici (diploûn), quando una luce propria e una estranea, riunendosi su superfici lucide, producono una visione che suscita opposte sensazioni rispetto al punto di vista abituale

TEETETO: Infatti sono queste due le opere della produzione divina, ogni cosa reale e l’eídōlon che l’accompagna.

STR: E la tecnica che appartiene a noi? Non diremo che fabbrica la casa reale in virtù della tecnica edilizia e un’altra tramite la pittura, prodotta, quest’ultima, come un sogno per uomini che sono svegli? (Soph. 265 e 3-266 c 9).

La modernità platonica ha imparato a distinguere, nel mondo percepito, livelli diversi, tutti legittimi, tutti “opera divina”, ma che pongono nuovi problemi alla ricerca sul mondo. Di quest’ultima è parte integrante l’arte, qui la pittura (graphiké), che dunque è tutt’altro che svalutata o messa al bando. Al contrario, per l’arte è aperto un campo d’azione vasto che, a mio avviso, non può essere facilmente ridotto alla formula univoca, essenzialmente a-problematica qual è la mímēsis intesa nel senso di teoria rappresentazionale. Nella contemporaneità del V secolo, la “duplicazione” del reale (17) è diventata un’operazione complessa di ricerca e di conoscenza.

4. Ispirato dal dio
Il terzo punto che illustra la posizione di Platone nei confronti delle arti è probabilmente il più complesso. Ho detto all’inizio che in Platone le arti sono distinte dalle altre tecniche produttive per il genere dei loro prodotti e per gli effetti del loro uso, e che la ragione di tale diversità riguarda la resistenza che le arti oppongono, agli occhi di Platone, alla dissociazione fra la forma espressiva e il contenuto espresso. Quella dissociazione è già stata esercitata da Platone stesso in molti contesti. Nel contesto del linguaggio, dove la forma espressiva fonico-grafica, la phōné, e la sua articolazione in léxis, sono state accuratamente distinte dal piano del lógos, il contenuto, intenzione comunicativa data a comprendere (si veda soprattutto Cratilo). Nel contesto dell’ontologia delle forme ideali, in cui l’apparenza percettiva, il livello sensibile della realtà è solo ombra imperfetta della vera realtà. Su tale separazione si basa anche la distanza che separa, in Repubblica, il tecnico produttore di utensili e l’utente di quel prodotto, i loro ruoli rispettivi, il produttore ridotto a niente più che un bravo artigiano, l’utente, invece, vero conoscitore della tecnica e degli oggetti (dei suoi principi, avrebbe specificato più tardi Aristotele), in grado di guidare l’operazione di produzione.

Nell’arte ciò non accade. Platone è quasi costretto a tornare su una serie di singolari identità: tra produttore e utente dell’opera d’arte. In Ione, si osserva che l’opera d’arte fa effetto sullo spettatore esattamente come sul rapsodo che la declama «Io, infatti, – afferma Ione – tutte le volte che recito qualcosa di compassionevole, i miei occhi si riempiono di lacrime; e quando qualcosa di pauroso o tremendo, i capelli stanno ritti per il terrore e il cuore palpita […] SO. Tu sai dunque che voi provocate questi stessi effetti sulla maggior parte degli spettatori? IO. E lo so e molto bene» (Ione, 535 c-e).

È interessante vedere che, nella Repubblica, quando elenca gli effetti patemici dell’arte, Platone   ribadisce che sono effetto diretto della forma dell’opera, sia essa poetica, musicale, visiva etc. adoperando una terminologia a-semiotica, per così dire, con cui annulla qualunque distanza fra forma e contenuto:

GLA: […] nei suoni esistono quattro toni dai quali scaturiscono tutte le armonie. Ma che tipo di imitazioni siano e di qual modo di vita, questo proprio non te lo saprei dire.

SOCR: Se è per questo, potremmo […] decidere quali sono i ritmi che sono visibilmente (prépousai) volgarità violenza, oppure pazzia […] (Rep., 400 a 7-b 3).

Le traduzioni rendono prépousai con «tradurre», «corrispondere».  Credo invece che qui il tema sia l’efficacia immediata, pragmatica dell’espressione musicale. Non per niente ciò che è messo subito fuori gioco è, di nuovo, l’imitazione, la mímēsis. Allo stesso modo, poco oltre, Platone fa usare a Socrate espressioni verbali complesse («tener dietro analogamente (homoioúmenon», akoloutheîn «seguire analogamente», 400 d 1-9) il cui effetto è di nuovo quello di caricare la forma dell’espressione di ogni effetto patemico.

La resistenza delle arti allo schema classico dell’ontologia platonica, che prevede la dissociazione di piani di realtà diverse, se pure collegate, non potrebbe essere più evidente. Ciò assegna all’artista un ruolo peculiare, che per Platone costituisce senz’altro un problema aperto, per il quale non può che continuare ad usare, faute de mieux, l’antica metafora dell’ «ispirato dalle Muse» (Ione, 533 e).

20 luglio 2020

1) Il quasi si riferisce alle polemiche pre-platoniche contro la diseducazione dell’epica antica.
2) «Plato's quarrel with poetry takes its start in the fact that Greek poets had a crucial role in the creation and transmission of social values» (E. Asmis, «Plato on poetic creativity“, in The Cambridge Companion to Plato,  R. Kraut ed., Cambridge Mass., 1992, p. 339).
3) Cfr. E. Asmis, cit.
4) W. Tatarkiewicz, Storia di sei idee, Milano, Aesthetica, 2002, p. 55.
5) Contra, W. Tatarkiewicz, Storia dell’estetica, vol. I, Torino, Einaudi 1979, p. 46, secondo il quale per quanto ben individuate, per i Greci le arti non costituivano «un gruppo a sé» nell’insieme delle arti manuali. Nel testo, l’indicazione dei “Greci” resta generica, ma tra questi non può essere annoverato Platone, per le ragioni che esporrò più avanti. Mi limito ad osservare che un elemento di comunanza tra le arti antiche – e di differenza delle tecniche artigianali –  è che le tecniche artistiche producono oggetti che non possono essere reputate totalmente artificiali, portando in sé l’impronta, il túpos, della natura (non “soltanto” naturali, ma “anche”, e soprattutto, naturali). La distinzione è proposta più volte da Platone, prendendo come esempio di arte la pittura (Soph. 233 e-234 a).
6) Lasciando un’impronta, túpos, Rep. 377 b 2. V. qui, più avanti.     
7) Sul punto, il testo canonico è considerato il Libro X di Repubblica, ma l’argomento torna in molti altri dialoghi platonici, da quelli giovanili, come l’Eutidemo ai più tardi, quali le Leggi. Qui leggerò, in particolare, la Repubblica e il Sofista.
8) L’essere «a proposito di», T. Andina, Filosofia dell’arte. Da Hegel a Danto, nuova ediz. Roma, Carocci 2019, p. 59.
9) Il tema dell’articolazione delle conoscenze in piani diversi si ritrova più tardi in testi famosi di Aristotele dalla Metafisica (Met. I, 1), al De anima (R. Petrilli, Linguaggio e filosofia nella Grecia antica. Dai Pitagorici a Aristotele, Roma, Ediz. di Storia e Letteratura, 2009).
10) Esempi di conoscenze tecniche veicolate dall’epica ricorrono in molti dialoghi platonici, per es. in Ione: «SOCR. Non parla dunque anche delle arti Omero in molti luoghi e a lungo? ad esempio anche dell’arte dell’auriga – se ricordo i versi io te li dirò. IONE. Ma li dirò io; io infatti li ricordo. SOCR. Dimmi dunque quelli che Nestore dice al figlio Antiloco, esortandolo a fare attenzione […] IO. “Piegati -dice- tu stesso sul carro ben levigato / leggermente alla sinistra di loro due; il cavallo di destra poi sprona dopo averlo incitato, ed allenta con le mani le briglie. / Il cavallo di sinistra invece, alla meta si accosti rasente, / così che ti sembri giungere al punto estremo il mozzo / della ruota ben costruita; ed evita di urtare la pietra”. SOCR. Basta. Quindi, o Ione, se Omero parla bene in questi versi o no, chi dei due lo conoscerebbe meglio, un medico o un auriga? IO. Un auriga, certamente […] perché (possiede) l’arte. (Ione, 536e-537c).
11) Nella modernità platonica, non hanno più posto i modelli etici incarnati dagli eroi omerici, frutto dell’organizzazione sociale ed economica tribale. Le virtù del nuovo cittadino della pólis platonica non possono essere le stesse dell’eroe, preda delle passioni (ira, vendetta) o che «si sfoga in un lungo discorso pieno di gemiti […] personaggi che esprimono i loro guai e si percuotono»; la poesia omerica offre l’esempio di «un uomo quale non si vorrebbe essere, cui anzi ci si vergognerebbe di somigliare» (Rep. X, 605 d-605 e).
12) Sullo stretto legame delle prime manifestazioni artistiche con riti e culti religioni le tradizioni religiose, v. Asmis, cit. Nel Sofista, sono diventate doxapaideutikés tékhne, tecniche dell’educazione ad un sapere opinabile e privo di basi (Soph. 223 b 4).
13) Così Asmis: «poets and lawmakers are rivals in fashioning human life. Both are at once "makers" (the etymological meaning of poietai, "poets") and "imitators" of moral values; and in a well-ordered society they must speak with one voice», che è quella del filosofo, come spiegano ampiamente la Repubblica e, ancora, le Leggi (Asmis 2006, 338).
14) L’arte “di oggi” (nûn, Sofista, 235 d, 236 a).
15) Rep. 597 b 5-597 e 1. Sulla consapevole adozione del metodo narrativo da parte di Platone, Rep. 376 d 10-11.
16) Per quanto attiene l’arte pittorica, nel V secolo, esiste da tempo, è facilmente identificabile e funziona secondo modalità note e riconoscibili da tutti.
17) T. Andina, cit., p. 58