Anna D’Andrea
Il 15 novembre scorso si è inaugurata a Verona la mostra Il tempo di Giacometti. Da Chagall a Kandinsky, sottotitolo CAPOLAVORI DALLA FONDAZIONE MAEGHT, curata da Marco Goldin per Linea d’Ombra in collaborazione con il Comune di Verona, main sponsor Gruppo Baccini.
Gli spazi monumentali del Palazzo della Gran Guardia ospitano fino al 5 aprile del 2020 circa cento opere tra sculture, dipinti e disegni provenienti dalla collezione privata di Aimé e Marguerite Maeght, un litografo e la moglie che a cavallo tra le due guerre aprono una piccola galleria a Cannes e dopo una parentesi parigina, dove peraltro sarà presentata l’Esposizione internazionale del Surrealismo (1947) in collaborazione con Duchamp e Breton, dal 1964 tornano tra la Costa Azzurra e la Provenza, a Saint-Paul-de-Vence, per diventare Fondazione Maeght, avvalendosi del concorso attivo degli artisti che avevano scelto quegli stessi luoghi per il loro buen retiro, quali Matisse, Chagall e prima ancora Cézanne e Van Gogh.
Non solo una mostra monografica dunque, ma nemmeno una collettiva, il nucleo tematico del percorso espositivo porta in figura la vicenda biografica, creativa e conoscitiva di Alberto Giacometti, espressa attraverso scultura, pittura o disegno, usati indifferentemente in funzione meramente strumentale, senza tralasciare lo sfondo, adottando una soluzione intermedia, un taglio che resta attinente all’apporto specifico del singolo, ovviamente non avulso dal suo tempo, dagli amici, gli amori, la famiglia. È così che accanto alla storia del protagonista, si snoda un altro racconto parallelo, a disegnare la circostanza dell’accadimento, un contesto di riferimento più ampio, che fornisca coordinate, dettagli o quant’altro possa essere utile alla ricostruzione precisa e poetica dell’intera vita dell’artista, secondo gli intenti dichiarati dal curatore.
Tutto inizia dal Surrealismo, o meglio la mostra inizia dalle opere di ispirazione surrealista, la storia di Giacometti artista era iniziata nel 1922, quando, surrealista a sua insaputa, aveva risposto alla chiamata a “lâchez tout” (Breton, 1922) e aveva lasciato gli alberi, le pietre, i silenzi delle valli alpine, per frequentare i corsi di un allievo di Rodin all’Accademia di Parigi, o forse ancora prima, davanti agli affreschi di Giotto a Padova, quando non aveva neanche vent’anni, o prima ancora, in atelier con papà Giovanni, pittore post-impressionista. Sappiamo dai suoi diari che sono anni passati al cospetto della sfinge, a porre domande all’universo che noi stessi siamo, un dialogo che trova nella semplicità del tracciato a matita lo strumento privilegiato di indagine e si svolge per tentativi e ripensamenti, scritto e riscritto scavando nei recessi del visibile e anche oltre, per portarne alla luce le profondità più nascoste. Sono gli anni dell’insofferenza e della rivolta, della necessità di andare a cercare la propria strada, lontano da padri, maestri, grandezze del passato o certezze consolidate, riepilogati in mostra nella prima sala con tre opere ispirate alle forme primordiali delle maschere africane: La coppia (1926-1927), composta da due elementi geomorfi che rappresentano per sineddoche il maschile e il femminile, La donna cucchiaio (1926-1927), data per somma di pezzi disparati, persi nel passato più arcaico o ritrovati in un futuro di macchine e incongruenze, L’Oggetto invisibile (1934-1935), opera incentrata sull’inconsistenza del vuoto che è tra le mani di una donna, ovvero sull’esistenza di ciò che non è dato vedere con gli occhi. Forse un grumo di quel nulla consustanziale all’essere di cui parlano i filosofi, in quegli anni un certo Sartre, le leggende narrano che incontri Giacometti a un tavolo del Café de Flore a Parigi e gli chieda di offrigli un bicchiere perché non ha soldi, siamo nel 1939. Altre leggende ci raccontano che dopo più di vent’anni, mentre beve un kir forse nello stesso bar, incontri un’altra eminenza del secolo scorso e non solo, che gli chiede disperatamente un albero per portare in scena il suo Aspettando Godot e risponde al nome di Samuel Beckett.
L’Oggetto invisibile sarà esposto al MOMA di New York nella mostra Cubism and Abstract Art (1938), alla quale Giacometti partecipa in qualità di ex scultore surrealista, perché dopo essersi fatto un bel giro nella surrealtà dell’immaginazione, sente che non vuole farsi incastrare dall’esteriorità e decide di tornare alla realtà dello sguardo che si posa sull’immagine, lo spartiacque è Il cubo (1934-1935), nella vita di Alberto la morte del padre (1933), un’opera, cui Georges Didi-Huberman ha dedicato il saggio Il cubo e il volto, che si presenta come un grande sasso neolitico liscio e levigato nelle sue poliedriche sfaccettature, nel colore e il peso del lutto, collocato all’ingresso della mostra, come la pietra o lo scoglio in cui siamo tutti costretti a inciampare, conditio sine qua non è consentito accedere al dopo, che sarà d'après nature.
Per Alberto sarà possibile accedere al dopo tornando agli affetti più vicini, il fratello Diego, la madre Annette, siamo nella grande sala successiva strutturata come una costellazione che ruota intorno a una stella intitolata Donna in piedi I (1960), presumibilmente Annette, la moglie con lo stesso nome della madre, l’auriga che sovrasta in altezza tutto sul resto, un perno senza il quale verrebbe giù il cielo. L’artista ci arriva in modo lacerato e sofferto, in mezzo ci sono gli orrori della guerra, l’Olocausto, la bomba atomica, accadimenti forse lontani dal suo cantuccio in Svizzera, ma fatalmente vicini agli animi che sentono, ha ricominciato come i bimbi, modellando la plastilina con le dita, figure tanto piccole che possono stare in una scatola di fiammiferi, uscite da una ferita o da una visione da quelle altitudini sui tremila di quota della terra dove è nato, a metà strada tra l’essere e il nulla come scrive l’amico Jean Paul, perché “accettando la relatività delle cose Giacometti è riuscito a scoprire l'assoluto” (Sartre, La ricerca dell’assoluto, 1948) e come ci dice l’artista stesso “facendo qualcosa alto mezzo centimetro si è in grado di avere un senso dell'universo più che a tentare di riprodurre il cielo intero”. Sono labili parvenze più che figure, gracili, emaciate e afflitte, esseri delle lontananze di heideggariana memoria, disegnati con l’evanescenza del filo della tela di un ragno, scarnificati, corrosi fino al midollo, esangui eppure ancora protesi verso l’alto e la luce, alberi spogliati nella forma ma non nella sostanza, che hanno rinunciato a chiome, portamenti e pennacchi inutili, per ritrovare la leggerezza e la forza di rinascere. Si intitolano per esempio Gruppo di tre uomini (1948-1949), La foresta, piazza sette figure una testa (1950), la boria dei piedistalli si assottiglia fino al piano di calpestio della piazza, come a Calais, un fazzoletto di spazio e tempo che abbiamo in comune, un po’ concavo come un fondovalle o una radura, Il Cane (1951), un essere sbranato dallo strazio della sua stessa solitudine, davanti al quale l’artista confida a Jean Genet: sono io. A seguire c’è la falange delle Donne di Venezia (1956), eseguite per rappresentare la Francia alla Biennale di Venezia, studi di nudo d'après Annette, trasfigurati in idoli votivi che hanno la consistenza fluida del magma appena rappreso e i piedi saldamente ancorati alla terra. Gli uomini che vanno e le donne che stanno, assieme o da sole, piantate nella forza filiforme del loro precario essere al mondo, e poi ecco l’icona: L’uomo che cammina I (1960), cammina come uno qualunque che va per la sua strada, cammina e basta, senza effetti speciali roteanti, cammina per cercare l’essenza nuda e cruda, quella linfa che scorre nelle vene di ogni essere vivente, è annichilito ma cammina, nella sua erranza lontano da tutto è diventato un’ombra esile, fragile e imperfetta, piegata e allungata allo stremo nei cieli dell’alba o del tramonto, un funambolo smarrito in equilibrio sull’orlo dell’abisso, che resta in piedi e va avanti nonostante tutto, scampato nel suo rastremarsi fino alle soglie dell’inverosimile, scartando tutti gli involucri superflui, ingombranti e inutili, lasciando andare ogni cosa eccetto umanità e bellezza. È ciò che resta del kouros, simulacro di se stesso e ancora un po’ in dépaysement, ma ritornato alla forza magica e primitiva delle sue radici di xoanon, l’Apollo di Veio andando incontro alle Ombre della sera ha perso la sua possanza di stele per farsi stelo di giunco e giocare col vento e la pioggia, arruffato e con il trench fin sopra la testa, come l’artista stesso viene ritratto da Henri Cartier-Bresson, un altro dei suoi grandi amici, oppure diventare una X a cui manca una gamba, proprio all’altezza delle ali.
A completare la ricostruzione poetica, ossia secondo eidos, della vita e dell’operato di uno dei massimi scultori del nostro tempo, sono presentati in mostra anche dipinti e disegni, espressione degli stessi dilanianti tormenti che plasmano gli esiti plastici della sua ricerca. Soggetto preferito il fratello Diego, ma c’è anche il suo mecenate Aimé Maeght, ci sono paesaggi di casa e nature morte intime e private, schizzi appena intagliati che si danno per togliere, per estrazioni, raschiamenti e cancellazioni sovrapposte, restituiti senza perdere la fragranza del tratto e ri-tratto, incerti e caparbi, flebili e rapaci.
Nel corso della visita, checché ne dicano gli addetti alla sorveglianza, può capitare di avere voglia di ricominciare da capo, perché si può scegliere di lasciare per dopo la parte più succulenta che il titolo della mostra indica come “il tempo di Giacometti”, inteso nel senso della concomitanza strettamente cronologica, che gli artisti e in particolare i più grandi, tendono spesso a esorbitare. Un itinerario parallelo a latere che procede a ritroso verso un ritorno alla figurazione e si svolge, nelle sue tappe più eclatanti, a partire dalla musica delle astrazioni di Kandinsky, si sofferma sulle reminiscenze quasi per caso di Miró, passa per le sintesi cubiste di Braque e culmina nel giallo del sole di Chagall.
In serata un suggestivo omaggio all’artista in auditorium, a beneficio di una platea strapiena, solo le sue parole lette a voce con qualche nota di fisarmonica per accompagnare le pause di pensiero e la chiusa del curatore, tre figure su una scena a sipario chiuso, affacciate su quella linea in cui la luce combacia con l’ombra, con un effetto di compostezza, semplicità, rigore, scandito nei ritmi dell’alternanza metopa e triglifo, senza giochetti di diapositive blow up e blow down, anche detti experience, ringraziamo vivamente l’organizzazione per averceli risparmiati.
Gennaio 2020
Gennaio 2020