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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435


Stefano Boccalini
in conversazione con Lucilla Meloni
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La ragione nelle mani è il titolo del progetto di Stefano Boccalini che nel 2020 è stato tra i vincitori dell’ottava edizione dell’Italian Council, bando a supporto dell’arte contemporanea italiana nel mondo promosso della Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura.
La Comunità Montana di Valle Camonica e Art for the World Europa, che sono stati gli enti proponenti del progetto, hanno strutturato una serie di eventi per promuovere il lavoro dell’artista.
Lo scorso 31 marzo alla Maison Tavel/Musée d’Art et d’Histoire di Ginevra, per la cura di Adelina von Fürstenberg, è stata inaugurata una mostra, dove si può vedere il risultato di questo complesso progetto. Nei prossimi mesi sono previsti una serie di incontri dove sarà presentato il libro, curato da Alessandra Pioselli, che racconta il progetto e riflette sui temi che lo hanno caratterizzato. Quindi Art House a Scutari in Albania, Sandefjord Kunstforening a Sandefjord in Norvegia, la Fondazione Pistoletto Onlus, l’Accademia di Belle Arti Bologna e il MA*GA – Museo Arte di Gallarate, daranno spazio e visibilità a questo lavoro. A conclusione di tutte queste attività, l’opera entrerà a far parte della collezione della GAMeC, Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea Bergamo.
Lucilla Meloni. Il titolo offre subito una chiave di lettura del lavoro, che è un’ulteriore tappa di un percorso che hai intrapreso da tempo, legato ad alcune attività artigianali del territorio della Valle Camonica e alla messa in valore del rapporto tra arte e artigianato, quanto alla partecipazione degli abitanti del luogo: in questo caso sia bambini che artigiani. Come nasce e come si è sviluppato il progetto?
Stefano Boccalini. Per capire come è nato e come si è sviluppato questo progetto bisogna tornare al 2013, in quell’anno sono stato invitato da Giorgio Azzoni, direttore artistico di Aperto art on the border, una manifestazione di arte pubblica che mette in rapporto l’arte contemporanea con il territorio Camuno sostenuto dalla Comunità Montana di Valcamonica attraverso il Distretto Culturale, a partecipare a una residenza per produrre un lavoro che, ispirandosi al tema dell’acqua, riuscisse a legarsi al territorio. La residenza è durata qualche settimana, un tempo che mi ha dato l’opportunità di scoprire un luogo a me non del tutto sconosciuto, ma che in passato avevo frequentato solamente da turista.
Questo spostamento di sguardo è stato fondamentale, e negli anni la Valle Camonica è diventata un punto di riferimento per il mio lavoro: qui ho lavorato con varie comunità, con le istituzioni locali e con alcuni artigiani con cui ho creato uno stretto rapporto di collaborazione e di scambio. A partire da questi rapporti ha preso forma La ragione nelle mani, un progetto che si muove su due livelli, quello del linguaggio e quello dei saperi artigianali, attraverso il coinvolgimento della comunità locale. 
Il lavoro ha preso il via con un laboratorio, sulle parole intraducibili che ho tenuto insieme alle operatrici della Cooperativa Sociale il Cardo di Edolo, a cui hanno partecipato tutti i bambini di Monno. Poi ho coinvolto due artigiane, due artigiani e otto tra apprendisti e apprendiste selezionati attraverso un bando pubblico, promosso dalla Comunità Montana di Valcamonica e rivolto ai giovani della valle interessati a confrontarsi con alcune pratiche artigianali: la tessitura dei pezzotti, l’intreccio del legno, il ricamo e l’intaglio del legno.
Queste tecniche continuano a sopravvivere ma stentano a creare nuove economie, nuove risorse, quando invece potrebbero offrire l’opportunità ad alcuni giovani di costruirsi un futuro all’interno delle proprie comunità, investendo sul territorio. Ripartire da una condizione locale, come possibile modello di sviluppo, ci permette di guardare alla “diversità” che il territorio sa esprimere, e alla ricchezza che questa offre, come a uno spazio progettuale dentro il quale costruire nuove forme di lavoro da contrapporre a un sistema produttivo, omologante.
L.M. La pratica di relazione che hai spesso perseguito nella tua ricerca qui si snoda su più livelli, a partire dall’uso del linguaggio: le parole che compongono le opere, provenienti dalle Filippine, dalla Corea, dalla Norvegia, dagli aborigeni australiani e dai nativi nordamericani, dall’Africa meridionale, da idiomi arabi, dalle Haway, dalla Finlandia e intraducibili in altre lingue, esprimono tutte concetti relativi allo stare in un certo modo nel mondo, al sentire, al sentirsi. Hai avvertito la necessità di porre al centro dell’attenzione il linguaggio, che definisci come un “luogo”, di ripartire da un suo uso collettivo più consapevole?
S.B. Viviamo in un’epoca in cui le parole sono diventate un vero e proprio strumento di produzione e di captazione di valore economico, e hanno assunto una dimensione sempre più importante all’interno del contesto sociale.
Da molti anni la parola è protagonista del mio lavoro, una parola che si trasforma in materia e prende forma dalla sfera pubblica. Attraverso la fisicità con cui la metto in scena risulta un vero e proprio dispositivo di comunicazione e diventa un momento di riflessione su tematiche che riguardano tutti, a partire da quelli che consideriamo “i beni del comune”.  Attraverso il loro uso cerco di ridare peso specifico e valore collettivo al linguaggio, che per me è il “luogo” dove la diversità assume un ruolo fondamentale, diventando il mezzo con cui contrapporre al valore economico il valore “del comune”.
Le parole che ho utilizzato in questo progetto sono parole intraducibili e parlano del rapporto tra gli esseri umani e del loro rapporto con la natura e arrivano da lingue diverse, molte delle quali minoritarie che a stento resistono all’uniformazione. Sono parole che non hanno corrispettivi in altre lingue e quindi non possono essere tradotte ma solamente spiegate con dei concetti. Nel rischio della loro scomparsa vi è la cancellazione permanente della ricchezza legata a quella biodiversità linguistica che queste parole intraducibili hanno la capacità di esprimere in modo così efficace.
L.M. Mi voglio a questo punto soffermare sui lavori. L’impiego dell’idioletto, perché hai scelto termini esclusivamente propri a una collettività, lontano da un approccio logico-linguistico o sociologico, evoca gli ambiti degli affetti, quanto le condizioni storica, politica, economica che viviamo da punto di vista individuale e sociale. Sono poi le materie che li compongono e la loro lavorazione tipica della zona: ricamo a “punto intaglio”, legni intrecciati, legni intagliati, “pezzotti” cioè tappeti tessuti a mano, a conferire loro un peculiare carattere, mentre si intuisce la durata lenta del processo compositivo. Insomma, coniughi qui un elemento fortemente identitario, quale l’artigianato locale, con un’idea di diversità veicolata da parole sconosciute e intraducibili, se non attraverso un concetto. Questa dialettica che cosa sottende e quali valori auspichi che possa veicolare?
S.B. Come dicevo in precedenza le parole intraducibili, che ho utilizzato per questo progetto, parlano del rapporto tra gli esseri umani e del rapporto con la natura. Il luogo dove La ragione nelle mani ha preso forma è un territorio montano, decentrato, una valle Alpina, dove la natura ha un forte impatto sui ritmi della quotidianità e dove le varie comunità hanno ancora la capacità di riconoscersi attraverso un’identità territoriale. Il legame che c’è tra questo luogo e alcune parole che arrivano da lingue lontane e minoritarie sta, ancora una volta, in una parola: biodiversità. In un territorio come quello della Valcamonica la biodiversità appartiene alla natura, come lo dimostra il fatto che è considerato uno tra i territori europei con la più alta biodiversità vegetale, ma passa soprattutto attraverso i saperi che sa esprimere, saperi che sono a rischio perché non più in grado di reggere il confronto con una contemporaneità che tende sempre più verso l’omologazione. Nelle parole intraducibili, che ho utilizzato, si riflette una biodiversità che in questo caso è linguistica, e che è a rischio. Se spariscono le parole, si perdono i saperi. Allora, la biodiversità diventa per me il “luogo” dove trovare nuove alleanze per preservare quella “complessità” di cui abbiamo bisogno per salvaguardare il futuro delle generazioni che verranno.
L.M. Negli anni hai realizzato diversi interventi sul territorio. In una conversazione con Christian Marazzi avete parlato della tua pratica relazionale come “Arte del comune”, a indicare anche un passo diverso rispetto all’Arte pubblica. Mi puoi spiegare questo passaggio?
S.B. In quella conversazione Christian Marazzi cercava un punto di incontro tra il suo lavoro di economista e il mio lavoro di artista e lo ha identificato nel linguaggio e scriveva così: “potremmo iniziare questa conversazione a partire dal punto di incontro tra il mio lavoro e il tuo: il linguaggio, che per quanto mi riguarda segna un punto di svolta verso la nuova economia, il nuovo capitalismo che oggi chiamiamo digitale oltre che finanziario, e che nel tuo lavoro di artista segna un passaggio importante che ti pone un passo oltre l’Arte Pubblica, verso quella che in una precedente conversazione avevamo definito come Arte del Comune”.  E ancora: “Quello che vedo nel tuo lavoro si riassume bene in un’espressione di Paolo Virno quando dice: il verbo si fa carne. Nel tuo caso il verbo si fa materia, si fa intervento sul territorio, si fa intervento nello spazio pubblico ma in quanto tale lo supera perché nello spazio pubblico la parola fatta carne, fatta scultura diventa la materia del comune, e molte delle tue opere vanno esattamente in questo senso.”.
Quello che tu indichi come un passo diverso rispetto All’arte Pubblica è per me uno spostamento di sguardo dove metto al centro del mio lavoro la parola, e questo non avviene a caso perché credo che oggi il linguaggio sia un elemento centrale nei processi di sviluppo economico e sociale. Allora la parola, nel mio lavoro, diventa la “materia del comune” e si risignifica alla luce del contesto in cui prende forma. Parlare di Arte del Comune significa, per me, mettere al centro della ricerca artistica un pensiero che guarda alla collettività.
L.M. Come dicevi in precedenza nel 2013 è iniziato il tuo rapporto col territorio della Val Camonica, da una residenza sul tema dell’acqua: il tuo intervento PubblicaPrivata, è tuttora visibile nelle acque del fiume Oglio. A breve sarà inaugurato a Monno il Centro di Comunità per l’Arte e l’Artigianato della Montagna, di cui sei stato nominato Direttore artistico. Come sarà strutturato questo Centro e cosa si prefigge di fare?
S.B. Ca’Mon, così si chiamerà, avrà sede nel vecchio asilo in fase di ristrutturazione a Monno, un piccolo paese dell’alta valle che conta circa cinquecento abitanti. Sarà un centro di scambio tra saperi intellettuali e saperi manuali, ma anche un luogo di formazione, dotato di spazi adibiti a laboratorio dove lavoreranno artigiani, artisti e giovani della valle. Ospiteremo in residenza artisti e più in generale autori e ricercatori, per attivare un confronto con il territorio e i suoi saperi. Ma non sarà solo questo, il centro diventerà anche un luogo dove la comunità potrà riconoscersi e dove sarà possibile riportare alla luce tutti i temi legati al passato, utili alla costruzione del futuro e momentaneamente messi in disparte, che potranno trovare le condizioni per rigenerarsi e assumere nuove forme: un laboratorio permanente di sperimentazione e di ricerca che, a partire da una condizione locale, vuole contrapporre la cultura della diversità e della biodiversità all’omologazione cui tende la società contemporanea.
L’obiettivo è quello della trasmissione dei saperi, secondo una logica di condivisione per cui le tradizioni non assumono un senso nostalgico, ma diventano la porta di accesso al futuro, sarà un “luogo” dove immaginare nuovi scenari.
aprile 2021