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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Interpretare il passato coloniale nel presente predisponendosi al futuro
Patrizia Mania
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Nella sede del Museo delle Civiltà all’EUR a Roma si è da poco inaugurato un nuovo allestimento intitolato il “Museo delle opacità” che, museo nel museo, contrappunta alcuni dei suoi immensi spazi con oggetti e opere d’arte di varia natura, ivi compresi alcuni progetti in corso, accostati e posti in dialogo con testimonianze per lo più provenienti dall’ex Museo delle colonie (1). Curiosa nemesi quella di un museo soppresso che, dopo rimaneggiamenti, cambiamenti di sede e di nominazione - fu infatti chiuso nel 1971 e le sue collezioni a partire dal 2017 sono divenute parte del Museo delle civiltà - viene ospitato da un altro museo. All’operazione di presentare un museo nel museo può per certi versi riconoscersi un precedente storico nel progetto artistico siglato nel 1968 da Marcel Broodthaers e che ebbe una durata in itinere di quattro anni qualificandosi come un’opera in forma di museo. Benché non possa dirsi che il Museo delle opacità ne sia una sua diretta filiazione, in alcune delle sue prerogative ne ricalca lo spirito.  L’interrogazione critica sul potere e i suoi simboli su cui fondava il suo excursus l’artista belga è infatti comparabile alla rielaborazione critica dell’eredità culturale del passato coloniale allestita in questo più recente progetto. Molte d’altro canto le differenze, basti innanzitutto osservare che mentre l’opera Musée des Aigles di Broodthaers era un museo di sua stretta e assoluta paternità intitolato alle aquile e volto ad indagare in una esperienza in divenire l’immagine dell’aquila come simbolo universalmente accettato di dominio, autorità, potere, e da lui eletta a grimaldello per svolgere con accurata acutezza la sua critica alle istituzioni; qui il progetto è corale, curatoriale, non strettamente riconducibile ad un solo artista e concerne  la complessità di guardare al passato coloniale e alla comprensione dell’”alterità” tentandone un avvicinamento eteroclito. Dunque non diacronicamente indirizzato a un simbolo ma a un’epopea e alle nozioni che l’hanno accompagnata.
Nello specifico di questo progetto, la trama ordita, non conclusa ma pensata in itinere – dunque aperta a ulteriori integrazioni che potranno sostituire o affiancare gli allestimenti attuali –, descrive le “opacità” a cui è intitolato da un duplice punto di vista. Da un lato, il riferimento fattuale è alle rimozioni connesse proprio all’ ex museo delle colonie. Un patrimonio “scomodo” reso, come detto, silente, depositato e chiuso per più di cinquant’anni, e così divenuto nel tempo inerte e imperscrutabile. Da un altro punto di vista invece, le opacità richiamate intendono riferirsi e iscriversi nel pensiero di Édouard Glissant, che ha teorizzato e rivendicato nel “diritto all’opacità” (2) un passaggio di registro cruciale per guardare all’alterità. Un pensiero, il suo, fondato sulla condivisione dell’alterità e quindi in grado di accoglierne le opacità e così sottrarsi ai diktat del pensiero monolitico e gerarchico della trasparenza.
Su queste premesse si snoda un articolato percorso che solleva di continuo domande evidenziandone problematicità ed aporie. Lungo un tragitto che convive con le più recenti sistemazioni del museo innestandosi e disponendovisi accanto senza cesure nette, il nuovo allestimento delineato dal team di ricercatori, curatori e artisti mette infatti in dialogo le collezioni del museo con alcune significative riflessioni portate avanti dalla ricerca artistica contemporanea. In questa dialettica che si fa sestante del percorso, proprio all’arte è demandato il compito di suggerire le possibili rotte da seguire per raccontare sia alcune delle opere e dei documenti delle collezioni dell’ex Museo coloniale di Roma che, nell’osservazione dell’”altro”, il cambio di prospettiva auspicato da Glissant.
Due piani distinti che mi sembra convergano efficacemente e in maniera stimolante nelle scritture espositive proposte.  
Il colonialismo dal volto buono, “gli italiani brava gente”, la vulgata secondo la quale il colonialismo italiano sarebbe da considerarsi di natura diversa e migliore rispetto a quello di altre potenze europee, stenta ancora ad essere contraddetta. Nonostante la recente storiografia ne abbia denunciato e analizzato le tante zone d’ombra, i quasi cento anni di storia coloniale italiana in Africa sono un retaggio non ancora pienamente elaborato. Ed è proprio in questo allestimento da riconoscersi un contributo alla sua comprensione. A riguardo, a chiusura del percorso, il docufim Inconscio italiano girato nel 2011 da Luca Guadagnino fornisce, attraverso interviste rivolte a storici, antropologi e filosofi, interpolate nel montaggio a spezzoni di documentari propagandistici sull’impresa coloniale tratti dall’archivio dell’Istituto Luce, una circostanziata e demitizzante analisi, o psicanalisi, che smonta nozioni passivamente acquisite.
Tornando alle testimonianze dell’ex museo coloniale, lo scopo che si persegue è dunque indirettamente di disvelarne alcune delle tante opacità conseguenti il seppellimento e le difficoltà di rilettura del suo patrimonio. È la prima volta dalla data della chiusura che la sua materia incandescente viene chiamata in causa in un contesto espositivo al fine di scovare nei tanti meandri della sua fisionomia segni e significati utili alla rielaborazione di quel passato rimosso ma persistente. Un “passato” del quale non a caso si è detto “che non passa”.  
Come si accennava, nel proposito di costruire un’interrogazione intorno al tema è stato progettato un piano di ricerca di interlocuzione ampia e dialettica. Il “Museo delle opacità” ha infatti una paternità collettiva e in divenire, alla cui gestazione e costruzione hanno concorso oltre che il direttore del museo delle civiltà, Andrea Viliani, curatori, curatrici, artiste e artisti, studiosi e studiose provenienti da ambiti disciplinari diversi, accomunati dal condiviso intendimento di vagliare un passato rimosso aprendo a nuove prospettive d’indagine. Ed in questo suo definirsi, accanto alla scoperta di tangenze con la ricerca artistica contemporanea, si sono dissotterrate alcune eloquenti testimonianze facenti parte del patrimonio dell’ex Museo delle colonie. Si tratta, è il caso peraltro di sottolineare, di un patrimonio immenso che, attualmente in corso di ricatalogazione, consta di circa 12000 oggetti tra cui si annoverano reperti archeologici, opere d’arte, manufatti artigianali, merci, sementi, strumenti scientifici e tecnologici, carte geografiche e dispositivi allestitivi. Tutto quanto è stato nel tempo utilizzato per propagandare l’ideologia stessa del colonialismo.  
Il metodo seguito nel rimettere in circolo questa messe enorme di oggetti e apparati non è né “filo” né “mono” logico, privilegia piuttosto il filo rosso di accostamenti eterocliti, di suggestioni e riflessioni ad ampio raggio che tanto più proprio perché non pedisseque si mostrano straordinariamente significative nel dar anche conto di quanto scarsa sia stata fino ad oggi l’attenzione critica al passato coloniale. Nello stesso tempo, ed è più che un valore aggiunto, proprio l’esposizione di alcuni oggetti provenienti dal deposito di questa collezione, quasi degli scarti testimoniali, posti in dialogo con progetti artistici collimanti, fa di quel che ne deriva, nelle suggestioni battute e nelle aporie individuate da chi ne ha pensato la cura, un efficace strumento di sollecitazione alla riscrittura storica tanto più utile, è il caso di sottolineare, nel mutato orizzonte odierno. I tempi tra l’altro si devono ritenere finalmente maturi per prendere le distanze e analizzare con pertinenza documentaristico- storica e artistica la stratificata complessità dell’avventura coloniale italiana.
Sempre che sia lecito parlare di avventura per una vicenda che con alterne fortune si è snodata per quasi un secolo per poi essere messa da parte. Su di essa è calato per troppo tempo il sipario. Porla oggi sotto i riflettori e interpolarne le tracce con la riflessione decoloniale attuata parallelamente all’indagine storiografica anche dall’arte aggiunge proficui nuovi sguardi. È utile peraltro rimarcare come proprio in virtù della sua potenza di fissione, la ricerca artistica qualifichi e quantifichi il portato di necessità e rilevanza delle questioni. Non c’è dubbio che, negli specifici orditi proposti da questo progetto, proprio la coabitazione e l’attrito di cimeli e arte contribuisca a formare una inedita consapevolezza di quel passato.
Entrando nello specifico delle rotte tracciate, e passando al setaccio qualcuna di queste proposte, colpisce all’ingresso una scala monumento che è la copia, sia pur essenzializzata, della scala costruita durante il Fascismo ad Addis Abeba per celebrare simbolicamente l’epopea coloniale nel corno d’Africa: ognuno dei 14 gradini corrispondeva infatti a un anno dell’era fascista (dal 1922 al 1936). Ispirato a questa scala, il lavoro di Jermay Michael Gabriel si intitola Yekatit 12 cioè “19 febbraio” una data a sua volta simbolica della strage di Addis Abeba compiuta tra il 19 e il 21 febbraio 1937 come rappresaglia a seguito dell’attentato per mano di due oppositori all’occupazione italiana (Abraham Deboch e Mogus Asghedom) al viceré d’Etiopia Rodolfo Graziani. Le vittime della micidiale rappresaglia furono migliaia, se ne stimano 19000. Si è trattato di uno dei momenti dunque più nefasti della storia coloniale. Il monumento originario fu inaugurato nel ’37 e per volontà di Benito Mussolini e dello stesso Graziani avrebbe dovuto commemorare quei fatti nel frattempo avvenuti dandosi come monito. Sappiamo che dopo alcuni anni quando il Paese fu finalmente liberato e il sovrano spodestato Hailé Selassié potè farvi ritorno, egli stesso fece porre al vertice di quella scala il Leone di Giuda simbolo dinastico dell’Impero etiopico. Uno scarto semantico che ne consentiva l’appropriazione simbolica. Proprio dagli occhi del leone, nell’opera di Jermay Michael Gabriel, fuoriescono due fasci di luce proiettando sulla parete antistante frammenti filmici dell’occupazione italiana e coagulando strati di memorie divergenti. Accanto a quest’opera, specchia i dialoghi tra arte contemporanea e testimonianze dell’ex museo coloniale la presenza di un eloquente cimelio: una bandiera che fu sottratta da alcuni italiani al consolato abissino di Gibuti e che riporta una loro dedica manoscritta al maresciallo Rodolfo Graziani: “…offrono questa bandiera tolta dal pennacchio del Consolato abissino il giorno 21 febbraio 1937 XV alle ore 14,45 per ammonire i nemici d’Italia che l’impero del Negus è morto per sempre e Graziani è sempre vivo per la sicurezza e la fortuna dell’Impero d’Italia”. Nel percorso allestitivo non è il solo richiamo a quel tragico momento. Vi ritorna un’altra ricerca: Note su Zeret (2015) di Rossella Biscotti. La documentazione di una specifica memoria delle stragi compiute in quella circostanza che attraverso una serie di 16 fotografie scattate nella grotta di Zeret testimonia il materiale residuale della resistenza etiope, di ciò che ne rimane oggi in un luogo conservato come un memoriale. Questa grotta servì infatti da rifugio ad un gruppo di resistenti etiopi dei quali fu fatta strage per rappresaglia all’attentato a Graziani. Nella grotta di Zeret c’è ancora traccia dell’organizzazione del quotidiano di quei resistenti etiopi e su quelle tracce lo sguardo di Biscotti indugia, mettendo a fuoco testimonianze ignorate per lungo tempo dalla narrazione storica.
Tornando all’opacità, ci si è misurati come si è detto anche con il paradigma di osservazione glissantiano. Da questo punto di vista, nell’accogliere il visitatore all’ingresso delle collezioni di Arti e Culture Africane è di forte impatto, specificamente coincidente con la trama del percorso rispetto alla quale si dà come aggiuntiva, la grande sfera nera Gnosis di Sammy Baloji (3). Quasi un mappamondo, sulle sue superfici si rispecchiano, oltre il luogo fisico che la ospita, i corpi e i movimenti di chi vi si accosta. Eludendo la cartografia univoca di rappresentazione ideologico politica del mondo (presunta e declamata come scientifica) ne configura una possibilità fluida, di volta in volta differente, fatta delle immagini “vive” del suo essere intercettata e condivisa qui ed ora nel presente.
Come una proiezione verso il futuro si dà invece nel mezzanino delle collezioni di Arti e Culture Oceaniane il progetto phOnOmuseum.rome che il collettivo di artisti Wissa Haubabi, Ismael “Astri”Lo e Toi Giordan ha immaginato potersi inaugurare nel 2154. Per quella data la previsione del progetto è che tra l’altro alcune lingue pre-coloniali – tigrino, tashilhit, wolof, pulaar e bengale – potrebbero essere repertorializzate dai musei come lingue morte o comunque alle quali si è attentato. Sono alcune lingue scelte tra quelle che i colonizzatori intesero sopprimere a vantaggio delle proprie lingue e della loro supremazia e nonostante le prime siano sopravvissute all’attacco colonialista, l’invito è a riflettere sulla necessità di ripristinare e curare le radici per mantenerle in vita sottraendosi alle sovranità di dominio.
Nella moltitudine delle vie percorse per esplorare il passato, c’è tra le tante un affondo sulla propaganda ideologica espressa dalle forme architettoniche. Esemplare in tal senso il lavoro Tripoli di Peter Friedl risalente al 2015 e consistente nel modellino in scala di un edificio progettato, ma mai realizzato, dall’architetto Carlo Enrico Rava per l’industria automobilistica Fiat a Tripoli. In pieno spirito modernista, l’architetto Rava aveva cercato di coniugare le istanze del moderno con la tradizione mediterranea ispirandosi alle architetture cubiche libiche. Ciò che è oggetto della riflessione di Friedl è quanto le forme architettoniche restino saldamente ancorate alle ideologie che propugnano delineandone in maniera emblematica la stessa ragion d’essere. 
Proseguendo nel percorso, accanto ad alcune pregevoli opere facenti parte del museo delle ex colonie e che riferiscono della predazione attuata - come è il caso di due poderose tele risalenti agli anni ’30 che durante l’occupazione italiana dell’Etiopia (1936 – 1941) furono molto probabilmente trafugate dal Parlamento etiopico per poi essere portate al Museo delle colonie - viene proposto in una struttura compositiva sintatticamente corrispondente alla narrazione in riquadri della tradizione iconografica copta il video Il ritorno della stele di Axum di Theo Eshetu (3). Qui si giustappongono una serie di filmati che, come in un caleidoscopio, ripercorrono la recente storia della restituzione della stele di Axum che portata nel 1937 a Roma e collocata nei pressi del Circo Massimo vi rimase fino al 2005 quando ne fu predisposto il ritorno.
In stretta assonanza con il Museo delle Opacità è inoltre l’installazione Ente di decolonizzazione – Borgo Rizza, un progetto che sta impegnando il collettivo artistico DAAR –Decolonizing Architecture Art Research (Sand Hilal e Alessandro Petti) dal 2021. Ospitato nella terrazza del Museo delle Civiltà consta di 15 moduli che riproducono in scala la facciata principale di Borgo Rizza costruito nel 1940 dall’Ente di Colonizzazione del Latifondo Siciliano in località Carlentini in provincia di Siracusa come colonia rurale volta a modernizzare la Sicilia considerata arretrata, ed esemplata sui modelli di pianificazione coloniale fascista adottati anche in Libia, Somalia, Eritrea e Etiopia. L’installazione all’EUR di DAAR ha ospitato assemblee di decolonizzazione in cui il pubblico è stato invitato a riconsiderare criticamente le eredità sociali, economiche e politiche di origine coloniale predisponendone nuove possibilità sganciate dal passato originario e inevitabilmente si è anche posta in dialogo con le architetture stesse del museo che la ospita costruite per la grande Esposizione E42 mai svoltasi. A misurare l’importanza del progetto di DAAR è tra l’altro il fatto che gli sia stato attribuito il Leone d’oro all’ultima esposizione della Mostra Internazionale di Architettura- Biennale di Venezia motivato dal riconoscimento agli artisti del “loro impegno di lunga data teso a un profondo coinvolgimento politico con pratiche architettoniche e di apprendimento della decolonizzazione in Palestina e in Europa”.
In definitiva, nell’insieme composito e complesso con il quale ci appare, l’istanza di fluidità e in itinere di questo “museo” mette a segno un tentativo stimolante di rielaborazione critica. Nei modi scelti di incorporare sedimenti di memoria del passato con l’indagine artistica sembrerebbe quasi enunciare dei prolegomeni per una nuova consapevolezza. Un orizzonte del resto ben evidenziato proprio in questi termini nel sottotitolo al “Museo delle opacità” che, in un’efficace sintesi delle rotte tracciate e delle intenzioni auspicate, dichiara appunto che l’obiettivo è quello di “Documentare la complessità del passato coloniale, ricercarla nel presente, condividerla per il futuro”.

Luglio 2023

1) Il 6 giugno 2023 è stato inaugurato al Museo delle Civiltà a Roma il Museo delle Opacità. Documentare la complessità del passato coloniale, ricercarla nel presente, condividerla per il futuro con interventi del Research Fellows del Museo delle Civiltà di Sammy Balji e DAAR, Sandi Hilal e Alessandro Petti.
2) Cfr: Èdouard Glissant, Poétique de la relation, 1990, Gallimard; Èdouard Glissant, Introduction à une poétique du divers, 2006, Gallimard; Nick Nesbitt, Caribbean Critique: Antillean Critical Theory from Toussaint to Glissant, University Press, Liverpool, 2013; Celia Britton, Èdouard Glissant and Postcolonial Theory: Strategies of Language and Resistance, University Press of Virginia, 1999.
3) Sammy Baloji, Gnosis, 2023.
4) Theo Eshetu, Il ritorno della stele di Axum, 2009, video HD, 26’45’’.