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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Post-Internet criticism nell'epoca Covid-19

Selenia Spoto
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“Vicinissimo al senso teorico del porno, che è fatto di noia e ripetizione, ma nel momento in cui si fa visibile negli atti, si nega alla visione, rendendo paradossalmente invisibile ciò che è raffigurato e permettendo soltanto di immaginarlo” (1)
Simonetta Fadda

1. Analisi generale

La storia recente dell’umanità è stata segnata da profondi cambiamenti, dove la tecnologia ha mutato il nostro modo di percepire, di agire e di comunicare. Solamente negli ultimi mesi, lo sconvolgimento del Covid-19 ha modificato le menti e i comportamenti degli esseri umani che a internet devono la loro evoluzione, al rapporto con i media, all’assimilazione dei linguaggi e delle grammatiche tecnologiche, al suo progressivo adeguamento alle dinamiche stesse dell’industria culturale. Questa trasformazione non poteva che influenzare anche il modo in cui si produce, si pensa e si fruisce l’arte. I social network, alla base di questa condizione e dell’idea diffusa e “democratica” della creatività, hanno contribuito a mettere l’arte a disposizione potenzialmente di tutti, rivelandosi utili nella promozione e diffusione dei prodotti artistici che procedono al di fuori dei confini delle istituzioni.
Il cambiamento che investe l’arte come esigenza umana ineluttabile, non può non essere in sinergia con la visione dalle nuove tecnologie digitali. L’artista da creatore isolato per lo spettatore passivo, diventa autore attivo che partecipa alle trasformazioni espressive, nell’intreccio tra cultura alta e di massa e nel superamento dell’opera come oggetto autoreferenziale.
L’ambiente comunicativo nel quale viviamo, si presenta oggi come una realtà accresciuta da tutti noi che contribuiamo a produrre e avviare verso una fase evolutiva. Ci troviamo insomma di fronte a un fenomeno che parte dagli individui che ne sono i primi protagonisti e che nei social network trovano la base per emanciparsi culturalmente. Ed è proprio in questo quadro che si prova a riconsiderare l’espansione di quella gamma di esperienze che definiamo come artistiche, sulla base di un cambiamento di paradigma di cui, forse, non è ancora possibile definirne precisamente il risultato finale. Questo processo riguarda, per logica conseguenza, tanto i vissuti individuali e il loro accoppiamento stringente con i media, quanto le dinamiche relazionali emergenti da tale rapporto.
Vale la pena sottolineare che analizzare l’esperienza creativa contemporanea vuol dire prima di tutto rintracciare le fasi salienti di una dinamica evolutiva generata dalle neoavanguardie del secolo scorso per arrivare a una nuova configurazione del sistema dell’arte.
Sebbene già le avanguardie storiche avessero “toccato” negli anni Venti i temi della connettività e del rapporto tra arte e tecnologia, la prima forte espressione di queste idee la si ritrova nella mail art (2). Questa pratica è stata inventata da Ray Johnson negli anni Cinquanta – artista già collegato al gruppo Fluxus – ed è diventata negli anni Settanta un imponente movimento capace di attrarre artisti da tutto il mondo. Il passaggio obbligato negli anni Settanta è perciò stato quello dell’arte telematica, che ha posto l’attenzione sulla possibilità di creare delle congregazioni in aree territoriali distanti fra loro. Nel 1980 la conferenza Artists Use of Telecommunications ha visto la partecipazione di artisti collegati da diverse città fra cui Boston, Tokyo, Vienna, e ha favorito lo sviluppo di una comunità attraverso le tecnologie digitali. Il 1997 è considerato un anno di svolta che ha dato l’avvio alla net art Nettime (3), a partire dal dibattito fra artisti, critici e studiosi sulla mailing list. Quella che è stata definita come net.art thread (4), è servita per ragionare sul ruolo stesso della rete e sul suo uso creativo, rappresentando il primo tentativo di analisi e contestualizzazione di alcune pratiche già in atto sulla Rete dall’inizio degli anni Novanta. Gli stessi autori degli esperimenti di arte telematica cominciavano a prendere coscienza della nascita di un movimento e si confrontavano sulle specificità ‒ concettuali ed estetiche ‒ delle loro opere.
Le caratteristiche della Net Art venivano inizialmente indicate con l’obiettivo di distinguerla da altre manifestazioni di contaminazione del mondo dell’arte con il “fenomeno Internet”, primo fra tutti quello delle cosiddette “gallerie virtuali”. L’opposizione era tra Net Art e Art on the Net, cioè tra un’arte specifica del Web e un semplice meccanismo di digitalizzazione e diffusione di opere preesistenti tramite le reti telematiche. La distinzione, che poteva sembrare ad uno sguardo superficiale sul nome del movimento, era in realtà sostanziale. Quello che veniva rifiutato era l’uso della Rete come mero veicolo delle informazioni e come “vetrina” per un futuribile mercato dell’arte online. Sta di fatto che l’arte della rete si è andata configurando come uno spazio nuovo per la comunicazione creativa, utilizzando internet come mezzo di produzione e luogo di fruizione dell’opera.
Per quel che qui conta sottolineare ha favorito comunque, la costituzione di un gruppo in grado di scambiare idee, di pensarsi come intelligenza collettiva. Molte delle attitudini e delle tematiche riscontrabili nella Net Art possono essere rintracciate nella storia dell’arte della seconda metà del Novecento. È nell’ambito di Fluxus infatti che si delinea una prima decisa volontà di confronto con media come la televisione, il telefono e il satellite, sull’onda di una sempre più stretta contaminazione tra arte e tecno-scienze che verrà incarnata in modo esemplare dall’esperienza dell’EAT (5) (Experiments in Art and Technology, 1966-71) della coppia Rauschenberg-Klüver (6). Dobbiamo al Novecento quindi, lo sforzo del confronto diretto e serrato con forme, linguaggi, grammatiche e logiche dei media di massa prima e digitali poi.
Si osserva la messa a punto di una nuova semantica della creatività artistica, ossia di nuovi modi di concepire, definire e pensare l’arte, che si esprime e attualizza nella produzione dal basso, e nella condivisione di conoscenze di idee con i networked publics (7).
Questo breve elaborato affronta la tematica della connettività nel campo artistico a partire da un’esperienza di privazione dettata dalla drammatica situazione generale, determinata dalla diffusione di un virus che ha trasformato ‒ per sempre ‒ la realtà conosciuta.

2. Consumatori e produttori self-made
 
Secondo la teoria dei sistemi sociali quello dell’arte, è caratterizzato dall’agire dell’artista che realizza qualcosa e dall’esperienza interiore di colui che gode di quel prodotto. La stessa dinamica, secondo questo schema “tradizionale” della fruizione artistica, vale per tutte le tipologie di opere: dalle opere video alle installazioni interattive.
Si tratta sempre di produzioni di qualcuno per qualcun altro che ne fa esperienza.
Ma cosa succede se una volta a casa le impressioni e le idee nate dalla ricezione fisica vengono condivise in gruppi e blog online su cui si generano opinioni e commenti?
Succede che il circuito della comunicazione trasforma un’esperienza singola in un’azione di compartecipazione che collega le persone in modi nuovi: il mio esperire come manifestazione di qualcosa quindi, viene riconfigurato come azione e produzione di contenuti che hanno per oggetto sempre un prodotto artistico e tengono in vita il processo creativo, che si riproduce in altri tempi, modi e luoghi in connessione con una comunità interessata a quell’oggetto e che nei casi più felici comprendono lo stesso artista. 
Se già l’industria culturale del Novecento ha segnato una decisiva svolta all’interno dell’arte per la revisione di ciò che può essere o meno considerato artistico, frutto della cultura alta o bassa, la configurazione attuale dell’apparato sociale, connotato dal web e dai social network, decreta un ulteriore passaggio: il cambio della posizione comunicativa da parte del pubblico.
Questo principio di democratizzazione dell’arte, della creatività come possibilità espressiva di tutti, nella chiamata in causa dello spettatore, sempre e più o meno direttamente co-artefice dell’opera e dell’evento, fa sì che vengano amplificati i vantaggi e gli svantaggi dei media broadcast.
L’arte è un luogo della sperimentazione di linguaggi, forme e contenuti espressivi, che riguarda sia la comunicazione, e quindi il sociale, sia la vita della coscienza, cioè degli individui, pur essendo un tipo di esperienza più complesso di altri. Non più soltanto cultura alta e cultura bassa, come si diceva poco sopra, ma una consapevolezza dell’esistenza di spazi che chiedono differenti competenze comunicative e permettono di giocare su altri fronti l’abilità creativa.
Stiamo assistendo a una fase amplificata di questo sviluppo: quella in cui i territori della creatività si rivelano essere sempre più espansi nei territori online, verso l’ultima frontiera del superamento fra la differenza dell’agire dell’artista e l’esperire del fruitore, in nome della centralità e della capacità produttiva dell’utente stesso.
Ciò è accaduto, ad esempio, nella performance Do you trust me? in data 3 e 4 maggio 2020 che ha visto protagonista Nico Vascellari “live” dal suo studio romano attraverso il canale YouTube di Codalunga, scalzo e vestito di nero, nello spazio allestito con amplificatori e mixer, ripetere ossessivamente la frase “I Trusted you”.
I commenti degli utenti spaziavano tra le derisioni e le celebrazioni, dove però le differenze si annullano: vip, curiosi, italiani, stranieri, amici ...
Il riferimento utilizzato da Nico Vascellari è in realtà un’esibizione del comico e performer statunitense Andy Kaufman in “I trusted you” (1977), dove Kaufman, vestito da Elvis, ripeteva la frase per circa 3 minuti prendendosi gioco del pubblico. Dunque pare di capire che l’intuizione sia stata quella di trasformare la burla di Kaufman in una performance di 24 ore, dandole un altro significato. Ma la questione come anche ribadito dall’artista Tommaso Fagioli in un’intervista, non è se la scena fosse vecchia o nuova “semmai c’è da chiedersi qualcosa sulla loro necessità: perché si fanno le performance, e perché si guardano? Sono come memorie di riti (...) passati ma anche futuri, di configurazioni che magari non hanno mai avuto luogo o mai ne avranno di nuovo, che però rivelano la necessità psichica della performance-rito ab origine, in ogni cultura e in ogni tempo”. (8)
L’artista ha messo in scena un atto “live” che “invia il suo mantra elettrico di sfiducia o fiducia persa o ritrovata (…) pre o post-covid, fiducia in sé stessi, nel mondo, nella civiltà, nel governo, in dio. O magari nell’amore(9). Dipende poi dalle libere associazioni di ognuno, affinché queste parole “I trusted you” perdano il loro contesto, non significando più nulla, fino a diventare semplici fonemi. Sempre per citare Tommaso Fagioli “cosa ci ha consegnato? Nell’infinito cieco e variegato accadere delle cose, tutto ha senso e niente ha senso. Però qualcosa è accaduto.
La vita online non è solo una nuova condizione comunicativa che si sperimenta, ma il risultato di una consapevolezza della comunicazione come “luogo”, di una realtà che ha a che fare con la mente e il corpo, mediata e sostenuta dalla cultura di internet. Questa sperimentazione artistica ha significato ripensare la dimensione spettatoriale fra produzione e consumo, fra l’agire e il recepire un’opera. Questa ampia trasformazione di sistemi di comunicazione, reti telematiche e interfacce ‒ incluse le pratiche performative in simulazione ‒ fanno sì che l’opera, avvalendosi di tecniche di reti neurali, sfocino in cyberformance (10).
In questo quadro molto importante dal punto di vista epistemologico l’arte e la creatività hanno subìto (e si sono fatte allo stesso tempo carico) un cambiamento di prospettiva della comunicazione. L’idea, vale la pena di ribadirlo, è stata quella di promuovere azioni in cui l’esperienza della fruizione fosse considerata parte dell’opera e del suo risultato comunicativo. Se dunque l’arte e la creatività hanno veicolato un’idea e una pratica politica che ha messo in gioco degli spettatori partecipanti, coinvolti ma anche consapevoli di essere parte di un meccanismo di produzione che non poteva e non voleva più escluderli, lo scenario che appare oggi all’orizzonte di una riabilitazione post-covid sembra portare alle estreme conseguenze quel processo. Stati di creatività diffusa sostenuti dai social network e dalla logica che ne caratterizza forme e funzionamento e che, dal canto loro, sono segni dello spirito di questo momento.
 
3. Complotto di Tirana
 
L’allargamento e la diffusione online di quello che chiamiamo arte deve fare i conti con i suoi effetti perversi, con le strategie che tendono a incanalare le vocazioni espressive nei flussi meno nobili dell’industria culturale. Il “complotto di Tirana” (11), certamente ne è un esempio.
Correva l’anno duemila e il direttore della celebre rivista Flash Art, Giancarlo Politi, ricevette una pittoresca mail dall’artista Oliviero Toscani, in cui protestava per la sua posizione ‒ non lusinghiera ‒ fra i “Top 100” nella classifica dei migliori artisti in base al giudizio di critici e galleristi pubblicata nel periodico. Giancarlo Politi a questo punto decise di proporre al fotografo di curare una sezione della nascente Biennale di Tirana, in Albania. Il direttore del magazine coinvolse numerosi artisti, che per l’occasione vestirono i panni di curatori ‒ fra cui Maurizio Cattelan, Vanessa Beecroft, Nicolas Bourriaud, Francesco Bonami ‒ per un totale di venti.
Il fotografo Oliviero Toscani, ormai acclamato a livello internazionale per le sue immagini nelle pubblicità trasgressive firmate Benetton, accettò la proposta.
Ma era il vero Oliviero Toscani? Il direttore Politi non sembrò chiederselo.
È l’inizio del cosiddetto “complotto di Tirana”, una delle più famose beffe mediatiche italiane fin qui realizzate. Saranno Marcelo Gavotta & Olivier Kamping, pseudonimi dei due ignoti, gli autori del complotto che si spacciarono per Oliviero Toscani.
Il fotografo (falso) propose quattro artisti ancora sconosciuti, per rendere la Biennale indimenticabile, quattro personaggi però, fittizi (Dimitri Bioy, Bola Ecua, Carmelo Gavotta, Hamid Piccardo, quest’ultimo apprezzato dallo stesso Bin Laden e da Al Qaeda); Toscani (il finto) descrisse le sue (finte) creature in un lungo e sentito articolo pubblicato nel numero di Flash Art Italia del luglio 2001 e che venne poi presentato anche nel catalogo della Biennale di Tirana, insieme a quello degli altri curatori.
Al momento della scrittura di questo testo, non era ancora avvenuto l’attentato alle Torri Gemelle di New York (11 settembre 2001), e Oliviero Toscani (il finto) citò espressamente Osama Bin Laden (fra l’altro la Biennale di Tirana si inaugura il giorno 14 settembre 2001, tre giorni dopo l’attentato di New York e presenta in prima linea proprio un artista appoggiato del terrorista saudita). Per lo stesso motivo, Maurizio Cattelan deciderà di non partecipare, esponendo solo il suo silenzio.
Lo scherno non si limitò alla presentazione dei quattro artisti invitati alla Biennale, ma più eclatante è la creazione del manifesto di questa: l’immagine della bandiera albanese distorta, con un’aquila a due teste come quella dell’UCK (12). In un’Albania, sconvolta dai conflitti e circondata da paesi in guerra in cui la gente moriva per una bandiera, la proposta di Toscani risuonò pericolosa e grottesca tanto da essere osteggiata dalle autorità locali. Ma, grazie alle pressioni (del finto) Oliviero Toscani il poster divenne proprio il simbolo della rassegna, una bandiera distorta, con su scritto “Biennale di Tirana”.
Come si legge nei vari articoli sul tema, la faccenda durò un anno e mezzo senza che Giancarlo Politi avesse mai sentito la necessità di chiamare al telefono il vero Oliviero Toscani e senza che questi fosse venuto a conoscenza del proprio ruolo organizzativo della Biennale. Il nodo si sciolse solo alla fine, a beffa compiuta, quando appena pronto il catalogo, il direttore di Flash Art lo inviò all’indirizzo del vero Oliviero Toscani, che naturalmente cascò dalle nuvole, e successivamente assistito da due avvocati, denunciò un ignoto che si spacciava per lui, anche se ancora oggi non è chiara l’identità dei furfanti.
Come nella fiaba del “re nudo” di Hans Christian Andersen, il complotto scoprì chiaramente le carte dei giocatori del sistema dell’arte e dimostrò come la nostra evanescente società del presenzialismo e clientelismo brulichi di unanimi consensi che si poggiano su colonne vacillanti.
Il complotto di Tirana ad oggi, ci ha dimostrato che il fare arte è decisamente condizionato dal mercato, a sua volta monopolizzato dai commercianti-collezionisti che influenzano il settore, innescando un circolo vizioso che decide chi può essere artista e chi no. Tuttavia comprova che l’arte nella nostra contemporaneità è influenzata dal networking, inteso come capacità di creare relazioni funzionali a mantenere in vita le strategie di mercato sopra descritte e quindi ad avallare i meccanismi per cui alcune persone sono decretate artisti.
Il “complotto di Tirana” è solo il riflesso di un’epoca che ha smesso di farsi domande e che facilmente sostituisce una faccia a un’altra dimostrando, da una parte, che la sfida artistica attuale sta nell’invenzione di nuove modalità d’azione e nuovi contenuti, sempre se interessi ancora a qualcuno; dall’altra, quest’azione riscontra cinicamente il contrario.
L’urgenza di fare informazione, se non regolata da una linea comune di comportamento, rischia di favorire proprio quello contro cui ci si batte. La mancanza di moderazione dei contenuti, può diventare controversa se strumentalizzata da persone senza un’adeguata coscienza critica o consapevolezza politica, una problematica seria che si presenta giornalmente in molte dirette aperte agli interventi di tutti, per privilegiare la libertà di espressione.
 
4. Conclusioni
 
L’indice di una “presa di posizione” artistica in cui l’uso della telecamera non viene presentato come falsamente oggettivo e meramente documentaristico, ma riesce piuttosto a svelare i retroscena attraverso i quali il reale viene codificato e presentato al pubblico con tutti i suoi apparati simbolici, veicoli di forme di potere.
Nel corso di questi mesi è stato possibile dare voce direttamente alle persone di qualsiasi tipo, che vivono la propria quotidianità urbana, con l’idea che dal decentramento e l’autogestione scaturisca emancipazione. Allo stesso tempo, è stato dimostrato come il connubio tra reinvenzione dell’immaginario mediatico e messa in pratica delle capacità tecniche sia il paradigma che rende i movimenti di oggi capaci di inserirsi attivamente nel ciclo della produzione e del consumo, rispondendo alle dinamiche economiche con le stesse armi, ma con obiettivi sociali e politici ben diversi.
Ma la portata del “fenomeno covid” non sta tanto nella produzione di contenuti “alternativi” creati dal basso, quanto nel loro potente valore simbolico, nell’essere una rete che esprime nel suo insieme molto più di quello che i singoli nodi comunicano, con il probabile effetto collaterale di non rendere più evidente il carattere oppositivo che ha accompagnato l’esperienza iniziale del network, il cui campo di azione è andato oltre la mera comunicazione via etere. Un ulteriore passo da compiere insieme alla costruzione di portali comunitarie per tutti i cittadini, potrebbe essere quello di trovare un modo di reinventare e rilanciare le strategie simboliche che hanno fatto dell’esperienza covid un “movimento” forte ‒ anche se tristemente debole ‒ per mezzi e risorse. Forse è già in preparazione qualche altro tentativo per sfruttare dei “buchi” sociali, legislativi e politici in cui potersi reinventare incidendo non solo a livello simbolico, ma anche nel concreto. Del resto, in una comunità che tende a includere tutti in tutti i sistemi di funzione, cimentarsi nella produzione di forme nuove, assumerebbe significati importanti dal punto di vista dell’azione sociale. Mettendo in atto tattiche di comunicazione orientate al profitto, realizzando pseudo-eventi concepiti ad hoc per le aziende che accettano l’invito, lavorando sulla loro immagine e cercando di ottenere per loro la massima visibilità.
Oppure, è necessario pensare a delle strategie che siano realmente critiche, e che giochino con le stesse “armi”: non è detto che la quantità delle azioni sia proporzionale alla qualità.
 
Il tentativo di penetrare in queste profondità tematiche è fin qui approssimativo e dilettantistico; tuttavia le ricerche infruttuose di questa relazione spingono verso un approccio che, per quanto incauto, potrebbe essere di stimolo per altri.
20 Luglio 2020
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1) Lella Mazzoli, (a cura di), Network effect - Quando la rete diventa pop, Codice edizioni, Torino, 2009.
2) Per Mail Art s’intende quella pratica artistica d'avanguardia che consiste nell'inviare per posta a uno o a più destinatari cartoline, buste, e simili, rielaborate artisticamente. Una caratteristica tipica della Mail Art è quella dello scambio non commerciale; la Mail Art degli inizi era, in parte, una cerchia esclusiva di gallerie d'arte ed eventi che non prevedevano la presenza di una giuria. Il concetto di Mail Art Network affonda le proprie radici nel lavoro di gruppi precedenti, tra cui gli artisti Fluxus e l'idea di "multipli" o opere d'arte prodotte in edizioni. Più comunemente, gli artisti del Mail Art Network producono e si scambiano cartoline, timbri e francobolli (Artistamp) autoprodotti, buste decorate o illustrate personalmente.
3) Nettime è una mailing list proposta nel 1995 da Geert Lovink, Nils Roeller e Pit Schultz al secondo meeting del Medien Zentral Komm Committee (ZK) tenutosi al Teatro Malibran durante la Biennale di Venezia. Dal 1998 Ted Byfield e Felix Stalder furono moderatori della mailing list, moderando nel contempo altre liste che facevano riferimento alla famiglia Nettime. È stata ampiamente riconosciuta per il suo ruolo fondamentale di stimolazione e diffusione di idee su tematiche come Net Critique, Net Art e media tattici e fu pioniera sulle pratiche di "filtraggio collaborativo". Secondo alcuni, nel corso degli anni Nettime divenne la più celebre mailing list internazionale sul tema della cultura della rete. Fonte Wikipedia. https://it.wikipedia.org/wiki/Nettime (visitato il 10, 07, 2020).
4) Tanni Valentina, Net Art - Genesi e generi, testo pdf originariamente pubblicato in: Balzola Andrea – Monteverdi Anna Maria, Le arti multimediali digitali. Storia, tecniche, linguaggi, etiche ed estetiche delle arti del nuovo millennio, Garzanti, Milano, 2004.
5) Experiments in Art and Technology era un'organizzazione senza fini di lucro istituita per sviluppare collaborazioni tra artisti e ingegneri. Il gruppo ha operato facilitando i contatti interpersonali tra artisti e ingegneri, piuttosto che definire un processo formale di cooperazione. E.A.T ha realizzato progetti che hanno ampliato il ruolo dell’artista nella società contemporanea e hanno contribuito a esplorare la separazione dell’individuo dal cambiamento tecnologico. Fu lanciato ufficialmente nel 1967 dagli ingegneri Billy Klüver e Fred Waldhauer e dagli artisti Robert Rauschenberg e Robert Whitman.
6) Tanni Valentina, Net Art - Genesi e generi, op. cit.
7) Networked publics (pubblico in rete).
8) Intervista redazione Artribune a Tommaso Fagioli 24 ore di performance in diretta per Nico Vascellari. Il commento di un artista, 3 maggio 2020.
9) Ibidem cit.
10) Per “cyberformance” s’intendono spettacoli teatrali dal vivo in cui i partecipanti remoti sono abilitati a lavorare insieme in tempo reale attraverso il mezzo di internet impiegando tecnologie come applicazioni di chat o software di collaborazione appositamente costruito. Conosciuta anche come “performance online” o “networked performance”, può essere creata e pensata interamente online, per un pubblico online che partecipa tramite computer connessi a internet in qualunque parte del mondo oppure può essere presentata a un pubblico prossimale (come in teatro fisico o in una sala della galleria) con alcuni o tutti gli artisti che appaiono. Il termine (unione di “cyberspace” e “performance”) è stato coniato dall’artista e curatrice Helen Varley Jamieson nel 2000.
11) Bulian Francesca, 2001: il complotto di Tirana - storia della più grande beffa artistica di inizio millennio, Chinaski Edizioni, Genova, 2014.
12) Ushtria Çlirimtare e Kosovës, nome albanese dell'Esercito di liberazione del Kosovo e noto in inglese come Kosovo Liberation Army.