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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

The Art of Direct Action. Social Sculpture and Beyond

Patrizia Mania

Quale eventuale linea di demarcazione può ragionevolmente tracciarsi tra le ricadute e gli specifici teorici veicolati dagli attivismi artistici e le loro più generali influenze nella sfera del sociale? In che modo la nozione di conio beuysiano della “scultura sociale” si sia andata innestando e sia stata superata dalle pratiche di attivismo artistico che connotano una parte considerevole delle ricerche artistiche contemporanee? Sono interrogativi che nelle dinamiche degli attivismi artistici affermatisi negli ultimi anni indicano il terreno di un fertile dibattito sulle potenziali sinergiche condivisioni e reciproci sostentamenti tra l’arte e la politica sociale. Problematiche che costituiscono lo sfondo della stessa comprensione e inquadramento storico di alcune tra le più battute strade della ricerca artistica contemporanea.
 Attraverso una ricognizione ad ampio raggio articolata in saggi e interviste, il volume The Art of Direct Action. Social Sculpture and Beyond, curato da Karen van den Berg, Cara M. Jordan e Philipp Kleinmichel (1), discute propriamente di alcuni degli sviluppi teorici e pratici della nozione di scultura sociale. L’esplorazione riguarda le possibilità e i limiti delle pratiche di attivismo che possono senz’altro essere annoverate tra i più sintomatici orientamenti dell’arte contemporanea negli ultimi due decenni. Lontano dalla marginalizzazione cui il discorso sulle pratiche artistiche d’impegno sociale e d’attivismo era stato relegato negli anni ‘80 ‘90, l’inizio del nuovo millennio ha segnato viceversa un’inversione di rotta che ha indiscutibilmente determinato una ricollocazione del fenomeno assegnando proprio a quelle pratiche artistiche più impegnate sul versante della sfera sociale e politica un posto di assoluta centralità.
Il presupposto su cui si è sviluppata l’architettura d’insieme dei contributi presenti nel libro è dunque nel riconoscimento delle origini del fenomeno nella nozione espansa di arte professata da Joseph Beuys e nel tentativo di vagliarne alcuni dei più significativi sviluppi. Al perno beuysiano è germinalmente riconducibile la maggior parte delle pratiche d’attivismo successivamente connotatesi. Ciò può affermarsi con sicurezza per le accezioni qui focalizzate. Anche se nel quadro d’insieme delineato i distinguo rispetto alle esperienze originarie sono costantemente ribaditi e specificati nei percorsi di pensiero e azione differenziati e sostanzialmente alieni a modelli improntati al citazionismo.
Da Ai Weiwei a Olafur Eliasson, da Hannah Rose Thomas ai diagrammi di Sherry Arnstein, a realtà come Neue Nachbarschaft//Moabit o Raumlabor o Baltic Raw o ancora Grandhotel Cosmopolis, alcune tra le più significative pratiche socialmente e politicamente impegnate vengono richiamate per dar corpo ad una pluralità di sguardi che lungi dall’essere onnicomprensiva disegna una realtà poliforme che riprova la vitalità dei presupposti (2). Nell’excursus proposto l’intento non è tanto di fornire una ricognizione su quanto e come si caratterizzi l’arte impegnata socialmente quanto piuttosto quello di ambire a profilarne un orizzonte storico estetico.
Negli ultimi decenni le tante pieghe assunte dal dibattito su queste tematiche trovano peraltro nella forma dell’intervista privilegiata nel libro una congenialità che risulta consustanziale. In particolare, alcune interviste consentono di ricostruire esemplarmente la genesi dei progetti come è il caso della Neue Nachbarschaft//Moabit la cui autrice, l’artista Marina Naprushkina - internazionalmente riconosciuta per aver partecipato tra l’altro, con il progetto The President’s Platform (2007) alla Biennale di Istanbul nel 2009, con il progetto Office for Anti Propaganda (2007) alla Biennale di Berlino del 2012, e  al progetto Refugee Library - pur riconoscendo, in linea con la riflessione cui si dà voce l’importanza della scultura sociale e della sua attualizzazione, dichiara la necessità preliminare di “translate the concept into a present day terms. That’s the challenge” (3).
Un punto di riferimento dal quale al contempo prendere le mosse e le distanze, come conferma Anton Vidokle per il quale l’originalità della nozione di scultura sociale di Beuys, lungi dal rappresentare in senso stretto un modello, ne costituisce senz’altro però l’antefatto, il precedente cui con gradualità diversificata è imprescindibile guardare ancora oggi (4).
Nella trama ordita, un significativo cambio di prospettiva viene indicato dalle modalità curatoriali intraprese da Mary Jane Jacob che optando per la definizione di “socially engaged art”, più consona nel riferire le peculiarità degli attivismi contemporanei, e pur non potendo del tutto disconoscere l’importanza di Beuys si richiama con maggior forza a John Dewey sollecitando uno scarto epistemologico di indubbia rilevanza (5).
 Su un altro ma convergente piano non si manca di riconoscere il debito contratto con i numerosi studi di ricognizione storica già effettuati, in particolare e a stretto giro il richiamo è al simposio “From Social Sculpture to Art Related Action” svoltosi nel 2016 alla Zeppelin University di Friedrichshafen  (6) che già dal titolo rimarcava l’intento di tracciare una linea che da Beuys giungesse fino alle più recenti esperienze e che sembrerebbe agire da spunto alle digressioni e approfondimenti che il libro raccoglie.
Filtrato dalle diverse angolazioni interpellate, lo snodo prescelto risiede dunque nel passaggio o forse meglio nell’interscambio prodottosi tra la nozione “espansa” di arte e l’analoga nozione “espansa” di società. Una questione nevralgica messa circostanziatamente e opportunamente in luce nell’introduzione al volume dai tre curatori.
E ancora, scorrendo brevemente su altri contributi, aggiunge ulteriore motivo di riflessione alla questione la constatazione di un certo residuale pregiudizio nei confronti dell’arte impegnata. Nel tracciare la sua Cartography of Disputes Karen van den Berg rileva infatti di come, quando si affronta l’argomento dell’arte impegnata socialmente, si incappi sovente nell’insidia di sovrastimare il potenziale depauperamento del valore dell’arte a cospetto proprio del suo dispiegarsi socialmente. Quasi questa rappresentasse una condizione considerata depotenziante, e così l’invito rivolto è piuttosto quello a modulare diversamente l’approccio e a verificare di volta in volta il se e il come l’arte possa dare risposte concrete ed efficaci nel più ampio quadro della politica e della vita sociale (7).
Da questa prospettiva, la domanda che interpunta sottotraccia molte delle riflessioni è proprio se si possa considerare legittimamente arte l’attivismo artistico impegnato politicamente. Uno scarto semantico necessario di cui Philipp Kleinmichel vede l’attuazione nei processi di musealizzazione dell’arte impegnata socialmente. Osservazione cui è spinto proprio a partire dai contesti delle azioni di Beuys, e che in questo quadro propone quasi di leggere come il “prototype” dell’attivismo artistico contemporaneo (8).
Non da ultimo, nella bilancia dei reciproci debiti e interconnessioni tra la teoria e la pratica che il tema sottende, appare per certi versi dirimente il saggio di Grant H. Kester, che sullo sfondo delle aporie e delle controversie che in modi diversi hanno accompagnato il pensiero di Adorno e le azioni di Beuys, da lui riconosciuti come l’origine dell’attuale dibattito sull’arte impegnata socialmente,  si accosta in conclusione, quasi a voler tentare una terza via e risolvere la diatriba tra l’importanza dell’una rispetto all’altra,  al pensiero di Marcuse che già più di mezzo secolo fa osservò come sarebbe sempre proprio la prassi a spingere più in là la teoria (9).
In definitiva nel dialogo a più voci, un libro che, sulla scorta delle premesse beuysiane, si proietta oltre offrendo l’occasione per vedere in filigrana proprio nelle pratiche più recenti di attivismo artistico in chiave politico sociale una straordinaria e insostituibile capacità di produrre pensiero critico estetico e di sviluppare un discorso, in ultima analisi, all’insegna dell’incontro/scontro tra pragmatismo e idealismo.
Gennaio 2020
1) Karen van den Berg, Cara M. Jordan, Philipp Kleinmichel, a cura di, The Art of Direct Action. Social Sculpture and Beyond, Berlino Sternberg Press, 2019.
2) Karen van den Berg, “Socially Engaged Art and Fall of the Spectactor since Joseph Beuys and the Situationists”, in, Ibidem, pp.1-40.
3)Marina Naprushkina intervistata da Karen van der Berg “New Neigborhood// Moabit: Shaping a Community with Artistic Tools”, in Ibidem, p.60.
4) Anton Vidokle intervistato da Philipp Kleinmichel “Social Sculpture and the Cousins of Cosmism”, in, Ibidem, pp.199-209.
5) Mary Jane Jacob intervistata da Cara M. Jordan “Curating Social Practice and the Influence of John Dewey”, in Ibidem, p.190.
6) From Social Sculpture to Art Related Action, Zeppelin Universita di Friedrichshafen, 28, 29 ottobre 2016
7) Karen van den Berg “Socially Engaged Art and Fall of the Spectactor since Joseph Beuys and the Situationists”, in, Ibidem, pp.5-8.
8) Philipp Kleinmichel “The Simbolic Excess of Art Activism”, in, Ibidem, pp.214-222.
9) Grant H. Kester “Action and Critique of Action in Theodor W.Adorno and Joseph Beuys”, in Ibidem, p.98.