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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

A proposito della forma processionale nei lavori di William Kentridge

Brunella Velardi
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L’ambiente è buio, pervaso da un odore di umidità. Si intravedono pilastri in pietra che reggono arcate a ogiva; lo spazio si sviluppa longitudinalmente, come suggerisce la linea spezzata degli schermi illuminati che corre incerta lungo una parete. Le sedie invitano a prendere posto in un punto a scelta lungo la traiettoria a zig-zag tracciata dagli schermi, davanti ai quali stanno in piedi, come proclamatori rivolti alle folle, rudimentali altoparlanti di legno e latta. Lo spettacolo More Sweetly Play the Dance ha inizio tra le volte medievali degli Arsenali di Amalfi (1).
Una figura danza percorrendo lo spazio dalla fine all’inizio, stando a quello che siamo – per inveterata convenzione – abituati a considerare “fine” e “inizio”; poco dopo, gli schermi si popolano di figure che procedono nell’ordine che ci è più consueto, da sinistra verso destra. In breve tempo, lo sguardo abbandona l’incedere delle figure e comincia a spostarsi affannosamente da un punto a un altro, rincorrendone una che si avvia a scomparire, sbirciando la successiva che entra in scena, tornando, quando è già troppo tardi, su quelle che nel frattempo stanno scorrendo.
Nel giro di pochi secondi, ci troviamo attanagliati in una doppia condizione: quella di sagoma tra le sagome, profilo in ombra “costretto” a inseguire con gli occhi i profili che avanzano contro la parete, spinti per istinto a immedesimarci in uno di loro; e quella di corpo in uno spazio fisicamente determinato – dominato – dall’opera. Per meglio dire, da uno spazio che diventa esso stesso opera in presenza dell’opera, la quale è materialmente costituita da schermi, sostegni, proiettori, fili elettrici, altoparlanti, immagini, suoni, e infine vuoto architettonico, ombra, luce.
Abbiamo allora lo spunto per riflettere sulla consistenza dell’opera attraverso un duplice piano: quello di un discorso espresso attraverso la bidimensionalità del disegno – e dell’immagine in movimento che ne consegue – e quello che ci catapulta nelle quattro dimensioni dell’esperienza, attraverso cui l’opera balza via dalla sua superficie materiale per assumere lo status di installazione. More Sweetly Play the Dance è un pretesto, naturalmente, che tuttavia nel lavoro di William Kentridge assume valenze semantiche in grado di innervare lo spessore stesso della sua ricerca.
Molto è stato scritto sulla commistione di tecniche e linguaggi nel lavoro dell’artista, sul ricorso simultaneo alla manualità e alla meccanicità in cui la seconda non prende mai il sopravvento sulla prima, semmai si situa un gradino più sotto, in un ruolo ancillare (2), sul rapporto luce/ombra, sul peso determinante che il suo essere uomo bianco cresciuto in Sudafrica sui valori della lotta all’apartheid ha avuto nell’elaborazione dei suoi temi ricorrenti. Tutti aspetti di primo rilievo nell’analisi delle sue opere, tanto quanto l’eclettismo dei suoi riferimenti culturali.
Ma la riproposizione di More Sweetly Play the Dance, realizzata nel 2015 dopo l’epidemia di Ebola, nel 2020, in piena pandemia di Covid-19, in questo tempo sospeso tra la consapevolezza degli errori del prima e le aspettative riposte nel poi, fornisce lo spunto per una riflessione sul significato di una delle immagini forse più efficaci del lavoro dell’artista, quella della “processione”. Riportiamo questo termine tra virgolette perché la stessa immagine può avere molte denominazioni (corteo, sfilata, marcia, teoria, galleria, fregio), ognuna con accezioni assai diverse tra loro; tuttavia la parola “processione”, più spesso usata dall’artista stesso, ha in italiano una valenza prevalentemente religiosa, ma allo stesso tempo mantiene in sé il significato di “processo”, nel senso di “procedimento”, più rilevante nel contesto dell’analisi che ci avviamo a proporre.
Com’è stato rilevato, «Kentridge non si sofferma su singole immagini. Quello che gli importa è la loro successione, il loro “corteo”» (3), in parte mutuato dal passaggio delle ombre nella caverna del mito che Aristotele fa narrare a Platone nella Repubblica: un riferimento fondamentale per l’artista, su cui si aprono le Sei lezioni di disegno, trascrizione delle Norton Lectures tenute ad Harvard, compendio lucidissimo delle sue peregrinazioni tra la storia, l’arte, la filosofia, in cui ogni rigo meriterebbe una specifica esegesi (4). Ed è proprio il tema del passaggio, inscenato dalla processione, che assume un significato centrale nella lettura dell’opera. La parola “passaggio”, d’altro canto, ritorna continuamente nelle lezioni, e non può non ricollegarsi all’immagine dell’artista che cammina, mani in tasca, nel suo studio o sulle pagine di un’enciclopedia. Quello del camminare è un atto costruttivo per Kentridge: «Girare a vuoto per lo studio significa evocare e invocare immagini e anche deciderne il destino, decidere quale deve avere la precedenza, da dove iniziare» (5): un’azione necessaria dunque, propedeutica a una scelta, o a uno stadio di conoscenza che segue l’indeterminatezza del pensiero. Il “corteo” allora, questa immagine fatta di figure che incedono in una medesima direzione, sembra proporsi come metafora di una condizione in fieri, in cui l’azione del camminare diventa in sé – quasi a sentire un’eco di derivazione situazionista – dispositivo di conoscenza, per la quale centrale è il moto e non la meta.
Non si tratta di una scelta pacifica per Kentridge: «La linearità della lingua, il concatenarsi dei pensieri diventano inadeguati per descrivere quello che accade. Neanche “flusso di coscienza” è una formula adeguata, implica il fluire di un pensiero nell’altro. Dovrebbe esserci un modo per registrare l’autostrada della coscienza. Molti pensieri in diverse corsie parallele, certi sorpassano, certi ne spingono un altro sul ciglio della strada e quello si blocca in mezzo ai lavori in corso. Finché un pensiero non supera tutti gli altri, imbocca la rampa d’uscita e plana sulla pagina. Questo è il problema che sorge nell’ordinare gli elementi della lezione in progressione lineare, in una processione che avanza da un lato all’altro, quando invece ciò di cui avremmo bisogno è un assalto frontale di tutte le immagini insieme» (6). Eppure, arriva il momento in cui l’indefinito agglomerarsi del pensiero e la contraddittorietà di ciò che accade devono trovare una forma, devono essere descritti in un modo che ci sia comprensibile, non fosse altro che per essere denunciati per quello che sono, indefiniti e caotici. Infine, allora, diventano processione. Qui, come in The Refusal of Time (2012), o in Naples Procession (2012), o in Triumphs and Laments (2016), sia l’immagine fissa o in movimento, la lettura della storia – e della vita – trova la sua forma nell’immagine della processione. Non può che assumere quella medesima morfologia che per l’artista coincide con il momento poietico, lo precede e lo determina: il camminare.
È evidente che si tratta di una forma particolarmente efficace perché familiare a molte e diversissime culture, nonché per la sua capacità di declinarsi nei significati più disparati: religioso, politico, ideologico, celebrativo, rituale. Può leggersi in senso spirituale ma anche laico, e al tempo stesso non ha bisogno di spiegazioni: nessuno si chiederebbe, osservando una processione, cosa stiano facendo quelle persone che camminano nella stessa direzione. Allo stesso tempo, la forma della processione sembra rispondere a quella medesima urgenza di sintesi, in virtù della quale si accettano i compromessi delle convenzioni: non è possibile riprodurre il globo terrestre così com’è, perciò lo si riduce graficamente ad un planisfero; non conosciamo un modo per rappresentare “un assalto frontale di tutte le immagini insieme”, a meno di non incorrere in un illeggibile e inservibile ammasso di oggetti, perciò non resta che “distillarlo” in una serie di figure che convivono nello stesso spazio, intessendo tra loro rapporti diversi.
D’altro canto, la processione ha il suo senso finché è in atto, guai a stabilirne la meta: «Siamo giunti a un punto in cui tutte le destinazioni, tutte le fonti luminose, destano sospetto. La luce alla fine del tunnel troppo in fretta si tramuta in una lampada per il terzo grado» (7). Individuare un inizio e una fine equivarrebbe a imporre una gerarchia, una fase ascendente, un’acme, una fase discendente. La processione di Kentridge, invece, è una paratassi perfetta, in cui ogni elemento ha la medesima rilevanza e il medesimo peso nelle implicazioni; scorre in una dimensione temporale unitaria, prima e dopo, causa ed effetto coesistono – non si può considerare l’una senza l’altro e viceversa; così come ad ogni trionfo, il suo lamento (8).
La vicenda biografica di William Kentridge, la sua condizione di discendente di ebrei rifugiatisi in Sudafrica e cresciuto nel clima di smantellamento dell’apartheid, nella sua peculiare specificità, si offre come lente da cui osservare le ambiguità e contraddizioni del mondo, quelle stesse che vengono poi condensate nell’immagine della processione-corteo. L’Africa, in altre parole, non è semplicemente il retroterra culturale dell’artista, ma lo spazio in cui si condensano, storicamente e metaforicamente, le contraddizioni, gli errori, le ambiguità, le incertezze, le ambizioni e le paure della prospettiva occidentale sul pianeta. Il mito della caverna è “illuminante” e fuorviante allo stesso tempo, e su questa linea di confine si è mosso il pensiero occidentale nel corso dei millenni successivi: la realtà delle cose, l’equilibrio nella loro percezione, si situano in un terreno intermedio tra il buio della caverna e la luce accecante dell’esterno, entrambe condizioni rischiose, come la storia insegna.
Il processo inscenato indica allora una instabilità, il consapevole rifiuto di una destinazione prefissata. Ma come dare forma alla processualità della storia – e della vita? È qui che, nella scelta del movimento lineare, assumono un’importanza cruciale interruzioni, interferenze, moti contrari. Il passaggio non è un’azione che procede indisturbata nel flusso del tempo: è fatto di pause, ripensamenti, errori, ripetizioni, oblii. Ne sono sintomi il vuoto di memoria sulle sponde del Tevere, quell’area lasciata in nero in cui si condensa (quello che non ricordo), o l’esitazione «C’è scritto, qui c’è una pausa, negli appunti. La separazione tra me che scrivo, nel mio taccuino, e il sé che passeggia per lo studio e pensa: come andiamo avanti?» (9). La dimensione analogica del disegno assume allora, accanto al ruolo di imprescindibile terreno creativo, quella irrinunciabile funzione di negazione di ciò che il video confeziona come moto direzionale, di sentinella sulla non linearità delle cose a dispetto dell’apparenza, tanto sul piano della tecnica esecutiva: «[…] charcoal, camera, rubber eraser, screen, music, movement, materials suspended between contingency and agency, between mark-making and erasure, ghostly deposits of charcoal and the grain of celluloid. These practices disrupt linear procession or progress, enacting dissying reversals and leaps in time» (10); quanto su quello delle scelte installative: «The moments of invisibility between screens repeatedly interfere with the linearty and legibility of any idea of progress – or regress – suspending the procession in a recurring danse macabre» (11).
Se il senso delle cose, la loro capacità di conformare la storia, non si trova in un termine ultimo, vale a dire non si trova nella risposta, ma nella domanda, allora, sembra dirci Kentridge, la destinazione del cammino è il cammino stesso, né un luogo, né un tempo: così come «è negli interstizi, nel salto concettuale che facciamo per completare un’immagine che compiamo un atto generativo per costruire la forma» (12), parimenti «È solo nell’incertezza del trasloco, nel limbo del trasferimento e dell’instabilità, che [le cose stesse] sono al posto giusto: nell’interstizio tra due certezze» (13). Diviene allora necessario concedersi «di non essere né i prigionieri nella caverna, incapaci di comprendere quello che vediamo, né l’onnisciente filosofo che ritorna alla caverna con tutte le sue certezze. Concediamoci di abitare la terra di mezzo, lo spazio tra ciò che vediamo sul muro e la forma che inventiamo dietro la retina» (14).
Quest’ultimo passaggio aiuta a chiarire il rapporto che, nel lavoro di Kentridge, si instaura tra le due e le tre dimensioni, tra la superficie dello schermo e l’ambiente, tra video e installazione. Si tratta ancora una volta di una scelta di sintesi formale. Com’è stato osservato, «il teatro delle ombre, la scatola nera e l’inversione della pellicola dal positivo al negativo, la struttura panoramica della videoinstallazione multipla, sono tutti dispositivi tecnici che non solo influenzano ma costituiscono un senso legato alla loro struttura materiale» (15). Se la forma processione è funzionale a mettere in scena il concetto processo, quell’ineffabile divenire che trova corrispondenza nella figura dell’interstizio e nella condizione di instabilità, continuamente rilanciate nella tensione tra “fatto a mano” e “fatto a macchina”, la forma installativa diviene allora dispositivo in grado di dare corpo a quella “terra di mezzo” che l’artista ci invita ad abitare. Situati al confine tra il buio che si estende alle nostre spalle e la luce riflessa emanata dagli schermi fino a infrangersi sul nostro sguardo, metà ombre e metà corpi in carne e ossa, ci scopriamo essere, allo stesso tempo, metà schiavi e metà filosofi, coscientemente immersi in un «recinto all’interno del quale è richiesta non soltanto attenzione ma incondizionata adesione alle regole stabilite dall’artista» (16). All’estremo opposto dell’accecante lucore del white cube, il buio diviene allora materia dell’opera, quello spazio di dubbio, di presa di coscienza di “quello che non ricordo”, di necessaria interrogazione al cospetto della storia che scorre sotto i nostri occhi.
20 ottobre 2020
1)William Kentridge, More Sweetly Play the Dance, 2015. L’opera, presentata per la prima volta all’Eye Filmmuseum di Amsterdam nel 2015, è attualmente esposta negli Antichi Arsenali della Repubblica di Amalfi nell’ambito del progetto “Amalfi e oltre” dedicato alla figura di Marcello Rumma. Cfr. Stefano De Stefano, Kentridge ad Amalfi: il mio lavoro nato dopo una pandemia, in «Il Corriere del Mezzogiorno», 2 settembre 2020: https://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/arte_e_cultura/20_settembre_02/kentridge-ad-amalfi-mio-lavoro-nato-una-pandemia-579044f0-ecf5-11ea-b37b-1bba2e671e73.shtml (consultato il 6 ottobre 2020).
2)«I cartoni animati di Kentridge sfidano i due mezzi tradizionali con cui l’arte del Novecento ha tentato la carta del movimento: il film a passo ridotto, e soprattutto nella misura massiccia che si è vista, il videotape. Ma contro la “mancanza di anima” che è propria di quei mezzi di racconto affidato a un filtro meccanico la via sperimentata da Kentridge è invece ricca di coefficienti artistici nel senso più pieno e anche, se si vuole, tradizionale della parola, il “fatto a mano” si prende una sua rivincita sul fatto a macchina», Renato Barilli, Prima e dopo il 2000, Milano, Feltrinelli, 2006, p. 199.
3) Andrea Cortellessa, Speciale William Kentridge. Il tempo che scorre, in «Alfabeta2», 14 maggio 2016: https://www.alfabeta2.it/2016/05/14/william-kentridge-tempo-scorre/ (consultato il 7 ottobre 2020)
4) William Kentridge, Sei lezioni di disegno, Milano, Johan&Levi, 2016.
5) Ivi, p. 49.
6) Ibidem.
7) Ivi, pp. 15-16. Come spiegherà più avanti nelle lezioni, la luce è assurta, nella tradizione occidentale, a metafora delle distorsioni di quel dominio della ragione che, dal filosofo rivelatore della verità nel mito di Platone, giunge fino al trionfo classificatorio e razionalizzante del pensiero illuminista: «Ogni atto di illuminismo, tutte le missioni per salvare vite, tutti i miglior intenti sono compromessi da quello che ne consegue: la loro stessa ombra, la violenza che ha accompagnato l’illuminazione. Il progetto coloniale, per come descrive se stesso – cioè come fonte di luce per il Continente nero – è un raccapricciante esito degli stimoli offerti dalla caverna di Platone», ivi, p. 46.
8) Cfr. Lila Yawn (a cura di), Kentridge’s Triumphs & Laments - The Figures / Le Figure, s.p., 2017
9) Willam Kentridge, op.cit., p. 25.
10) Homi K. Bhabha, Processional ethics: William Kentridge’s More Sweetly Play the Dance, in «Artforum», vol. 55, n. 2, ottobre 2016, p. 3: https://www.artforum.com/print/201608/processional-ethics-william-kentridge-s-more-sweetly-play-the-dance-63452, (consultato il 7 ottobre 2020).
11) Ivi, p. 10.
12) William Kentridge, op.cit., p. 30.
13) Ivi, p. 56. Qui l’artista, a partire dal caso di un diorama di una famiglia di boscimani sulla cui collocazione tra il Museo di storia naturale e il Museo di storia culturale di Città del Capo si accese un dibattito nel contesto sudafricano post-apartheid, fa più in generale riferimento a casi simili nei musei europei: «I musei africani coprono tuttora spazi dai confini controversi e confusi, non solo in Africa. Ci sono ancora ambulanze che viaggiano da un capo all’altro di Parigi trasportando esemplari dal museo di Quai Branly al Louvre, dove sopravvive una piccola sezione dedicata all’arte africana grazie alla quale oggetti fatti in Africa sono inclusi nel sommo pantheon degli artisti e dei loro lasciti; altri viaggiano dal Louvre al Quay Branly per compiere un’altra restituzione, essere visti non più come astratte incarnazioni di bellezza, ma come manufatti da rispettare, da spiegare in modo esauriente. […] In quale dei due spazi si garantisce loro il giusto riconoscimento? In entrambi e nello spazio tra l’uno e l’altro, oserei dire. Quando risiedono stabilmente ben sistemati nell’una o nell’altra sede, allora sono nel posto sbagliato», pp. 55-56. Queste righe, che precedono quelle riportate nel testo, chiariscono efficacemente il senso di transitorietà insito nella scelta della forma processionale nei suoi lavori, offrendosi come più ampia interpretazione del suo pensiero.
14) Ivi, p. 33.
15) Valeria Burgio, William Kentridge, Milano, Postmedia Books, 2014, p. 8.