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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Domenico ScuderoIcoPDFdownload

Da qualche tempo Zhenru Liang si sposta continuamente dal suo cerchio abitativo, prima Milano adesso Berlino, per trovare luoghi che possano costituire una sua azione. I suoi luoghi non sono mai eclatanti, semmai palesemente banali rispetto ad un monumento da enciclopedia dell'arte, ma costituiscono il centro del suo interesse. Luoghi in cui si consuma una normalità ancora legata ai cicli della natura, dove il mondo lo si vede per quello che è, i cui segni sono legati alle stagioni, alle settimane, nei cui confronti si dimostra attenzione e apprensione. Sono luoghi in cui sopravvive un solido fatalismo che esplode in ilarità colloquiale anche nelle avversità del tempo e della cronaca dei giorni. Luoghi in cui permane un diverso fluire della vita. Da cui si vede la natura e anche la città. Se ne identificano le forme e ci si rallegra quando il tempo è bello ma anche quando piove, perché la pioggia è la vita. Quando Zhenru Liang trova un luogo, dopo averlo ispezionato lo assume come spazio monumentale. Sottraendo quel luogo alla sua aperta neutralità, Zhenru Liang lo espone attraverso l'agire umano. Per farlo contatta ditte di forniture edili, proprietà terriere ed eventuali partner per poter attuare il progetto. Questo consiste nel costruire qualcosa e documentare la crew che lavora alla fabbrica della messa in opera. Quindi filmare la costruzione e l'opera compiuta, entro cui l'artista si lascia fotografare, e poi documentare lo smontaggio della scultura abitabile temporanea. I materiali d'uso vengono riconsegnati alla ditta, la crew si saluta e tutto svanisce senza lasciare tracce. La ciurma che ha assistito l'artista è usualmente composta dai proprietari del luogo e relativa famiglia, da prestatori d'opera occasionale e da chi guida il mezzo di trasporto. L'occupazione dello spazio natura è come un flash fotografico. Una invasione che ha costituito un brevissimo lasso di tempo permanenza rispetto alla continuità naturale, come un noioso frusciare di un insetto all'interno di un luogo di culto. Ma in questo fastidioso ronzio, che prende forma nelle energie obbligatoriamente messe in campo - trattare la gestione, caricare un camion, scaricarlo, costruire la struttura, disassemblarla, riporla sul camion e riconsegnarla alla ditta – per pochi minuti di completezza, troviamo la misura di una forma di adesione simbolica che in sé lascia il segno.
Il costruire/decostruire costituisce di certo quello che potremmo definire il capriccio della decostruzione, ovvero la dimostrazione che tutto ciò che ha inizio ha anche una sua fine. E noi sappiamo poco dell'inizio del tempo e della sua fine, ma sappiamo con certezza che in un frammento infinitesimale di questo tempo sia esistita sulla terra la specie umana e che ha avuto talmente successo da aver conquistato interamente la terra distruggendola come un  paesaggio al passaggio delle cavallette. In fondo è come se l'essere umano avesse volutamente tentato di domare la terra, martoriandola come fosse una palla di pongo inerte, ma la terra è molto più viva della specie umana. La terra si estinguerà frammentandosi quando il sole esploderà ma di certo l'epoca della civiltà dell'episteme sarà un misero nulla al suo confronto.
La prima seria domanda che mi pongo osservando le opere-azioni di Zhenru Liang è come possano essere interpretate, segni da gramma o sculture da design ecosostenibile? Azioni etiche o flash mondani? Ma poi credo che la soluzione sia nel suo costruire e decostruire in quanto simbolo dell'essere nei confronti del tempo. In questo tempo la simbologia dell'artista assume in sé la grammatica del segno, che con le nuove tecnologie accessibili è filmato dall'alto con un drone, da lì il costruire si legge come segno simbolo. In Heidegger il tempo ha una brillanza totale solo quando l'essere assume come facoltà di viverlo la metafisica (1); non so se una giovane artista originaria dalla Cina occidentale abbia davvero la facoltà linguistica di comprendere Heidegger come potrebbe farlo un berlinese, tuttavia sono sicuro che gli elementi base della sua lezione sull'origine dell'opera d'arte li comprende alla perfezione lì dove si scontra con la materia e il suo esercizio vissuto in prima persona. Il costruire e il decostruire diventano allora il campo di riflessione e di autocoscienza come forma autoctona di una verità, tra le pochissime, che possiamo unanimamente condividere, il fare. In fondo la ragione del fare è simultanea alla percezione cosciente, ed allo stesso modo lo è il decostruire. Quindi la coscienza dell'opera, la sua etica frammentaria si elabora nella percezione e svanisce in poche ore. Quasi non esiste, ma è stata esperita. Quella cosa è veramente esistita, ha coinvolto persone che si sono dette liete di farlo. L'esperienza dell'arte dimostra che molti hanno solo voglia di essere coinvolti nell'attività creativa e gli artisti sanno farlo (2).
Non bisogna poi dimenticare che il lavoro manuale è nella prassi artistica spesso quello più discreditato in seguito alla proliferazione di un'arte del "progetto", vissuto come compito manageriale, organizzativo. In Zhenru Liang questa atmosfera, di pianificazione del "bello" precostituito per le grandi cornici dell'arte contemporanea, risulta obsoleta. La sua è atmosfera privata, o in ogni caso confinata al semplice rapporto con chi ne condivide l'idea, l'immagine. Si tratta di un azionismo che ha la sua radice nel linguaggio didattico cinese ma che nelle campagne italiane, dalla Sicilia al Lazio, Toscana e Campania, riassume abbastanza fedelmente anche quel tratto di esperienza individuale di Dewey traslato in un'ottica ideografica. Poiché nel gramma dell'azione si situa la verità. Se il primo atto d'esperienza è quello di soddisfare la necessità della forma progettuale, il suo secondo atto è quello di documentare le fasi dell'esperienza poiché in fondo rappresenta il vero valore, in forma di tempo. Può darsi infatti che uno fra i componenti delle varie ciurme di aiutanti occasionali di Liang possa diventare un collezionista d'arte, un gallerista o addirittura un artista, ma di sicuro la maggioranza di loro avrà vissuto in prima persona un'operazione simbolica unica, culminata nella visione dall'alto, che nella cultura laica cinese è animismo svuotato da qualsiasi orpello e in cui quindi il segno va rivolto al cielo, l'aere del grande mistero della vita.
Ma il "gramma", ecosostenibile o temporaneo che sia, è comunque un segno e come tale destinato ad avere anche un suono ed un significato (3). Che non possiamo cogliere perché sarebbe come leggere una lettera "a" mentre siamo appesi dal suo serif inferiore.
Ad un aspetto più scientifico della questione si sottopone il ciclico fare/disfare in forma di simbologia. Una simbologia che potremmo spiegare in termini classicisti, nata dalle continue revisioni dell'archeologia del Winckelmann cui fa di rimando un'immediata conseguenza di questo simbolo a fase preparatoria del più concreto concetto univoco. Come forma simbolica il fare disfare non ha una identità se non sdoppiata nei vari personaggi che la interpretino, Sisifo a parte. Ma anche costui, nella sua fede smisurata, non coincide con la risoluta dinamica del costruire la forma di Liang e di certo ad uno sguardo un po' assente l'idea di un rimando al Friedrich del Viandante sul mare di nebbia sarebbe più appropriato. Eppure qui il simbolo vuole coincidere con la sua impossibile comprensione al di là della forma reale. Non si tratta infatti di voler cogliere le essenze reali attraverso la percezione com'era già nel romantico primo Ottocento, semmai è la volontà a rendere percettibile la vacuità di ogni coscienza così come la rappresentiamo oggi nella sua frammentazione. Qui rifacendo il percorso del simbolo prima costruttivo e poi distruttivo rimane un documento che è la contrazione di quel tempo e quella esperienza di cui la scrittura si occupa per poter tramandare in forma simbolica il suo accadere o la lezione che vuole impartire (4).
Ancora una volta ci ritroviamo di fronte la parusia dell'essere e di quale esercizio faccia per sopravvivere. Creare segni che siano caratteri. Sarà anche stato un semplice flash, realizzato però con le sembianze di quelle architetture/sculture, spesso di qualità dubbia e anche invasive, a volte addiritura deturpanti che dominano alcuni luoghi simbolici. Si è trattato di un brevissimo evento, ha sprecato pochissima energia, ha costruito una "scultura da vivere", ma solo per pochi minuti, poi è stata disassemblata. Che la simbolica traiettoria segnica di costruire/decostruire sia il nulla, d'altra parte non possiamo neanche dire. In primo luogo c'è un documento in cui è iscritta. Ma di quella forma ci rimane il suo contorno perché non ne abbiamo esperito la presenza, quindi sarà una costruzione del tutto immaginifica di un simbolo il cui segno possa essere visto dall'alto. Dall'alto come? Passando casualmente da lì con un jet privato, un elicottero, in deltaplano? Oppure con l'occhio tecnologico del potere che ci rende tutti simili ad un Forrest Gump dentro la distopia scenica del nostro quotidiano? La sua forma appare evanescente, svogliata, sbiadita, scolorata, candeggiata, un bianco vuoto. La coscienza appare così come un inedito spunto divinatorio ammantato dal silenzio dell'interdizione a spiegarlo. Il gramma fotografato dall'alto soggiace estemporaneo come un'azione scultorea di Robert Barry realizzata col gas invisibile, o come la Piramide invisibile di De Dominicis, anch'essa disegnata nella comprensione cosciente ma del tutto evanescente. I materiali che hanno composto il segno ad esclusivo miraggio di un occhio elettronico che vede dall'alto sono ritornati alla fase di acquiescenza nel loro deposito, la terra smossa dal lavorio della costruzione è riassestata con leggeri sgambettii da chi governa la proprietà. Tutto intorno tace in un silenzio grande e aurale.

Con il sostegno di TrinArt, Fondazione con il Sud, Impresa Nato, SerediPa B&B.

Aprile 2022
1) Martin Heidegger, "La coscienza come chiamata dalla cura", Essere e Tempo, Nuova edizione Italiana a cura di Franco Volpi, Traduzione di Pietro Chiodi, Longanesi, Milano, 1971 (1927), pagg. 328-324.
2) Cfr. John Dewey, Art as Experience, Penguin Book, New York 2005 (Balch & Company, Minton, New York, 1934).
3) In Jacques Derrida, “La scrittura prima della lettera”, Della grammatologia, ed. It. a cura di G. Dalmasso,  Jaca Book, Milano, 2020 (1969) (ed. or. De la grammatologie, Les Edition du Minuit, Paris, 1967).
4) Il ritorno all'origine non è una coazione a ripetere nelle ricerche del contemporaneo ma ha una netta origine dal tono illuminato nel Winckelmann. La sua opera sebbene mostri anche qualche vistoso difetto è comunque un carattere metodologico che continua a permeare il sistema dell'arte sino ai nostri giorni nella vacua convinzione dei cicli e dei ritorni di stile, sebbene poi se ne intuisca comunque il tratto strutturalmente impossibile. Cfr. Winckelmann, Johann Joachim, Gedanken über die nachahmung der griechischen Werke in der Malerei und Bildhauerkunst (1885), (ed.it., Opere di G.G. Winckelmann. Prima edizione italiana completa, Prato, per i Fratelli Giachetti, 1830-1834, 12 voll. più 1 vol. di tavole).