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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Domenico Scudero in un dialogo con Teresa Macrì a proposito del suo ultimo libro Fallimento

DS Il tuo ultimo libro, Fallimento, si apre con una precisazione che delimita il campo e sgombra il terreno dalla possibile interpretazione banalizzata del concetto stesso di fallimento. Tuttavia la mia curiosità, nata dalla frequentazione di un ambito che oggi risulta inattuale, la critica d'arte, è sintomo stesso del termine fallimento. Bourriaud, Groys, tu e pochi altri lavorate con il linguaggio del sapere più esteso per rifondare la riflessione della critica sull'arte. Il paradosso del tuo libro, che apre interessanti scenari, è che la letteratura sull'arte oggi sia sempre figlia di un fallimento, anche se poi noi che ne siamo produttori ne riconosciamo la validità.

TM
Era inevitabile che nell’epoca della ipertrofia delle immagini, il pensiero critico subisse un appiattimento, cedendo all’infotainment. Non credo però alla debâcle della critica, perché come Hannah Arendt sono convinta che “Chi critica ha a cuore il mondo perché prende sempre partito per esso” e dunque non depone le armi alla sua banalizzazione. Fino a quando i libri della Krauss, di Foster, di Bourriaud, Groys, Didi-Hubermann, e altri circoleranno nelle Università e nelle Accademie  la critica d’arte manterrà la sua vitalità. Per chi ha a cuore il mondo, la grande scommessa del presente è rappresentata dall’educazione e dalla formazione, attraverso cui si sviluppa il sapere.  I Musei, le Biennali, le Triennali sono fuori da questa sfida per il futuro poiché non sono più assimilabili a “luoghi di cultura”. Sono divenuti ciò che Bourdieu definisce “campi del potere” ossia luoghi di rappresentazione del potere finanziario e del narcisismo personale. Non aspirano più alla produzione di immaginario culturale ma alla compiacenza mediatica, dunque da questo punto di vista hanno ampiamente fallito!

DS Spesso la messa in scena di un fallimento in arte costituisce un richiamo troppo evidente per poter essere ignorato e che poi produce significati diacronici. Mi riferisco al caso di Sislej Xhafa che a distanza di vent'anni esatti dalla sua apparizione clandestina presso i giardini della Biennale di Venezia si ritrova adesso sempre alla biennale ma in atteggiamenti che appaiono oltremodo imbarazzati. Il nostro presente è molto diverso dal tempo in cui Broodthaers rivelava il suo fallimento e dagli anni in cui la vita performance di Bas Jan Ader si eclissava nel vuoto e nel mistero. Ricordando Xhafa nel 1997 col suo pallone, del tutto ignorato e quasi considerato burlescamente folle dallo stesso pubblico che adesso lo assedia con telecamere, microfoni e plauso, mi viene da pensare che oggi l'opera esista senza condizioni, per l'appunto che tutto ciò segni il paradigma di una mortalità critica contro cui solo pochi riescono a battersi per ridarvi nuova linfa.

TM Il caso di Sislej Xhafa è esemplare. Venti anni fa si era “introdotto” alla Biennale di Venezia da outsider con Padiglione Clandestino visto che la geografia veneziana ignorava l’Albania. Oggi la geopolitica attesta l’esistenza del Kosovo. Bene, ma cosa è cambiato realmente nella politica migratoria europea e qual è lo scarto culturale nell’immaginario collettivo dopo decenni di dibattito schizofrenico tra eccessi di buonismo inefficiente e rigurgiti razzisti? L’installazione Lost and Found di Xhafa, a Venezia, ribadisce l’ennesimo fallimento e che sia l’arte a prendersi l’onere di rappresentarlo è davvero sconfortante per la politica, come ribadisce Rancière. Quindi largo ai vari Alÿs, Deller, Bas Jan Ader, Superflex…

DS Molti degli artisti che hai preso in considerazione manifestano apertamente una modalità di resistenza utopica alla palese distopia contemporanea. Allo stesso modo, però, la banalità dell'esserci di determinate azioni artistiche o la semplice visione di opere a queste connesse, restituiscono comunemente l'idea di una marcata provvisorietà del segno e un'allusiva aleatorietà del gesto artistico; mi riferisco ad esempio ad alcune azioni di Francis Alys di cui hai parlato spesso, ma la stessa cosa può vedersi in alcuni lavori di Orozco, Deller... La critica in questi casi può solo appoggiarsi ad una letteratura altra, dalla sociologia alla filosofia, optando per un'appartenenza concettuale che però non è mai riconosciuta dalle altre discipline. Se la critica dovesse fiancheggiare metodologicamente l'azione artistica in questi casi sarebbe un mero balbettio privo di senso. L'interrogativo che mi pongo a questo punto è capire in che modo la critica possa costruire un discorso che riesca a divenire parte dell'azione culturale e non rimanere invece un disegno avulso dalla comunicazione.

TM E’ acclarato che la critica d’arte contemporanea viva una sua totale autonomia, nonostante il paradigma visuale venga analizzato attraverso una serie di strumenti traslati dal pensiero filosofico strutturalista, post-strutturalista, dalla psicanalisi e altro ma, sostanzialmente, affermandosi come disciplina afferente ai Cultural Studies. E’ una analisi globale che inserisce l’opera d’arte nel “campo intellettuale” ma anche nel “campo politico”.  Per me è assolutamente impossibile prescindere dal pensiero di Hall, Arendt, Lacan, Foucault e altri (con cui mi sono formata) nell’analisi di un artista, di una opera e comunque dell’arte contemporanea. La critica d’arte, dopo Rosalind Krauss e October, ha acquisito, fortunatamente, questa imponente dimensione analitica.

DS Durante la recente inaugurazione di Documenta, Thierry Geoffroy Colonel ha affisso alcuni poster abusivi che riportavano la scritta "Documenta is the Botox of capitalism". Al di là del singolo gesto artistico, la pratica del contemporaneo e le sue manifestazioni complesse sembrano avviate ad una radicalizzazione speculativa inarginabile. Se paragoniamo l'ambientazione delle attuali biennali o di altre mostre periodiche al paesaggio di qualche decennio fa ci si accorge che la "gentrification" delle mostre sospinge anche gli artisti più radicali e fondanti alla deriva economico finanziaria; traduce inoltre il contesto della militanza in pubblico pagante e costruisce inderogabili gerarchie supreme contro cui il singolo artista non può competere. Durante l'inaugurazione della Biennale di Venezia nel 1969 gli artisti erano schierati per l'affermazione di qualcosa, oggi sono al più schierati in maniera inoffensiva in vesti militari e i loro messaggi di pace e di umanizzazione sono celati dietro divise antisommossa, come nella performance di MOTA che si è svolta presso i giardini (Venezia 2017) nei giorni dell'opening.

TM Penso, e vorrei sbagliarmi, che l’idea di kermesse (così come attualmente si manifesta) è completamente usurata proprio nel suo DNA. Non ha la radicalità di When Attitude Become Form, di Documenta 5 e non c’è un visionario come Harald Szeemann che la reifichi. Questi “grandi eventi” sono oramai dei riti collettivi confezionati esclusivamente per il consenso e per l’autocelebrazione, perciò disidentificati e privi di rischi e in cui il concetto di fallimento viene totalmente rimosso. La retorica strumentale e ripetitiva è spesso il filo che lega e connette artisti e opere selezionate. Ma c’è ancora di peggio e di tossico: il vuoto assoluto del pensiero critico. L’edizione di quest’anno della Biennale di Venezia, nella cura di Christine Macel, è l’affermazione del nulla, l’annientamento della riflessione per il trionfo del rappresentazione ludica. Ma qui la responsabilità è palese: è la Macel che ha fallito non la critica.

DS Alla fine mi sembra di capire che l'idea del fallimento in arte e negli artisti sia da potersi declinare come un obbligo; l'arte quando è tale non è ripetizione di qualcosa ma introspezione nell'al di là delle cose, e la sua natura contemporanea è proprio nel rischio che impone di assumersi. Allora, gli artisti sono tali quando sublimano questo rischio, e lo espongono senza timore né delle critiche

né del giudizio...

Teresa Macrì, Fallimento, Postmedia, Milano, 2017

Luglio 2017