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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

18. Mostra Internazionale di Architettura, Venezia 2023
Daniela De Dominicis
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Che l’architettura sia una disciplina complessa da doversi misurare con tanti aspetti della vita associata è da sempre noto. Quest’edizione della Biennale veneziana però ha reso i suoi confini talmente porosi da arrivare ad interagire con l’ecologia, la filosofia, la storia, il paesaggio, il diritto, la sociologia, il cinema… fino a perdersi in mille rivi senza più ritrovare sé stessa. Infatti c’è poca architettura nella mostra curata da Lesley Lokko (1); in compenso però gli sconfinamenti sono molteplici, suggeriti da ogni angolo del pianeta, relativi non solo al presente ma anche alla storia, riletta con la volontà di fare chiarezza sul passato con un intento rigenerativo ad ispirare le nuove generazioni.
Il laboratorio del futuro (The Laboratory of the Future), questo il titolo della rassegna, allude infatti ad uno spazio aperto, dinamico, dove è più importante porsi domande che darsi risposte. Protagonista assoluta è l’Africa, paradigma laboratoriale per eccellenza, da cui provengono più della metà degli 89 partecipanti la cui età media supera di poco i quarant’anni (2). Dunque non vi è nessun architetto di acclarata fama, per lo più si tratta di collettivi con due, tre, massimo cinque operatori, i cui interventi sono radicati a circoscritte realtà territoriali.
La curatrice, raccogliendo il testimone da Cecilia Alemani – direttrice della Biennale 2022– ne ripercorre l’impianto che definisce “chiaro e sofisticato”, riadattando i materiali esistenti “a nuovi usi”, ottimizzando “le risorse, sia pratiche sia concettuali” (3). Prioritario infatti per la Fondazione Biennale è da alcuni anni il contrasto al cambiamento climatico mettendo in atto un modello più sostenibile, espositivo e progettuale, tanto da aver ottenuto già dal ’21 la certificazione di neutralità carbonica (4). La decarbonizzazione unitamente alla decolonizzazione sono pertanto le due tematiche che la curatrice ha qui proposto come prioritarie sui cui si sono sintonizzati i contributi delle sessantaquattro partecipazioni nazionali distribuite tra la sede storica dei Giardini, l’Arsenale e il resto della città, isole comprese (5). Tra le nuove presenze si registrano quest’anno la Repubblica di Panama e del Niger, quest’ultimo con il lavoro di Demas Nwoko (1934), insignito del Leone d’oro alla carriera: un creativo dalle molteplici attività, forse per questo poco noto nel mondo dell’architettura, che ha sempre sostenuto la necessità di utilizzare forme e materiali locali evitando così che il suo Paese dipendesse dalle importazioni.
Sei le partiture proposte dalla mostra: Force Majeure, Dangerous Liaisons, Curator’s Special Projects, Special Participations, Guests from the Future e Carnival. Ogni sezione è sottolineata dal colore fortemente connotato delle pareti: la prima, ai Giardini, si presenta di un intenso porpora, quella di introduzione all’Arsenale di uno scuro blu oltremare. È necessario soffermarsi alcuni secondi prima di riuscire a percepire le brevi indicazioni della curatrice, riportate sui muri con trasferibili bianchi. Il contributo dei partecipanti alle diverse sezioni si snoda, in alcuni casi (6), lungo tutta la mostra, inserendosi quindi in tematiche diverse con cui dialoga per affinità o dissonanza a creare una sorta di polifonia a motivi intrecciati. Force Majeure è la sezione che ci accoglie nel padiglione centrale ai Giardini. I suoi sedici invitati sono tutti esempi del Black Atlantic (7), la cultura multipla degli africani della diaspora. Per loro la definizione di architetto esprime in realtà tante cose diverse, in primis la capacità di adattarsi ai cambiamenti in atto, unica possibilità per poter sopravvivere a cause imprevedibili, di forza maggiore appunto. La curatrice preferisce assumere per questi professionisti la definizione di practitioners che implica un significato ampio, legato soprattutto all’attitudine del fare. Questo concetto è maggiormente approfondito nella sezione Dangerous Liaisons che mette in evidenza la rottura dei confini professionali del mestiere di architetto – qualifica che tuttavia è ancora ottenuta con procedure condivise internazionalmente – proprio per adattarsi ad un mondo in rapida trasformazione dove è necessario rapportarsi con altri territori disciplinari: i conflitti, la salute pubblica, la finanza, l’ecologia… finendo per ridefinire così nuove aree di competenza.
Una di queste zone di confine è la storia, finora scritta ad un’unica voce ma che da più parti si sente la necessità di rivisitare utilizzando punti di vista diversi, più storie dunque, premessa essenziale per una prospettiva di cambiamento. La curatrice ritiene che l’architettura sia una forma di narrazione, che utilizzi gli stessi meccanismi ideativi della scrittura, solo i materiali sono diversi, lei stessa è architetto e scrittrice al contempo.
Si interrogano sulla storia, tra gli altri, Sammy Baloij (8) e urban american city (urbanAC) (9). Il primo, di formazione fotografo, esplora la storia della dominazione belga nella Repubblica Democratica del Congo e, con un affascinante filmato (Aequare: the Future that Never Was) in cui alterna documentari d’epoca a immagini recenti, illustra l’abbattimento della foresta per finalità agricole, gli insediamenti coloniali così com’erano appena costruiti e il loro stato di abbandono attuale. Inoltre un’accurata documentazione ricostruisce il padiglione belga all’Expo del 1935 a Bruxelles che prometteva un viaggio nel cuore dell’Africa senza lasciare la propria città. Il gruppo urbanAC invece con l’installazione Land Narratives–Fantastic Futures dà concretezza alle storie e ai ricordi di alcuni abitanti della ‘Black Belt’ del South Side di Chicago e ne evidenzia il potenziale creativo finora solo parzialmente emerso perché sempre giudicato con i criteri tecnologici dell’Occidente ‘bianco’. Ancora impegnati sul recupero della propria identità, da contrapporre alla narrativa coloniale, sono i componenti di Banga Colectivo (10) che operano tra l’Angola e il Portogallo; così come i progetti del gruppo Cartografia Negra (11) che intendono ridefinire le vite degli afro brasiliani superando il solo criterio della schiavitù finora utilizzato. Una memoria recuperata e tutelata anche con gli archivi del patrimonio immateriale (danze, musica, canzoni, poesie…) come quello raccolto nell’Oral Archive di New Age Africana da Cave Bureau (12).
Ma la storia può essere anche fantastica come quella della biologia sintetica raccontata dai britannici Faber Futures con il loro Museum of Symbiosis che indaga il modo con cui la tecnologia ha trasformato le nostre relazioni con il mondo.
L’Africa fa anche i conti con l’eredità materiale dell’epoca coloniale e modernista. L’integrazione e il riutilizzo di questo patrimonio coinvolge diversi team operativi - per es. Aziza Chaouni Projects (13) e DAAR (14) -. Si tratta di edifici pubblici che incarnano la memoria collettiva e, in alcuni casi, le prospettive disattese della liberazione. Edifici costruiti spesso con il cemento a vista, dunque un materiale estraneo alla cultura locale, ma che testimonia in ogni caso il passato recente dei Paesi di questo continente.
Il disastro ecologico del resto, cominciato già in epoca coloniale, è sotto gli occhi di tutti e costituisce un partecipato terreno di riflessione. Proprio per rispondere ai danni arrecati all’ecosistema africano ACE /AAP per esempio – con l’installazione multimediale che è valsa ad Olalekan Jeyifous il Leone d’argento – “ha applicato i sistemi di conoscenze indigeni allo sviluppo di reti avanzate” (15) utilizzando energia rinnovabile e tecnologia verde. Si tratta di insediamenti a zero emissioni e basso impatto, realizzati al largo di alcuni porti internazionali (16). Alla Biennale ACE propone una visionaria sala d’attesa APP pensata per la pianura alluvionale di Barotse nello Zambia occidentale, premiata per aver offerto la visione “di un futuro decolonizzato e decarbonizzato” (17). La diffusa sensibilità ecologica mira al contenimento dei danni ambientali anche attraverso il recupero delle antiche tecniche costruttive, al contempo volano di identità e memoria. Lavorano su questa lunghezza d’onda gli ivoriani Koffi & Diabaté Architectes, i nigeriani Moe + Art Architecture (con The future of the Past) e Atelier Masōmī, il burkinabé Kéré Architecture, Adjaye Associates e PostBox Ghana, qui in collaborazione con il giovanissimo Courage Dzidula Kpodo che espone anche un’interessante ricerca d’archivio su materiali fotografici di architetture degli anni Cinquanta e Sessanta. Sempre dal Ghana proviene Ibrahim Mahama (18) – già noto al pubblico italiano per la sua presenza alla Biennale del ’22 nonché per l’installazione a Porta Venezia (Milano) nel 2019 – che qui espone Parliament of Ghosts, l’installazione in cui coesistono reperti coloniali e rinnovate funzionalità. Lo studio e il recupero delle tradizionali tecniche è senza dubbio un’imprescindibile opportunità per il mondo dell’architettura e possono costituire, attraverso gli architetti africani della diaspora, una fonte di ispirazione globale, una sorta di “counteract”, per utilizzare la definizione di Francis Kéré, che l’architettura del futuro prossimo può mettere in campo.
E veniamo alle partecipazioni nazionali. Il tema ecologico la fa da padrone. La Germania, con Open for Maintenance, ha recuperato gli scarti di quaranta padiglioni della Biennale 2022 e li ha accatastati con ordine in funzione della loro tipologia. Il padiglione è stato trasformato così in una sorta di impietosa discarica mostrando il rovescio della medaglia di ogni iniziativa di questo genere.
Gli Stati Uniti riflettono sui materiali plastici derivati dal petrolio che, da invenzione rivoluzionaria e innovativa, stanno pervadendo tutto il nostro mondo gettando un’incognita inquietante sul futuro.
Il Leone d’oro è stato assegnato al Brasile con Earth, l’installazione che riconduce tutto il pianeta all’essenza della sua costituzione primaria, la terra appunto. Terra come pianeta, come suolo, come insieme degli esseri viventi che lo abitano. Una parte del padiglione è dedicato a Brasilia che la propaganda modernista ha voluto costruita dal nulla ma che in realtà ha implicato l’allontanamento degli indigeni e degli afro-brasiliani lì insediati.
Alcune nazioni hanno risolto la loro partecipazione in modo concettuale come la Svizzera che si è limitata a smontare il cancello che divide il suo padiglione da quello del Venezuela per avanzare una riflessione sull’idea di “confine” e la necessità del suo superamento. I Paesi Nordici hanno optato per un focus sul popolo dei Sami che, pur vittima di storiche discriminazioni, viene esibito ogni volta che è necessario proporre uno stile di vita lieve, rispettoso dell’ambiente. Deludente la Francia (Ball Theatre/La fête n’est pas finie) che, con una confusa proposta, forse orientata all’ottimismo, rincorre il mito dell’utopia all’interno di una semisfera argentata in cui si alternano performance teatrali.
Super tecnologici quello coreano, con un’ipotesi di futuro (2086: Together How?) e un gioco interattivo con il pubblico invitato a fare scelte in situazioni di crisi ambientali, e quello cinese con il pavimento di specchi e una fitta sequenza di pilastri luminosi che illustrano esperimenti urbani e rurali in situazioni di alta densità.
L’Italia con Fosbury Architecture (Giacomo Ardesio, Alessandro Bonizzoni, Nicola Campri, Veronica Caprino, Claudia Mainardi) ha promosso e coordinato il lavoro di nove gruppi transdisciplinari cogliendo l’occasione per promuovere altrettanti interventi in contesti particolarmente fragili e problematici del territorio nazionale (19). Il titolo Spaziale. Ognuno appartiene a tutti gli altri intende proporre, in linea con le direttive della curatrice, un concetto ampio di architettura e lascia emergere il rapporto tra le persone e i luoghi con progetti focalizzati sul recupero di aree verdi, filiere agro-alimentali, le radici mitiche di alcune parti del territorio… 
A distanza di dieci anni da Common Ground di David Chipperfield (2012) e da Fundamentals di Rem Koolhaas (2014) che sembravano voler mettere a fuoco solide competenze disciplinari in uno spirito di positiva progettualità, ci si trova ora di fronte a un cambiamento di rotta. L’architettura sta sperimentando modalità partecipative e operative nuove. Punto di forza o di debolezza? Questo non è ancora dato sapere. Si ha però la sensazione di un ribollire di energie inedite, come non si percepiva da varie edizioni, sensazione sostenuta anche dalla giovanissima età dei protagonisti, anche questa una novità assoluta.

Luglio 2023
 
1) Lesley Lokko, (Dundee 1964), architetta, docente di architettura e scrittrice di origini ghanesi. Lavora prevalentemente tra l’Europa, gli Stati Uniti e il Sud Africa. Dal 2004 ha pubblicato dodici romanzi. Nel 2020 ha fondato l’African Futures Institute in Ghana.
2) Nella sezione Curator’s Special Projects l’età media dei partecipanti scende a trentasette.
3) Lesley Lokko, citazioni mutuate dai pannelli esplicativi in mostra.
4) La dichiarazione di neutralità carbonica è stata ottenuta secondo lo standard internazionale PAS 2060 certificato dal RINA.
5) Sull’Isola di San Giorgio Maggiore è ospitato il padiglione della Santa Sede con gli interventi di Álvaro Siza e Studio Albori.
6) Per esempio gli architetti afferenti a Guests from the Future si ritrovano al Padiglione Centrale, alle Corderie e all’Arsenale.
7) Paul Gilroy, Black Atlantic, Modernity and Double Consciousness, Harvard University Press, 1993.
8) Sammy Baloji ha fondato insieme a Rosa Spaliviero la società Twenty Nine Studio nel 2017 a Bruxelles ed offre consulenza e produzione nel settore delle arti visive in particolare cinematografiche. Baloji lavora dal 2005 sul patrimonio architettonico e culturale della Repubblica Democratica del Congo.
9) UrbanAC, fondato a New York da Toni L. Griffin. Si tratta di uno studio impegnato nella pianificazione e rivitalizzazione urbana con un approccio di tipo sociale.
10) Banga Colectivo, fondato nel 2020, propone lavori trans e inter-discipinari.
11) Cartografia Negra è un collettivo fondato a San Paolo del Brasile dai ricercatori Raissa de Oliveira, Carolina Vieira, Pedro Alves.
12) Cave Bureau, gruppo di ricerca fondato nel 2014 attivo tra Londra e Nairobi, già noto in Italia per la partecipazione alla Biennale del 2021.
13) Aziza Chaouni Projects, studio pluridisciplinare fondato nel 2019 e attivo tra il Canada e il Marocco.
14) DAAR – Decolonizing Architecture, Art Residency, gruppo di ricerca fondato nel 2007 da Alessandro Petti e Sandi Hilal, attivo in Palestina e in Europa.
15) La definizione del lavoro di Olalekan Jeyifous è tratta dal sito della Biennale, ad vocem.
16) L’ African Conservation Effort (ACE) ha promosso la All-Africa Protoport (AAP) al largo di alcuni porti: Lagos, Mombasa, Port Said, Dar es Salaam, Durban, Salvador de Bahia, New York, Los Angeles, Port-Au-Prince, Barranquilla, L’Avana e Montego-Bay.
17) Queste le motivazioni della Giuria per l’attribuzione del Leone d’argento riportate sul sito della Biennale.
18) Ibrahim Mahama (Ghana 1987) ha fondato a Tamale in Ghana i centri culturali SCCA e Red Clay utilizzando le infrastrutture moderniste di epoca coloniale.
19) I luoghi di intervento prescelti e presentati nel padiglione italiano si trovano a: Taranto, Baia di Ieranto (NA), Trieste, Ripa Teatina (CH), entroterra veneziano, Cabras (OR), Librino (CA), Belmonte Calabro (CS), piana tra Prato e Pistoia.