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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Una conversazione con Bianco-Valente

Brunella Velardi
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Giovanna Bianco, originaria della Basilicata, si è laureata a Napoli in Storia del cinema. Pino Valente, napoletano, ha studiato geologia. Si sono incontrati nel 1994, e da quell'incontro è nato il duo Bianco-Valente. In questa nuova identità duale sono confluiti l'amore per le immagini in movimento e quello per la scienza, si sono intrecciati e mescolati ed emergono insieme in una ricerca fatta di materia sensibile, di dialogo, di empatia, in cui ogni elemento è colto come parte di un sistema complesso che mette insieme persone, oggetti, accidenti, fenomeni naturali.
B.V. Guardando da una prospettiva distanziata all'insieme dei vostri lavori, mi vengono in mente le parole "apertura" e "radici", che oggi vengono spesso interpretate (e usate) in contrapposizione l'una all'altra. Il chiodo che trapassa la cartina dell'Europa ripiegata in Materia prima (1) – con cui avviavate il vostro percorso artistico – entrando nel luogo dove vivete e lavorate, e attraversando tutti i luoghi che incontra nelle pieghe della mappa, abolisce d'un colpo questa dicotomia. Una presa di posizione politica, viene da dire, che innerva tutta la vostra ricerca. Qual è per voi l'urgenza primaria dell’arte oggi?
B-V Il progetto iniziato nel 2001 sulle possibili connessioni tra i pianeti e gli esseri viventi (2) e le esperienze dei viaggi che ne sono derivate, hanno contribuito ad avere un approccio più “aperto” al lavoro, abbandonando la pura osservazione scientifica del mondo nei suoi aspetti intangibili (la mente, la relazione tra naturale e artificiale) che ha caratterizzato il primo periodo della nostra ricerca artistica.
Interpretare la realtà in maniera non più rigorosamente scientifica, ma guardare al complesso intreccio di relazioni che unisce tutti gli esseri viventi, ci ha portato a riconsiderare l’arte e il ruolo stesso dell’artista. Crediamo sia necessario oggi distaccarsi da un tipo di arte solipsistica, in cui l’atto creativo si genera e consuma all’interno di uno spazio chiuso.
L’artista dovrebbe varcare i confini di quello spazio per rivolgersi ad un pubblico più ampio (non solo di esperti e di addetti ai lavori), registrarne gli umori e tradurli nel tentativo di sollecitare riflessioni.
B.V. Come mostra quell’opera-incipit, ma anche la più recente installazione Tu sei qui (3), lo spazio fisico entro cui si dipanano le dinamiche relazionali che attivate nei vostri lavori emerge spesso con forte evidenza. In particolare, il posizionamento di sé (dell'artista e del visitatore) assume l'energia di una presa di coscienza necessaria. Che ruolo hanno i luoghi nella vostra ricerca?
B-V Ogni luogo è custode di una storia, quella che tu riesci ad intessere con le persone che hai incontrato e con i posti che hai attraversato. Quelle storie te le porti dentro, diventano parte del tuo vissuto, offrendoti sguardi nuovi sul mondo. I luoghi sono il nostro corpo e la nostra vita, sono ciò che tu sei e ciò che diventerai, ogni luogo è radice e movimento.
B.V. Nel 2013 siete stati nella cittadina di Becharre, in Libano, dove avete realizzato Come il vento, un intervento site-specific scaturito dal dialogo con gli abitanti del posto, la cui quotidianità è fortemente condizionata dalla guerra in Siria, a pochi chilometri di distanza. Quell'esperienza è stata per voi particolarmente intensa, anche per la delicatezza del contesto in cui si è svolta, sul quale avete scritto che «è uno snodo nevralgico di tutto il medio oriente e le varie confessioni religiose convivono pacificamente, e potrebbero continuare a farlo se non fosse per l’influenza delle nazioni circostanti che sono state alla base delle varie guerre che ciclicamente hanno afflitto il paese» (4). Il video Illimite (5), primo piano su una mano che ricuce sapientemente i lembi di paesi lacerati da conflitti militari, culturali, economici, che un filo rosso unisce e fa da ponte, scavalcando le forzature dei confini politici e ristabilendo possibilità di passaggio da un territorio all’altro, mi sembra per certi versi un gesto di cura verso una ferita aperta che avevate visto da vicino, nel quale rimarcate già con un titolo ossimorico l’idea di un superamento delle frontiere…
B-V Tracciare arbitrariamente i confini delle nazioni ha creato enormi disparità tra territori contigui e le persone che li abitano, generando odio, vendette, guerre, in nome di una identità culturale da difendere, dimenticando che siamo tutti individui, caratterizzati dalle stesse pulsioni e dagli stessi sentimenti.
A volte si convive pacificamente, come abbiamo visto a Becharre, in Libano, dove persone di diverso credo religioso coabitano serenamente lo stesso spazio geografico, pur subendo l’influenza delle guerre generate dalle nazioni confinanti; altre volte, anche in nome di una presunta superiorità religiosa, si arriva a dominare e sopprimere i propri simili.
Da queste riflessioni è nata la serie di lavori Linea di costa, con cui intendiamo suggerire che la rappresentazione cartografica dei territori fornisce una lettura univoca, convenzionale e approssimativa della realtà, in quanto aiuta a localizzare i luoghi ma non ne racconta la complessità. Col gesto del ricucire le linee di separazione tra i vari territori vogliamo annullare i confini inflitti in maniera arbitraria, insieme a tutte le differenze e le problematicità che ne sono derivate. E aggiungiamo un nuovo livello di lettura, quello che racconta del legame affettivo che ognuno di noi instaura con i luoghi e le persone che li abitano.
B.V. Un luogo-frontiera per tutti: il Mar Mediterraneo, che si è configurato in più occasioni come materiale primario di riflessione per alcuni dei vostri progetti. Penso appunto alla serie Linea di costa (6) e ai lavori della mostra Terra di Me (7). Oggi nell'immaginario comune il Mediterraneo è inevitabilmente connotato dalle storie di sofferenza che ci riportano le cronache. Come vi siete rapportati di volta in volta con questo contesto e come ha interferito questo confronto con la vostra poetica?
B-V Nel 2018 la Fondazione Sicilia ci ha chiesto di realizzare alcune mappe della serie Linea di costa da mettere in relazione, in occasione di una mostra, con alcune mappe storiche della sua collezione che raffiguravano la Sicilia nel Mar Mediterraneo. Più che creare un semplice accostamento attraverso epoche diverse, ci piaceva raccontare il Mediterraneo per l’importanza che ha assunto nel passato e su ciò che oggi rappresenta, da luogo di scambi economici e di diffusione della cultura a luogo di chiusura, di separazione, in cui sono stati tracciati dei confini invisibili.
Per fare questo abbiamo chiesto di organizzare un laboratorio con alcune ragazze e ragazzi migranti che vivevano a Palermo, insieme ad alcuni mediatori culturali che li avrebbero accompagnati, per conoscere di persona le loro storie. Il semplice trovarci di fronte a loro ci ha provocato uno stordimento, le emozioni erano talmente forti al punto che avevamo deciso di non incontrarli più, sentivamo che il nostro progetto aveva perso tutta la sua importanza rispetto al carico di storie che portavano con sé. Sollecitati a continuare, abbiamo dato avvio a un lavoro che si è svolto con grande delicatezza ed emozioni intense, in cui abbiamo preferito non indagare sulle loro storie personali per evitare altra sofferenza, ma parlare del loro immaginario rispetto al paese straniero che desideravano raggiungere prima di affrontare il viaggio. Ne sono emersi lavori che raccontano le loro aspettative prima della partenza, la solitudine dell’arrivo in un paese straniero, lo scoprire per alcuni la diversità del colore della propria pelle, l’allontanamento da casa e il forte legame con gli affetti lasciati nella propria terra.
Molto spesso coinvolgiamo persone nello sviluppo di nuove opere, l’approccio è sempre lieve e tiene conto del loro essere individui, ci predisponiamo all’ascolto e lasciamo che le emozioni si manifestino spontaneamente. Ma l’incontro con i migranti a Palermo ci ha fatto ridimensionare improvvisamente il valore del lavoro che stavamo per compiere, il nostro stesso essere lì da artisti non aveva più alcun senso. Un incontro che ci ha segnato, che ci ha portato a riconsiderare la realtà sotto una nuova luce, assegnando il giusto peso alle vicende della vita.
B.V. A proposito di scambi e di confini, in Breviario del Mediterraneo (8) le infinite sfumature del nostro mare tratte dalle riviste di viaggi e assemblate a collage ricompongono uno spazio del desiderio legato in primo luogo alla bellezza e alla scoperta. La sua realizzazione durante i lavori per la mostra Terra di me è stato un modo per cercare una riconciliazione con un Mediterraneo che oggi ci rimanda soprattutto alla drammaticità delle migrazioni?
B-V Quest’opera è scaturita dalle suggestioni avute in seguito alla lettura di Breviario Mediterraneo (9) in cui Matvejevic, attraverso una scrittura a metà tra il saggio e il racconto, descrive l’eterogeneità dei popoli che si affacciano sul Mar Mediterraneo tracciandone le similitudini e le singolarità, illustrando la varietà dell’architettura, la molteplicità dei linguaggi, le infinite sfumature che assume il mare a seconda del passaggio del tempo, delle ore del giorno o delle stagioni, del tipo di fondale o del paesaggio costiero che si riflette al suo interno.
Per realizzarla abbiamo utilizzato le riviste di viaggi che pubblicizzano i luoghi di villeggiatura attraverso l’uso di colori straripanti, il mare risulta di un azzurro profondo o di un verde cristallino con l’unico intento di stimolare nelle persone il desiderio di prenotare una vacanza.
Quelle immagini patinate dai colori surreali le abbiamo ritagliate in piccole strisce, incollandole una dietro l’altra, sotto forma di collage, creando varie gradazioni di colore per provare a ricomporre una nostra personale visione del Mar Mediterraneo.
E’ stato un lavoro accurato, paziente, durato diverse settimane, svolto con il desiderio di esaltare la bellezza e l’importanza di quel mare per esorcizzare l’immagine che ha assunto nell’attualità, un luogo di sofferenza e di tragedie, di speranze troppo spesso vanificate.
B.V. La cartografia ricorre più volte nel vostro lavoro, in opere come Materia prima, Tu sei qui e Illimite, ma allo stesso tempo la mappa è la forma grafica con la quale tradizionalmente vengono rappresentate le relazioni, e in questo senso mappature appaiono anche in Relational Domain (10) - la cui estetica, al di là del riferimento alle rotte aeree, ricorda un'immagine della sfera celeste -, nelle reti luminescenti di Relational (11) o in The Effort to Recompose My Complexity (12). C'è per voi una sorta di continuità tra lo spazio fisico e lo spazio mentale, tra la dimensione oggettiva, a cui il disegno dei luoghi e dei loro confini ambisce, e quella soggettiva dell'esperienza?
B-V I luoghi non sono solo uno spazio fisico o una semplice raffigurazione su una mappa, sono le esperienze, i paesaggi attraversati, le persone incontrate, le emozioni percepite.
Le nostre opere sono un tentativo di rappresentare i luoghi in maniera diversa, nuove mappe che talvolta si espandono nello spazio in una sorta di geografia emozionale, parlano di noi, del nostro legame con i territori, raccontano la storia delle persone che abbiamo conosciuto che si intreccia a quella della nostra vita.
B.V. La dimensione del conflitto – reale, come nel caso di Come il vento, ma anche figurato, tra il ricordo e le metamorfosi del presente, in Costellazione di me (13), per fare solo due esempi – è entrata più volte nel vostro lavoro. E si è spesso accompagnata, ancora una volta, con lo sforzo di un riposizionamento individuale, come avviene nel successivo video Costellazione di me (14). L'esercizio dell'autoconsapevolezza, il coltivare una memoria individuale e collettiva assumono allora un valore quasi curativo. Con il progetto A Cielo Aperto (15) recuperate l'identità di un'area interna, quella del paese di Latronico, attraverso l'arte contemporanea. C'è un filo conduttore che lega queste esperienze?
B-V L’esperienza a New York era nata con l’intento di evidenziare le profonde trasformazioni che il quartiere Chelsea aveva subito, da area industriale e molto popolare che era a quartiere di lusso, affollato di ristoranti, banche e gallerie d’arte, con tutte le implicazioni legate alla socialità che questo aveva comportato. Il recupero della memoria dei luoghi è avvenuto tramite un lavoro svolto insieme ad alcuni anziani che hanno vissuto e continuano a vivere in quel quartiere, in quanto assegnatari di case ad affitto agevolato. È stato un lavoro profondo e delicato che ha fatto emergere forti emozioni, insieme alla consapevolezza che alcuni di quei posti, che erano stati parte del loro vissuto, non fossero più visibili fisicamente ma si potessero ricomporre solo nei propri ricordi.
A Latronico, al contrario, i luoghi sono segnati dal passaggio del tempo, raccontano di abbandoni e di solitudine. È il vuoto a marcare la differenza rispetto al passato, la desolazione in seguito alla forte emigrazione, lo spezzarsi dei vincoli affettivi, la mancanza di una progettualità futura per le nuove generazioni.
Con A Cielo Aperto si è cercato di far accrescere nei cittadini una maggiore consapevolezza del posto in cui abitano, della ricchezza del proprio patrimonio materiale e immateriale, si è provato a suggerire attraverso lo sguardo degli artisti invitati che è possibile immaginare nuovi modi per vivere un territorio e non più considerarlo un luogo da abbandonare.
B.V. A Cielo Aperto pone in effetti l'accento sulla necessità di recuperare la vitalità delle aree interne attraverso l'attivazione di residenze artistiche. Questa esperienza è approdata quest'anno a Venezia come evento collaterale di Resilient Communities, la mostra del Padiglione Italia alla 17.Biennale Architettura, con il programma Per fare un tavolo. Arte e territorio (16). Quale ruolo gioca l'arte pubblica all'interno della vostra ricerca? E in che modo può mettere in relazione memorie culturali e collettive con le urgenze del presente?
B-V A Cielo Aperto, che curiamo insieme a Pasquale Campanella e sostenuto dall’Associazione Vincenzo De Luca, ha avuto inizio tredici anni fa, quando ancora la riflessione sulle aree interne non era ancora così centrale e diffusa. Con questo progetto abbiamo sperimentato e messo in atto nuove modalità di fare arte, attraverso una partecipazione attiva dei cittadini al processo artistico, con l’intento di ristabilire un legame più profondo con il territorio. In questa prospettiva, la produzione dell’oggetto in sé perde d’importanza, mentre diventa centrale la relazione che gli artisti invitati riescono a stabilire con il luogo e con la comunità.
Grazie all’esperienza di A Cielo Aperto e alla teoria che stiamo sperimentando dal 2001 sui viaggi e le influenze astrali, abbiamo compreso quanto fosse importante per l’artista creare legami con i luoghi e le persone, coinvolgere talvolta i cittadini al processo artistico e infine collocare l’opera in uno spazio pubblico, condiviso e senza barriere, con la possibilità per gli abitanti e per i passanti occasionali di poterne usufruire quotidianamente. È una pratica che abbiamo assunto sempre più nel nostro lavoro, talvolta coinvolgendo persone nello sviluppo dell’opera, talvolta relazionandoci ai luoghi, alla storia, all’architettura inserendo nel paesaggio delle frasi che incitano l’osservatore a fare delle riflessioni.
Anche nel caso del progetto Per fare un tavolo. Arte e territorio, nato quest’anno in seguito all’invito di Alessandro Melis a partecipare a Comunità Resilienti, il Padiglione Italia della Biennale di Architettura, abbiamo coinvolto numerose personalità provenienti da diversi ambiti disciplinari: sociologi, architetti, urbanisti, artisti, curatori, geografi. Tutti hanno contribuito, con una propria visione sulle aree interne e su una possibile emancipazione di questi territori, ad un intervento di arte pubblica con l’affissione di 34 manifesti nel centro storico di Latronico e con la pubblicazione di un libro, edito da Postmedia Books.
Nel libro, oltre alla riflessione teorica sulle aree interne, viene messa a fuoco la ricerca svolta sul campo da varie professionalità che hanno scelto di investigare nuove forme artistiche e progettuali in territori distanti dalle grandi aree urbane, rapportandole alle problematicità ma anche alle risorse di cui questi luoghi sono dotati. Operatività e sguardi nuovi, suggeriti anche dalla mostra dei manifesti affissi sui muri delle case del centro storico di Latronico, presenze silenziose nei vicoli semideserti, ma in grado di attivare riflessioni e nuovi immaginari in coloro che vi abitano o vi si imbattono occasionalmente.
B.V. Tornando all'ultima "edizione" di Costellazione di me (2018), qui lo spazio geografico si sfrangia insieme con l'identità individuale dei giovani migranti con cui avete sviluppato il progetto, il cui vissuto è stato lacerato da un allontanamento da casa e dagli affetti e da un approdo segnato da una burocrazia spesso ostile e alienante. Il video che ne è scaturito, in cui ciascuna persona coinvolta pronuncia ripetutamente un nome, sembra ricostruire lo spazio del sé prima in una dimensione più intima (con la ripetizione del proprio nome e cognome) e poi in quella più allargata dei legami familiari e affettivi (ognuno pronuncia il nome di qualcuno che gli è caro, ovunque si trovi nel mondo). Mi pare che l'idea originaria di Costellazione di me si sia trasformata nel tempo in base ai rapporti che quell'idea stessa ha poi intessuto con i contesti con cui di volta in volta vi siete confrontati. Che ruolo assume allora il "me" del titolo, che nel progetto del 2010 coincideva con il me della coppia Bianco-Valente?
B-V La nostra posizione nel mondo è data dalla rete di relazioni in cui siamo immersi, affetti intimi e conoscenze, persone lontane e vicine. Questa rete determina un legame non solo tra noi e gli altri individui ma anche tra noi e i luoghi.
Le varie versioni di Costellazione di me, dal 2010 al 2014, intrecciano visioni ed esperienze, quelle nostre e delle altre persone coinvolte nell’opera, tessono storie legate ai luoghi, tendono a recuperare una memoria collettiva e una propria identità.
Nel video Costellazione di me che abbiamo realizzato a Palermo, i migranti, inquadrati solo sulla parte inferiore del viso, pronunciano il loro nome e poi quello delle persone a cui sono più legate, gli affetti e la comunità che hanno lasciato, insieme ai nomi delle persone incontrate nel paese d’arrivo a loro più vicine, li ripetono come fosse un mantra, per affermare con forza la solidità di quei rapporti. Pronunciare tutti quei nomi serve a riposizionarsi nel mondo, a ricostruire la costellazione di persone a cui si è legati per non perdere l’orientamento, a riappropriarsi di una identità che viene persa al momento del loro arrivo in un paese straniero, dove da alcuni vengono considerati non più individui ma solo un problema da risolvere.
B.V. Il tema della relazionalità assume nei vostri lavori forme anche molto diverse tra loro. C’è per voi un rapporto tra le sperimentazioni sull'interazione uomo/natura-macchina – penso, ad esempio, a opere come Breathless (17), in cui un computer legge con la propria “voce” una vostra poesia, a Volatile (18), la cui proiezione di punti luminosi, attraverso alcuni comandi di base, simula il movimento degli stormi, fino a Convergenza evolutiva (19), realizzata per il MAXXI, che riprende il modello matematico di sviluppo di alcune specie arboree simulata parallelamente all’interno di una pagina web –, il lavoro sull'introspezione e sulla cognizione di sé nel fare i conti con la realtà esterna – mi riferisco in questo caso a Unità minima di senso (20), memorie recondite tracciate su un sottile e delicato nastro di carta lungo un chilometro e mezzo; a Relational Domain, in cui quella che sembra una rete neuronale si confonde con i tracciati delle rotte aeree a cui si fa riferimento nei nomi dati ai punti di intersezione delle linee, o a The Effort to Recompose My Complexity, in cui le linee tracciate sulle pareti della galleria, che si intersecano congiungendo immagini di ramificazioni organiche anche qui simili a cellule cerebrali, rappresentano appunto lo sforzo di restituire un’immagine di sé da una prospettiva interiore – e le pratiche partecipative messe in atto con i progetti Costellazione di me, Come il vento, Il libro delle immagini (21) e A Cielo Aperto?
B-V  Esiste un filo conduttore che lega tutti i lavori. All’inizio cercavamo di indagare le connessioni tra la mente e il cervello e tra realtà esterna e interiorità, poi le possibili connessioni tra il funzionamento cerebrale di un individuo e quello di una macchina, essendo interessati a rilevare le implicazioni etiche sull’esistenza di macchine intelligenti di cui diversi scienziati dell’epoca annunciavano la creazione. Se in questa fase del nostro percorso artistico eravamo concentrati a svolgere una ricerca da laboratorio, a un certo punto, anche in seguito alla sperimentazione legata al progetto dei viaggi e alle influenze astrali,  avviene un’apertura: Unità minima di senso (nastro sottile di carta su cui abbiamo trascritto le nostre personali esperienze a favore di una macchina che potesse leggerle e acquisirle) si dispiega in tutto lo spazio della galleria diventando The Effort to Recompose My Complexity, Relational sulle pareti degli edifici e successivamente Costellazione di me, dove si intrecciano i pensieri, i punti di vista, le visioni dei numerosi individui inclusi nell’installazione.
Stabilire connessioni diventa una pratica sempre più frequente, insieme al riconsiderare il ruolo dell’artista e dello spazio legato all’opera, spazio privato o spazio pubblico, opera destinata a pochi, studiosi e del settore, o a un pubblico molto più ampio.
 
Ottobre 2021
1) Bianco-Valente, Materia prima, carta geografica ripiegata e chiodo da 10 cm, 1994
2) Due volte all’anno, in occasione dei loro compleanni, Giovanna Bianco e Pino Valente compiono viaggi in diversi luoghi del mondo, esplorando la possibilità di influire così sul corso della propria vita. Il progetto fa riferimento alla teoria delle Rivoluzioni Solari Mirate elaborata nei primi anni ’70 da Ciro Discepolo, vd. Ciro Discepolo, Transiti e rivoluzioni solari, Milano, Armenia, 2004 e Daria Filardo in conversazione con Bianco-Valente, in Daria Filardo, Pietro Gaglianò, Angel Moya Garcia (a cura di), I Can Reach You, catalogo della mostra, Lucca, Tenuta dello Scompiglio, Lucca, Associazione Culturale Dello Scompiglio, 2016
3) Bianco-Valente, Tu sei qui, parete specchiante, 2014. Firenze, Cortile di Palazzo Strozzi, 2014
5) Bianco-Valente, Illimite, video, 2’49’’, musiche di Andrea Gabriele, 2014: https://www.youtube.com/watch?v=q9UNarsDFlE (consultato il 18 settembre 2021)
6) Bianco-Valente, Linea di costa, mappa nautica e filo di cotone rosso, 2014
7) Bianco-Valente. Terra di me, a cura di Agata Polizzi, evento collaterale di “Manifesta 12”, Palermo, Palazzo Branciforte, 23 giugno – 30 settembre 2018. Cfr. Bianco-Valente. Terra di me, catalogo della mostra, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2018
8) Bianco-Valente, Breviario del Mediterraneo, collage di strisce ritagliate da foto di cataloghi di viaggio, 2018
9) Predrag Matvejevic, Breviario Mediterraneo, Milano, Garzanti, 2004
10) Bianco-Valente, Relational Domain, installazione video a 2 canali, 2005
11) Bianco-Valente, Relational, cavi elettroluminescenti, 2009-2018
12) Bianco-Valente, The Effort to Recompose My Complexity, installazione, disegni digitali e carboncino su muro, Napoli, Galleria Alfonso Artiaco, 2008
13) Bianco-Valente, Costellazione di me (Constellation of Me), mostra nell’ambito di Common Spaces, a cura di Maria Teresa Annarumma, Molly Everett, Joo Yun Lee, and Kristine Jærn Pilgaard, New York, ISP, Whitney Museum @ The Kitchen, 23 maggio – 14 giugno 2014
14) Bianco-Valente, Costellazione di me / Constellation of me, video, endless loop, 2018
15) A Cielo Aperto è il progetto di arte pubblica che Bianco-Valente curano dal 2008 a Latronico (PZ) insieme a Pasquale Campanella, promosso dall’Associazione culturale Vincenzo De Luca. Vd. “A Cielo Aperto”: http://www.associazionevincenzodeluca.com/A_Cielo_Aperto.htm (consultato il 17 settembre 2021)
16) Cfr. Per fare un tavolo. Arte e territorio, a cura di Bianco-Valente e Pasquale Campanella, Milano, Postmedia Books, 2021.
17) Bianco-Valente, Breathless, installazione con schede elettroniche, CPU, software, voce sintetica, 2000
18) Bianco-Valente, Volatile, installazione computer based, software, videoproiettore, 2001
19) Bianco-Valente, Convergenza evolutiva, pastello a cera bianco su vetro e opera di Net-Art, 2010
20) Bianco-Valente, Unità minima di senso, biro su striscia di carta, 2002-2003
21) Bianco-Valente, Il libro delle immagini, Milano, Postmedia Books, 2020