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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Ripensare oggi Francesca Alinovi 
 
Patrizia ManiaIcoPDFdownload
 
Non c’è differenza sostanziale tra il fare e lo scegliere l’arte” (1)
Guardando alla sua storia e rileggendone gli scritti, Francesca Alinovi appare in un arco temporale compreso tra la fine degli anni’70 e l’inizio degli ’80 una pioniera nel controbilanciare lo studio e la costruzione della storia dell’arte con il viverne l’esperienza prendendovi partito. Attraverso uno stile di scrittura ben delineato da Veronica Santi come “intimo, scientifico e spregiudicato” (2), ha colto in prospettive inedite la flagranza dell’arte che riteneva esprimere al meglio lo spirito dei tempi, rivisitando al contempo anche alcuni episodi chiave dei decenni precedenti e così avviando riflessioni che si riveleranno a distanza di tempo avveniristiche. Il suo aprirsi repentinamente alla descrizione e interpretazione della creatività contemporanea può ragionevolmente indurci a ritenere che sia stata letteralmente “folgorata” dall’arte che di volta in volta scelse di analizzare e che ricondusse, con un linguaggio sempre puntuale nel condensare i significati, nell’alveo di un complesso critico nel quale dettaglia radici, sviluppi e proiezioni.
Critica militante, figura carismatica nel panorama artistico italiano e internazionale e anche ricercatrice e studiosa attenta. Del suo peso, degli aspetti peculiari del suo pensiero e del suo operativismo si è ricominciato a parlare da poco meno di un decennio. Quasi un’amnesia ha infatti oscurato per circa un trentennio una delle personalità più piene della critica d’arte che si rivela oggi anticipatrice di molte delle questioni che avrebbero in seguito acceso il dibattito.
La stretta aderenza e contaminazione del suo fare ricerca- critica e storico artistica -  con la vita del suo tempo e con la sua stessa esistenza è un carattere peculiare su cui lei stessa ha avuto modo di insistere sottolineandone l’identificazione sostanziale, osmotica, tradotta anche nell’immagine di sé che caparbiamente plasma.  Non c’è cesura tra il suo essere impegnata accademicamente come ricercatrice al DAMS, praticare la critica d’arte militante e esibire, quasi ostentare, la sua immagine come imprescindibile corollario delle scelte fatte.
Nonostante la sua parabola si esaurisca in soli sette anni, dal 1976 al 1983, il lascito dei suoi testi - un corpus straordinariamente elevato di saggi, articoli, recensioni, interviste e presentazioni in cataloghi -, delle cure di mostre e appunto dell’immagine esplicativa che forgiò di sé oltre a riflettere nitidamente il suo originalissimo sguardo sull’arte contemporanea consente di riconoscervi un punto di riferimento per certi versi essenziale nella comprensione di quel periodo.
Nata a Parma nel 1948, Alinovi muore a soli 35 anni a Bologna. Nell’estate del 1983 è vittima di un femminicidio che nell’attenzione quasi morbosa che si scatenò nei media – si scrisse e si disse troppo - finì per fagocitare e in certo modo esaurire nel sensazionalismo del fatto di cronaca nera l’attenzione su di lei.    
 Ancora di recente, Matteo Bergamini che ha curato insieme a Veronica Santi l’ultima raccolta di scritti di Francesca Alinovi, stigmatizzando questa negligenza, scrive lapidario che si è trattato di “una voluta dimenticanza storica, spodestata della sua luminosità intellettuale per diventare ‘il caso giudiziario’, la storia della professoressa del DAMS assassinata”(3). E, nello stesso volume, Santi si chiede e ci chiede “Perché il suo nome è scomparso dai libri di storia dell’arte?” (4). Se da un lato, dunque, occorre prendere atto dell’inevitabile sopravvento che tale tragica vicenda ha avuto sulla valutazione della sua figura di intellettuale, derubricandola a caso giudiziario, non sono mancate nei quasi quarant’anni successivi alla sua scomparsa alcune pregevoli occasioni di riconsiderazione e riflessione.
Sporadiche a onor del vero.  A ridosso della sua morte, nell’anno successivo si porta avanti il progetto da lei avviato della mostra Arte di frontiera alla Galleria comunale d’arte moderna di Bologna (5) e per le edizioni de Il Mulino viene pubblicata una raccolta di suoi scritti che, prendendo ispirazione da un suo articolo, sarà intitolata L’arte mia (6). Due tributi fondamentali cui seguiranno negli anni successivi episodici richiami.  Solo trent’anni dopo la sua scomparsa si comincerà ad assistere a tentativi più sistematici di riconsiderazione. Tra le iniziative maggiormente significative, risale al 2013, in concomitanza con il trentennale della sua scomparsa, la giornata di studi Indagini di frontiera. Sulle tracce del percorso critico di Francesca Alinovi (7), curata da Gino Gianuizzi e Claudio Marra al MAMBO (8). Due anni dopo, nel 2015 esce il volume curato da Maura Pozzati Artiste della critica (9) che ospita tra gli altri il saggio “Francesca Alinovi e l’arte sua” di Fabiola Naldi che assolve, anche per la sede in cui appare, ad una evidente funzione riparatrice all’ esclusione perpetratasi nei decenni. Un’altra pietra miliare nella ricognizione su Alinovi va considerato il film documentario I am not alone anyway girato nel 2017 da Veronica Santi in cui è ripercorsa la sua vicenda con testimonianze di quanti lavorarono o ebbero modo di conoscerla– artisti, storici dell’arte, critici, galleristi, amici - (10). Lo stesso anno esce il volume Francesca Alinovi. In suo ricordo di Antonella Colaninno e Gian Ruggero Manzoni (11) Infine, nel 2019, la stessa Veronica Santi insieme a Matteo Bergamini curerà, come già si è accennato, la pubblicazione di una estesa raccolta di scritti di Francesca Alinovi per le edizioni postmediabooks (12). Da ultimo, si è svolto il 23 febbraio 2022 al MAXXI di Roma un simposio dal titolo Francesca Alinovi. Militanza della critica d’arte e contaminazioni dei linguaggi artistici curato da Paola Ugolini e Veronica Santi nel corso del quale si è potuto assistere alle testimonianze e riflessioni di un nutrito gruppo di artisti, storici dell’arte e critici d’arte (13).
Francesca Alinovi è stata in modo eccentrico figlia del proprio tempo. Un tempo che segna il passaggio tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta e in cui si consuma un momento di straordinaria densità.  Da un lato, su un piano culturale generazionale, si affermano le vitalistiche istanze di sovversione portate avanti dal cosiddetto movimento del ’77 con tutto il suo portato di innovatività e di controcultura nello sfrangiamento del precostituito; dall’altro, su un piano riconducibile più prettamente alla sfera politica, si assiste alla simultanea tensione dei cosiddetti anni di piombo che, come è stato detto, chiuderanno in anticipo la guerra fredda aprendo a nuovi scenari politici, ideologici, culturali. Sono condizioni congiunturali che, in misura diversa e in un’analisi di contesto della personalità intellettuale di Alinovi, si rivelano imprescindibili.
Sotto il profilo dell’attività critica, l’anno di svolta nella breve storia di Alinovi viene a ragione considerato proprio il ’77. Attraverso la lente dell’arte assorbe e metabolizza le peculiarità più estreme e radicali degli umori di questo cruciale anno in un modo per cui la scelta dell’arte del presente significherà per lei strumento e fine linguistico critico da perseguire per ribaltare le nozioni assopite e innervare di nuova linfa il pensiero eccentrico del quale si fa portatrice.
La scena, il luogo di base, da cui prende le mosse all’inizio e dove ritorna alla fine, è Bologna che si presenta in quegli anni come il perno di un’effervescenza vitalistica senza eguali. Come non ricordare che, ad esempio, proprio da Bologna comincerà a trasmettere nel febbraio del 1976 Radio Alice, la radio libera forse più famosa di quegli anni, la prima a concepire la comunicazione come un flusso libero di informazioni, idee, scambi. Sul piano letterario, ha raccontato quel momento, forse meglio di tutti, Pier Vittorio Tondelli che ha saputo ritrarre nelle sue pagine di Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni Ottanta (14) e in maniera ancora più efficace qualche anno prima in Altri libertini (15) uno stile di vivere che apparteneva e identificava oltre i movimentisti di Bologna un’intera generazione. Francesca Alinovi, della quale non può dirsi sia stata propriamente un’attivista politica, si appropria e fa sue queste “onde” - termine così spesso non a caso reiterato nei suoi scritti –. Proprio queste correnti, considerando le traiettorie che la sua critica e i suoi scritti di storia dell’arte andranno nel tempo sperimentando e sviluppando, ne tratteggiano il background.
Accanto a Bologna, l’altro luogo di riferimento è New York dove approda per la prima volta nell’autunno del ‘77. Il primo impatto con la grande mela è a cospetto della Pattern Painting, peraltro ancora completamente ignorata nel vecchio continente. Ne rimarrà folgorata. Parlerà lei stessa in proposito di un “rapimento estatico” (16).  Nell’East Village a contatto soprattutto con il Writing e il graffitismo scopre un modo di pensare e vivere l’arte antinomico a quello che caratterizzava negli stessi anni l’Italia. Qui infatti prevaleva ancora il Concettuale da lei definito “arte molto raffinata e solenne” (17): quasi un epitaffio. Fu proprio a New York che avrà modo di coltivare l’interesse per la cultura New Wave e dipanare via via quell’idea di “arte di frontiera” che diverrà un sestante della sua riflessione.  Avrà modo di conoscere vari artisti, tra cui Kenny Scharf e Keith Haring che diverranno suoi compagni di strada configurando al meglio quell’idea di sconfinamento creativo che l’appassionerà. Proprio l’infatuazione per i graffiti e la vita del Bronx, oltre che per gli spazi della vita notturna - i locali, le discoteche - così impregnati di creatività artistica e che rappresentavano in quegli anni una novità assoluta non ancora trapiantata in Europa (18), situeranno il suo fare e il suo pensiero sull’arte lungo un crinale appunto “di frontiera”. Ne scrive in un articolo uscito nel giugno del 1983 su Flash Art come di “un’arte intermedia, ai margini, ai limiti tra l’arte e la non arte, tra l’arte e l’arte di strada, tra l’arte e la vita, è un’arte che sta anche alla frontiera tra la cultura e la non cultura, tra l’emarginato e l’integrato” (19). Per lei è lo “slang del duemila” (20). Trattando dei nuovi linguaggi di strada dei graffitisti, farà riferimento anche all’emergenza della cultura nera – Rammelzee e AOne – e al rapporto con il primitivo e con la tecnologia che in maniera originale ciascuno di loro sviluppava su qualsiasi superficie. Trattando di Keith Haring che anche grazie a lei avrebbe poi goduto di una particolare accoglienza in Italia, scrive: “abilissimo nel disegnare velocemente su qualsiasi superficie piana disponibile, tela, carta, vinile, muri esterni, palizzate in legno, spazi per l’affissione pubblicitaria” con “una scrittura pittorica, formata da grovigli di segni ad inchiostro o gesso bianco che scorrono come flussi di immagini in perenne compenetrazione e metamorfosi” (21). Analoghe caratteristiche riconoscerà in Kenny Scharf di cui scrive che “dipinge su qualsiasi oggetto, mobile, utensile, tecnologia o cosa trovata” (22). In proposito un mirabile esempio sarà proprio l’intervento ambientale realizzato a casa sua dove a partire dal 1980 soggiorna per lunghi periodi e dove dipinge il soffitto con i Flintstone e decora vari oggetti che ambienteranno un suo famoso ritratto fotografico. Da Bologna a New York e ritorno i paesaggi si configurano dunque diversi ma inaspettatamente convergenti nelle sue aspettative.
Un po’ di New York trasmigra anche per questa via a Bologna dove tornando a quel fatidico ’77 comincia la sua ascesa di critica anche nella cura di mostre. Dapprima con la partecipazione in veste di co curatrice, insieme a Renato Barilli, Roberto Daolio, Marilena Pasquali, Franco Olmi, alla I Settimana Internazionale della Performance che si svolgerà dal 1 al 6 giugno del ’77 alla Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna, replicando lo stesso impegno nelle successive edizioni fino al 1982. Com’è noto, per sei giorni, lungo le sale espositive e negli spazi esterni del museo si succederanno ininterrottamente dal pomeriggio alla sera quarantanove azioni di artisti italiani e internazionali. Un evento epocale presentato da Renato Barilli con queste parole: “Sotto gli occhi di tutti, almeno dei presenti, avvengono appunto le esibizioni nude e dirette del corpo con tutti i suoi prolungamenti; ma l’occhio nudo degli spettatori che fanno circolo è prontamente doppiato dai molti occhi meccanici o elettronici degli apparecchi fotografici e delle ‘camere’ che coi loro clic e il loro tenace ronzio fanno da sottofondo…” (23). La sua riflessione metteva a fuoco il carattere particolare di esperienze artistiche immateriali e impermanenti e la necessità di affidarne la testimonianza al film, al video e all’immagine fotografica ribadendo il nesso indissolubile tra tecnologia e arte. Nel catalogo Alinovi pubblica una serie di schede dove descrive le azioni performative svoltesi. Sue sono le schede su Giuseppe Chiari, Laurie Anderson, Luca Patella, Bonizza e Leopoldo Mastelloni, Linda Christanell, Luigi Ontani, Robert Kushner, Plinio Mesciulan e in ognuna di esse accanto alla descrizione delle singole azioni non manca il timbro interpretativo sempre “folgorante”. A proposito per esempio dell’azione performativa di Luca Maria Patella Semanticamente/ Se ma antica mente scrive: “Le parole, come bombardate per mezzo di un processo di fissione atomica, esplodono e si disintegrano perdendo la loro vernice di decoro e di rispettabilità, mostrando senza pudori il sangue che scorre sotto la pelle e riacquistando una sorta di vitalismo prealfabetico originario come quando le lettere, prima di essere rigidamente allineate e fissate in ruoli prestabiliti potevano liberamente trasmigrare da una parola all’altra, calamitandosi e respingendosi a vicenda, in un agile balletto dal numero pressoché infinito di combinazioni”(24). Una scrittura vibrante che è un tratto riscontrabile in tutta la sua produzione. La densità di ogni suo scritto si constata oltre che nella lucidità di interpretazione, nella determinazione euforica del timbro assertorio veicolati da un glossario ricercatissimo ed esplosivo. La sua scrittura non solo descrive immagini ma è essa stessa evocativa di ulteriori immagini.
La cura delle mostre, in un periodo in cui ancora non si parlava di curatori d’arte ma semplicemente di critici, la conduce a partire da quel momento ad una intensa attività che la vede collaborare sia con spazi privati che pubblici. Dal 1977 al 1982 continuerà a curare nella stessa veste le successive Settimane Internazionale della Performance presso la Galleria Comunale d'Arte Moderna di Bologna; cura poi Pittura-Ambiente, tenutasi a Milano a Palazzo Reale nel 1979; Dieci anni dopo. I Nuovi-nuovi, a Bologna, alla Galleria Comunale d'Arte Moderna nel 1980; e nello stesso anno The Italian Wave, a New York, alla Holly Solomon Gallery. Sempre in quell’anno comincia a spostare l’interesse verso l’Enfatismo che diverrà l’ultimo capitolo della sua avventura nella critica d’arte e le cui anticipazioni possono riscontrarsi nella mostra ORA! svoltasi a Pescara, presso lo Studio Cesare Manzo. Ancora in questo rapido excursus si ricorda, due anni dopo, la presentazione della mostra personale di Marcello Jori, sempre a Bologna, alla Galleria De’ Foscherari, e nel 1982 la cura della sezione fotografica della mostra Gli anni trenta svoltasi a Milano, a Palazzo Reale, oltre a Registrazione di Frequenza, ancora a Bologna, alla Galleria d'Arte Moderna e a Milano Una generazione postmoderna.
A partire dal 1980 Alinovi inizia a scrivere per la rivista Domus che era allora diretta da Alessandro Mendini ed entra in contatto con il gruppo Alchimia e Ettore Sottsass, Michele De Lucchi, Andrea Branzi, Paola Navone e gli Ufo. Pubblica quell’anno su Bolaffi Arte il Testo Casa di bambola dove celebra proprio il rovesciamento dei “consueti rapporti che l’uomo intrattiene con gli oggetti artificiali che popolano il suo ambiente” (25). Gli interessi plurali, multidirezionati di Alinovi hanno o onor del vero contemplato di continuo incursioni verso aspetti fenomenologici eterogenei che spaziano dal design, al fumetto (26), alla moda ai luoghi della creatività espansa in un continuum dove a prevalere costantemente è l’idea di un’estetica diffusa che va a braccetto con la vita. “Le discoteche come set cinematografici: palcoscenici su cui si può ballare, guardare, meditare, ascoltare, in un ibrido incontro tra arte e design” scrive per esempio (27). Lei stessa, come accennato, si fa interprete dell’immagine.  Non un aspetto secondario ma assolutamente dirimente per comprendere appieno la sua personalità e le sue scelte intellettuali e creative. Dell’immagine di sé scelta da Francesca Alinovi che nel giro di pochi anni muta totalmente il suo outfit passando da uno stile quasi collegiale a post punk possiamo cogliere l’essenza in un articolo pubblicato sul numero 629 di Domus nel giugno del 1982 dal titolo Il vestito come autoritratto dove in bilico tra arte e moda dà conto delle nuove tendenze d’oltreoceano dalla West Coast a New York (27). Per Maria Luisa Frisa, la cifra stilistica di Alinovi è incontrovertibilmente quella del punk e in questa direzione si farà essa stessa opera d’arte vivente negli “inauditi accostamenti tra cose diverse” che caratterizzeranno il suo personaggio (28).
Dagli sconfinamenti geografici, fisici, mediali all’ultimo momento della sua parabola nella critica coincidente con gli artisti che lei chiama Enfatisti, il passaggio può dirsi fluido, senza cesure nette come se tutte le esperienze precedenti potessero in ogni caso condensarsi e legittimarsi l’un l’altra. Questi ultimi rappresenteranno un capitolo di intima condivisione tutto italiano, disse infatti: “sono amici miei e sentono come me, e io sento come loro” (29). Così come la mostra Arte di frontiera anche l’articolo sull’Enfatismo apparirà postumo pubblicato nel numero 115 della rivista Flash Art di cui da anni era collaboratrice (30). In questo articolo dopo aver introdotto il significato del neologismo “Enfatismo” declinandolo come “enfasi dell’estasi” specifica che si tratta di una specie di malattia da cui sono affetti alcuni artisti nati nel biennio ’58 ’60 e accomunati da quelle che chiama “onde telenfatiche” (31). “L’enfatismo – dichiara – è una parodia dell’esistenzialismo, una stilizzazione dell’esistenza, un’enfasi maniacale della quotidianità più accesa” (32). Le precedenti occasioni nelle quali si era cimentata con questi artisti, molti dei quali erano stati suoi allievi al DAMS, risalgono, come si accennava, a tre anni prima quando nel 1980 li presenta senza l’egida dell’enfatismo nello studio di Cesare Manzo a Pescara nella mostra Ora! (33) e successivamente in quello stesso fatale 1983 quando li propone in una mostra alla galleria Neon a gennaio e poi a marzo, sempre a Bologna, in Arte Fiera. Il gruppo, seppure la definizione di gruppo sembrerebbe inappropriata visto l’eccedere delle singole individualità, si componeva di una decina di artisti, o almeno di questi tratta citandoli nel suo articolo: Francesco Ciancabilla, Ivo Bonaccorsi, Gino Gianuizzi, Valeria Medica, Maurizio Vetrugno, Emanuela Ligabue, Andrea Taddei, Claudio Bacilieri, Lucio Angeletti e Beppe Blasi. Artisti all’incrocio tra arte, design, teatro, fotografia e movimentismo. Gino Gianuizzi, per esempio, è tra l’altro noto per essere stato il fondatore della storica galleria bolognese Neon e in una recente intervista ha dichiarato a proposito di quella stagione e di quegli intenti: “Quando la GAM inaugura la mostra Arte di frontiera io e tutto il gruppo degli Enfatisti siamo in totale disfatta. Francesca era stata il nostro elemento catalizzatore, erano state la sua capacità, la sua intelligenza flessibile e curiosa, la sua visionarietà a fare di una banda di sbandati un laboratorio collettivo di pensiero e di elaborazione teorica, prima che un movimento, l’ultimo degli ‘ismi’ del ‘900” (34). Ciascuno degli artisti menzionati proseguì poi per una propria strada e nonostante sia stato fatto nel 2013 a New York allo Spazio 522 (35) un tentativo di rimetterli insieme, appare evidente come l’assenza di Alinovi non renda possibile trattare dell’Enfatismo come di un fenomeno che ha attraversato il trentennio. La morte della sua guida ne ha spento il vigore riconducendolo a una breve stagione almeno sul piano nominale nonostante la maggior parte dei suoi protagonisti abbia continuato a lavorare sul percorso tracciato.
Negli anni in cui Alinovi si affaccia sull’arte, sullo sfondo di quella società post industriale dei mass media, il dibattito della critica si sviluppa in primis sull’urgenza di aggiornamenti ermeneutici e metodologici. Proprio su queste impellenze si era infatti svolto nel maggio del 1978 a Montecatini Terme il convegno Teoria e pratiche della critica d’arte per la cura di Egidio Mucci e Pier Luigi Tazzi e i cui atti verranno pubblicati l’anno successivo. A introdurre i lavori fu Gillo Dorfles che in questa occasione insistette, in particolare, sul concetto di “intermedialità” e di quanto dovesse ormai considerarsi un dato di fatto essenziale e acquisito “la simbiosi e l’osmosi tra diverse forme artistiche – teatro e arte visiva, fotografia e pittura, architettura e paesaggio, ecc.” (36). Renato Barilli, maestro e mentore di Francesca Alinovi che proprio con lui aveva presentato qualche anno prima la tesi per la specializzazione e con il quale lavorerà oltre che al DAMS  anche nella cura di varie mostre, metterà in campo un tema ulteriore, baricentro peraltro della sua riflessione anche negli anni successivi: il rapporto che già si preludeva controverso ma imprescindibile tra arti visive e tecnologie (37). Francesca Alinovi non partecipa a questo convegno ma queste nozioni, in particolare, sono certamente fondamenta delle sue riflessioni.  Nel corso del tempo, con la prensilità e duttilità che le furono peculiari, vi andrà aggiungendo altre componenti – l’interesse per il fumetto, per il design, per la moda, per il graffitismo…- che via via andranno ad ampliare a dismisura l’orizzonte fenomenologico e culturologico di riferimento. Aperture extra artistiche e extra territoriali che non si daranno però mai come un’inclinazione onnivora e indiscriminata rappresentando piuttosto un sestante per certi versi anche visionario nell’ avvicendarsi di interessi rispondenti al “suo” presente.
Il virgolettato del “suo” ci introduce ad un altro aspetto: l’insistenza sulla soggettività delle scelte è infatti un carattere fondante del suo approccio che, sul crinale dell’idea della prossimità dell’arte alla vita di ciascuno, la porta all’elaborazione teorica dell’“arte mia”. Scrive Alinovi in un articolo intitolato proprio “L’arte mia” e pubblicato per la prima volta sulla rivista Iterarte, n.21, nel 1981: “dopo l’arte universale, o l’Arte con la A maiuscola, è giunta ora la volta dell’arte life size, dell’arte a misura d’uomo proporzionata alla sua taglia individuale, un’arte in cui ciascuno può (e deve) fabbricarsi da sé e per sé, in armonia con le proprie possibilità creative. È questa l’arte del MIO, l’arte che ciascuno liberamente produce o si sceglie (non c’è differenza sostanziale tra il fare e lo scegliere), nella piena realizzazione di sé, senza più sentirsi obbligato a commisurare il proprio prodotto con un modello d’arte sproporzionato e trascendente” (38). È il punto di svolta: lo sguardo da oggettivo si fa soggettivo non distingue, non vuole più distinguere tra il sé e l’altro, ma pretende di essere protagonista alla pari. “Io sono mia”, corollario dell’altro fortunato slogan del “personale è politico”, identificava a pieno il femminismo degli anni 60/70 e quel “mia” ripetuto fino allo spasimo si riferiva al proprio corpo e alla propria psiche sottratti all’abuso di sentirsi, in quanto donna, nelle mani di qualcun altro. Mi pare che in Alinovi sia amalgamato alla sua sensibilità al punto da esserne sia pure inconsciamente evocato.  Non è dato infatti di sapere quanto scientemente ma è evidente che su queste basi maturi in Francesca Alinovi il pensiero di un’arte intima della quale rivendicare la stretta aderenza e commistione con il sé, e allo stesso tempo ritenerla passibile di assurgere ad un livello di più ampia e pubblica portata. Scrive ancora nello stesso articolo: “Il MIO di ciascuno, infatti è anche sempre un po’ il MIO degli altri, e ogni opera, diciamolo, è anche sempre un po’ il MIO” (39) e alludendo all’essere dentro questo nuovo universo mondo: “(…) Gli artisti del mio MIO captano per correnti di sensibilità onnidiffusa nuclei di energia che soddisfano l’appagamento di sé, e si riappropriano di tutto ciò che riescono a rapinare con la furia del cleptomane” (40). Sul tema dell’appropriazione tornerà anche in altri scritti, riflettendo pure sull’aspetto citazionista e del prelievo dal passato assai in voga in quegli anni e a cui darà una risposta originale aliena al conformismo dilagante. Scrive infatti: “È dolce altalenarsi tra l’oggi e ieri, e appropriarsi dei frammenti del passato non per precipitare dentro di lui, ma per calamitare il passato addosso a noi. Essere onnivori, invadenti, accaparrarsi di cose altrui per modificare la storia e plasmarla con un proprio autoritratto biografico” (41). E non manca di disquisire qui come altrove, sull’intermedialità, confermandone l’irrinunciabilità, infatti:” L’arte MIA è anche l’arte del saper ’stare in mezzo’: in mezzo tra le varie discipline artistiche e in mezzo tra l’oggetto estetico e quello commerciale” e infine “l’arte MIA esige che sia ogni singolo individuo a captare a modo suo la sua onda, per rigettarla poi, sotto forma di emanazione virtuale di sé, in mezzo alle altre onde, nel mare tempestoso delle sensibilità telepatiche” (42). Intermedialità, onde comunicazionali di telepatica condivisione soggettiva ma anche sconfinamenti percettivi e sensoriali in territori altri, un’arte che, aggiungerà, “abolisce dunque le dicotomie, abbatte le gerarchie, dispone in senso orizzontale, paritario, le valenze dell’arte e della non arte” (43). In questo testo c’è tutto o quasi tutto l’impianto critico teorico che costruì e perseguì con tenacia muovendosi tra fuochi diversi che a distanza di tempo possiamo dire fanno di lei un’originale interprete e artefice proprio di quella natura, come scrisse, “impossibile” del postmoderno (44).
Addentrandosi rapidamente sul versante delle sue ricerche storiche possiamo facilmente constatare come, in una fase ancora di formazione, da una prima attenzione riservata al simbolismo della poetica di Carlo Corsi, Alinovi scelga di avvicinare dapprima Piero Manzoni per poi proporre la rilettura del Dadaismo, tra le avanguardie storiche la più sfuggevole a classificazioni troppo rigide, ed aprirsi infine ad una disquisizione sulla fotografia e al suo ruolo nell’arte contemporanea. 
Alinovi si era laureata presso l’Università di Bologna in Lettere con una tesi in storia dell’arte contemporanea appunto su Carlo Corsi di cui sarà relatore Francesco Arcangeli. È il 1971 e in apparenza questa tesi nulla sembrerebbe avere a che vedere con le tematiche affrontate in seguito. Ma, secondo Fabiola Naldi, l’estraneità potrebbe essere solo apparente, scrive infatti che “la continua fascinazione per la decorazione bidimensionale, interna ed esterna, proveniente dallo spirito simbolista” di Carlo Corsi potrebbe fornirci “un pretesto di lettura critica per gli sviluppi successivi delle ricerche di Francesca Alinovi” (45), partendo dal presupposto di poter intravedere fin da questo attestarsi del suo interesse verso la superficie pittorica una delle “vie” perseguita da Alinovi accanto all’interesse per l’esperienza performativa tout court. Due vie che saranno chiaramente identificate e declamate nello studio su Piero Manzoni che, realizzato per la tesi della specializzazione conseguita sempre a Bologna sotto la guida di Renato Barilli, verrà pubblicato nel 1976 con il titolo “Le due vie di Piero Manzoni” (46).
In questo articolato saggio, dopo aver descritto le due vie che sul finire degli anni ’50 si disponevano dinnanzi agli artisti - da un lato quella di proseguire l’analisi del quadro e dall’altro quella di contaminarsi con la vita - riconosce in Manzoni una figura ponte in bilico tra istanze radicali e oscillazioni e ambiguità sul mantenimento delle modalità più tradizionali. 
Alla ricerca del precedente storico più idoneo a potersi accostare alla creatività contemporanea si immerge, come si accennava, nello studio del Dadaismo sul quale uscirà nel 1980 il suo Dada, anti arte e post arte (47) dove si cimenta su un fenomeno anticipatore e chiave di volta per comprendere l’arte da lei indagata nella stretta contemporaneità. L’idea del libro mi è venuta pensando a Dada come al fenomeno capostipite della sensibilità della nostra epoca. Una sensibilità che ha finito per proiettare l’arte nelle cose comuni e per banalizzare, e rendere comune a sua volta, l’arte. Oggi è molto più interessante guardare le vetrine, nelle strade, entrare in un cinema o andare a sentire un concerto rock che visitare un museo o partecipare alla inaugurazione di una mostra in una galleria d’arte. E questo lo aveva capito per primo Dada, che aveva decretato appunto la morte dell’arte. Eppure l’arte non era morta, e anche questo lo aveva capito molto bene Dada, che l’arte l’aveva fatta, e ne aveva fatta tanta. Soltanto si era trasformata, e in modo tale da diventare quasi irriconoscibile, tant’è vero che, in certi casi, bisognava scriverci sopra un cartellino, -questa è arte-, per avvertire le persone distratte” (48).
Il saggio conferma il rigore dell’approccio e dell’analisi nel riferire delle articolate implicazioni storiche del fenomeno (49).
Da Manzoni dunque passando per Dada la commistione arte/vita si fa preponderante anche nelle ricerche di taglio storico e diviene il vero mainstream al quale si affida esaltata da questa nuova dimensione.  Nel 1981, l’uscita del volume La fotografia. Illusione o rivelazione? (50) scritto insieme a Claudio Marra porterà avanti alcuni segmenti di queste premesse appuntando la propria attenzione in particolare sull’intermedialità scoperta e riconosciuta in alcuni esemplari ricerche storiche fotografiche.   
L’11 giugno 1983, il giorno prima della sua uccisione, Francesca Alinovi viene invitata al Circolo degli Artisti di Bologna allo scopo di presentare un numero speciale di Iterarte (51) intitolato “Arte di frontiera 0.1.2.” e interamente dedicato proprio alla sua carriera (52). Grazie anche alla necessità di sintesi dettata dalla circostanza dell’intervista, le sue dichiarazioni di quel momento possono aiutarci a comprendere gli ultimi passaggi della sua avventura nel mondo dell’arte che era divenuto per lei ad un certo punto privo di confini e di frontiere, linguistiche, innanzitutto, ma anche geografiche. L’arte di cui si stava occupando infatti era, come lei stessa affermò, “multipolare” si mescolava con la vita e con grande fluidità con i nuovi media andando per questa via ad intercettare campi, luoghi, mode e mondi apparentemente distanti sideralmente (53).
La duttile fermezza con la quale si presenta l’intero suo percorso di attraversamento delle arti, la vocazione avanguardista in cui mette in gioco tutta sé stessa immedesimandocisi delineano di lei un ritratto unico della critica d’arte di quegli anni. Specchio dei suoi tempi, Alinovi li interpreta con spregiudicata spericolatezza come nessun altro sembrerebbe essere stato in grado di fare. La lunga rimozione subita dalla sua figura se trova da un lato giustificazione nella necessaria elaborazione di un lutto causato da una perdita oltremodo traumatica; dall’altro, sembrerebbe albergare anche nella complessità e arditezza delle questioni che mise in campo.  All’insegna dell’eccesso, la sua figura pare infatti abitare un territorio di confine, o per dirlo con lei “di frontiera”, nel quale si ibridano innumerevoli componenti che rinfrangono le tante emergenze dell’arte del suo presente. L’osmosi tra arte e vita, tra linguaggi artistici differenti che convivono sullo stesso piano – pittura, fotografia, performance, fumetto, musica, design, moda…- e che l’aveva spinta a leggere nello stesso fenomeno del writing l’epopea del momento è la matrice unica che giustifica l’intera coerenza del suo percorso. Una convivenza delle arti guidata dalla frenesia dell’orientare la critica e del costruire la storia. La sua scrittura, vigorosa, visionaria e irriducibile, intrisa di folgorazioni iconiche sembrerebbe darsi allo stesso modo dei rapidi interventi dei suoi amati writer: velocità e efficacia di segno e di senso. Questa forse la strada da percorrere per ritornare a pensare a Francesca Alinovi, compendiandone la conoscenza nei territori del suo pensiero ancora solo parzialmente esplorati e rispondendo così anche all’esigenza di risarcirne la memoria riscattandola dal lungo oblio. 
Luglio 2022
1) F.Alinovi, “L’arte mia”, in M.Bergamini, V.Santi , a cura di, Francesca Alinovi, Postmediabooks, Milano, 2019, p.109  [in, Iterarte, n.21, 1981]
2) Ibidem, p.7.
3) Matteo Bergamini, “On Stage!”, in, Ibidem, p.11.
4) Veronica Santi, “On/Off Francesca”, in, Ibidem, p.27.
5)  Nel 1984 la Galleria Comunale d'arte moderna di Bologna ha realizzato, su suo progetto, la mostra Arte di frontiera: New York graffiti.  In una lettera del 28 settembre 1982 sottopone all’allora direttore Franco Solmi il progetto della mostra che si terrà poi postuma, dicendogli di avere in mente una mostra sull’arte americana “giovane” legata al graffitismo specificando che si tratta di “una specie di pittura, cioè a metà tra l’arte e l’illustrazione, il quadro e il graffito, lo spontaneismo e la citazione dotta, la sensibilità occidentale e quella terzomondista”. [Francesca Alinovi, lettera a Franco Solmi, pubblicata in, Ibidem, p.167.] .
6) F.Alinovi, L’arte mia, Il Mulino, 1984.
7) Gino Gianuizzi e Claudio Marra, a cura di, Indagini di frontiera. Sulle tracce del percorso critico di Francesca Alinovi, 26 ottobre 2013, Mambo, Bologna.
8) Museo d’Arte Moderna di Bologna.
9) Fabiola Naldi, “Francesca Alinovi e l’arte sua”, in, Maura Pozzati, a cura di, Artiste della critica, Maurizio Corraini s.r.l., 2015, pp.177-192.
10) I am not alone anyway girato nel 2017 (75 mn), scritto e diretto da Veronica Santi per la Manufactory Productions. Costruito come una raccolta di interviste ad alcuni artisti, colleghi e amici che l’hanno conosciuta e frequentata tra la fine degli anni ‘70 e gli inizi degli anni ‘80, il film si è posto l’obiettivo di riportare per il loro tramite alla luce il suo pensiero critico. Una ricca selezione di materiale dell’epoca testimonia sia dell’effervescente panorama artistico di New York dove Alinovi aveva frequentato la scena New Wave, i graffitisti del Bronx e dell’East Village, da  Keith Haring a Rammellzee,  sia del clima bolognese, caratterizzato dalle prime edizioni della settimana Internazionale della Performance, dall’attività degli autori dei fumetti Linus, Valvoline e Frigidaire, come Andrea Pazienza e Marcello Jori, dal teatro d’avanguardia dei Magazzini Criminali e della Raffaello Sanzio Societas, dal design di Studio Alchimia e Alessandro Mendini, e da alcuni artisti italiani del postmoderno, tra cui Luigi Ontani e Salvo, fino ad arrivare alla sua ultima impresa, il manifesto dell’Enfatismo, il movimento artistico da lei teorizzato e che nel 1983 quando sopraggiunge la morte aveva appena cominciato a lanciare.  Un prezioso documento filmico dunque che si è aggiunto agli altri importanti studi.
11)A.Colaninno, G.R.Manzoni, Francesca Alinovi. In suo ricordo, Di Felice edizioni, 2017.
12) M.Bergamini, V.Santi , a cura di, Francesca Alinovi, cit..
13) Vi partecipano: Maria Alicata, Matteo Bergamini, Dafne Baggei, Ivo Bonaccorsi, Piersandra Di Matteo, Maria Luisa Frisa, Marcello Jori, Fabiola Naldi, Bartolomeo Pietromarchi, Alessandro Rebottini, Veronica Santi, Paola Ugolini. Registrazione dell’evento:
14) Pier Vittorio Tondelli, Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni Ottanta, Bompiani, 1990.
15) Pier Vittorio Tondelli, Altri libertini, Feltrinelli, 1980.
16) Matteo Bergamini e Veronica Santi, a cura di, Francesca Alinovi, op.cit., pp.297-301. Trascrizione dell’intervista a Francesca Alinovi, 11 giugno 1982, Circolo degli Artisti di Bologna, in occasione della presentazione di un numero speciale della rivista Iterarte intitolato “Arte di frontiera 0.1.2” e interamente dedicato proprio alla sua carriera.
17) Ibidem.
18) È il periodo in cui Scharf inaugura le sue caverne cosmiche “Cosmic Caverns” installazioni immersive di luce nera e vernice fluorescente che fungono anche da discoteche. La sua prima caverna “Cosmic Closet” (ripostiglio cosmico) viene infatti allestita nel 1981 nello studio che condivideva proprio con Keith Haring a Times Square.
19) F.Alinovi, “Lo slang del Duemila. Arte di frontiera II. Un gergo privato e indecifrabile, lingua dell’affetto, dell’arte e del complotto”, in Flash Art, giugno 1983, pp.20-30.
20) Ibidem.
21) Pubblicato in Flash Art, n.107, febbraio – marzo 1982; in L’arte mia, il Mulino, Bologna 1984: Danilo Montanari, Ravenna, 2001; M.Bergamini, V.Santi, Francesca Alinovi, cit., p.196.
22) Ibidem.
23)Renato Barilli,
24) Luca Patella, Semanticamente/ Se ma antica mente in, M.Bergamini, V.Santi, a cura di, Francesca Alinovi, op. cit., p.75 [catalogo della mostra La Performance oggi, compendio alla Prima settimana internazionale della performance, Galleria comunale d’Arte Moderna, Bologna, 1 – 6 giugno 1977, La Nuova Foglio, 1978]
25) F.Alinovi, “Casa di bambola”, in, Bolaffi Arte, n.95, 1980
26) Cfr: F.Alinovi, “Il nuovo fumetto italiano”, in, Flash Art, n.109, estate 1982.
27) F.Alinovi, “Disco”, in M.Bergamini, V.Santi,  cit., p.249 (prima pubblicazione: Domus, 1983).
28) Cfr: https://www.youtube.com/watch?v=rHLDC5S4PGk (accesso: 3 giugno 2022).
29) F.Alinovi, “Enfatismo”, in Flash Art, n.115 estate 1983, pp.22-27.
30)Ibidem.
31)Ibidem.
32)Ibidem.
33) Come scrive, l’esordio risale però all’anno prima quando a Pescara durante le feste di Natale del 1981 1982 li presenta alla Galleria di Cesare Manzo a Pescara in una mostra chiamata Ora e che doveva proprio essere l’esibizione di un attimo. Scrive Alinovi nella prefazione al catalogo: “gli artisti giovanissimi ventenni anni Sessanta presenti in questa mostra vogliono semplicemente essere presenti, ora, nell’istante segnato da un attimo di presenza che passato non ha, né futuro vuole avere (…)”.
34) Gino Gianuizzi intervistato da Roberto Brunelli “No, Neon, No Cry: intervista a Gino Gianuizzi (ricordando Francesca Alinovi”, in, Collezione da Tiffany, https://collezionedatiffany.com/galleria-neon-gino-gianuizzi-2022/
(accesso: 24 maggio 2022)
35) Mostra Enfatisti 1983 2013. Documents and art works by Ivo Bonaccorsi, Vittoria Chierici, Gino Gianuizzi, Emi Ligabue, Maurizio Vetrugno. Spazio 522, New York, 24 ottobre 2013 – 5 dicembre 2014.
36) G.Dorfles, “È ancora possibile un giudizio assiologico?”, in, Egidio Mucci, Pier Luigi Tazzi, a cura di, Teoria e pratiche della critica d’arte, Atti del convegno di Montecatini maggio 1978, Universale Economica Feltrinelli, 1979, p.13.
37) Cfr.: R.Barilli, “Tecnologia e arti visive”, in, Ibidem, pp.31-46.
38) F.Alinovi, “L’arte mia”, in, M.Bergamini, V.Santi , a cura di, Francesca Alinovi, cit., p.109 
39) In, Ibidem, p.111.
40)In, Ibidem, p.112.
41) In Ibidem, p. 119 [dal catalogo della mostra La qualità. Sviluppo dei Nuovi nuovi, Litografia Tosi, Ferrara, 1981].
42) F.Alinovi, “L’arte mia”, in, M.Bergamini, V.Santi , a cura di, Francesca Alinovi, op.cit., p.118.
43) F.Alinovi citata da R. Daolio, in Anniottanta, p.276.
44)F.Alinovi, “Natura impossibile del post-moderno”, in AA.VV., Paesaggio metropolitano, Milano, Feltrinelli, 1982  
45)) Fabiola Naldi, “Francesca Alinovi e l’arte SUA”, in, Maura Pozzati, a cura di, Artiste della critica, Corraini edizioni, 2015, p.181.
46) F.Alinovi, “Le due vie di Piero Manzoni”, in, AA.VV., Estetica e società tecnologica, Bologna, Il Mulino, 1976. Dopo la prima pubblicazione verrà poi ripubblicato per le edizioni de Il Mulino nel 1984 con il titolo L’Arte mia, ripubblicato per le edizioni Danilo Montanari nel 2001 e infine riproposto con il titolo originario “Le due vie di Piero Manzoni”, nel volume del 2019 edito da postmediabooks.
47) F.Alinovi, Dada, anti arte e post arte, D’Anna, 1980.
48) Ibidem.
49)Cfr: A. Colaninno, “Dada anti-arte e post arte di Francesca Alinovi. L’arte contemporanea è già tutta nel Dadaismo”, in antonellacolaninnoarte.blogspot. http://antonellacolaninnoarte.blogspot.com/2014/09/dada-anti-arte-e-post-arte-larte.html (Accesso: 10 maggio 2022)
50) Francesca Alinovi, Claudio Marra, La fotografia. Illusione o rivelazione?,  Bologna, Il Mulino, 1981 (riedito nel 2006 per le edizioni Quinlan).
51) La trascrizione di questa intervista è stata pubblicata nel volume a cura di Matteo Bergamini e Veronica Santi Francesca Alinovi, cit., pp.297-301.
52) Il primo numero della rivista Iterarte esce per la cura del Circolo degli artisti di Bologna nell’aprile del 1974. Cfr: Marilena Pasquali, Il Circolo artistico di Bologna, 1879 1983, con un’introduzione di Franco Solmi, Graphis, Bologna, 1983.
53) La trascrizione di questa intervista è stata pubblicata con il titolo “Francesca Alinovi si racconta” nel volume: M.Bergamini, V.Santi, a cura di, Francesca Alinovi, cit., pp.297-301.