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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Definizioni e casi studio

Brunella VelardiIcoPDFdownload
 
La nozione di “informatica umanistica”, più diffusa presso la comunità scientifica internazionale con il termine inglese Digital Humanities, assume, nell’applicazione pratica alla ricerca scientifica dei settori cui si applica, molteplici declinazioni, corrispondenti a determinati interessi di indagine e specifici strumenti utilizzati. Nata anche come materia di studio, quella che potremmo definire una metadisciplina ha di fatto permeato in misura diversa le discipline proprie e i luoghi del loro sviluppo, da quello accademico a quello museale. Questo contributo intende mettere a fuoco, a partire da un inquadramento del campo disciplinare nell’ambito della definizione di umanistica digitale, accezioni e direzioni intraprese in particolare nell’ambito degli studi storico-artistici, delineando una ricognizione all’interno della quale si individuano traiettorie prevalenti e ricerche di maggiore interesse, con particolare attenzione alle possibilità fornite dalla georeferenziazione dei dati.
I. Digital Humanities: un quadro introduttivo
Con il termine Digital Humanities vengono generalmente indicate tutte quelle pratiche di indagine proprie degli studi umanistici condotte attraverso o con l’ausilio di strumenti informatici. In questo senso, un ‘umanista digitale’ può essere considerato lo studioso che utilizza strumenti informatici di qualunque tipo e grado di complessità, per svolgere attività di ricerca di diversa natura nell’ambito del proprio lavoro. Il campo è dunque molto ampio e si è pertanto parlato di ‘termine ombrello’ – proprio per evidenziarne l’accezione generica e non specifica – al quale viene ricondotta una grande varietà di esiti e operazioni, comprensiva delle azioni rese possibili dai primi computer come l’immagazzinamento di file di varia natura e la raccolta di informazioni all’interno di database, fino alle potenzialità offerte dalle più recenti applicazioni come la costruzione di modelli virtuali 3D o analisi quantitative e qualitative di dati desunti dai social network (1).
Al di là della varietà di operazioni riconducibili alle Digital Humanities, ciò che appare cruciale nelle modalità di approccio alla disciplina è la distinzione tra l’uso del digitale come supporto ad un tipo di ricerca condotta con metodi tradizionali o analogici, e un uso più diffuso nelle diverse fasi di indagine tale da assumere lo strumento digitale non solo come punto di arrivo o complemento alla ricerca, ma potenziale punto di partenza per nuovi filoni investigativi. Ad esempio, la possibilità di visualizzare e analizzare ingenti quantità di dati non gestibili dal singolo ricercatore, è ritenuta in grado di aprire la strada ad interrogativi diversi da quelli tipicamente scaturiti dallo studio tradizionale. Da questo punto di vista, se gli strumenti digitali ricalcano in buona sostanza schemi desunti da strutture di pensiero consolidate della cultura occidentale, appare particolarmente interessante lo sforzo di ripensarne le modalità e i caratteri – dunque le prospettive – attraverso la riconfigurazione stessa di tali strutture. È il retaggio degli studi di genere e post-coloniali ad aprire questa strada, prefigurando un potenziale tuttora inattuato per le Digital Humanities (2).
Nell’ambito delle discipline umanistiche, le più frequenti e significative esperienze che mettono in gioco strumenti digitali si riscontrano nei campi dell’archeologia, in particolare per quanto riguarda le potenzialità offerte dalla realtà virtuale per scopi conservativi e per la valorizzazione di manufatti e siti, della storia, con specifico riferimento all’approccio spaziale e globale ai fenomeni coloniali e migratori e agli studi geopolitici, demografici ed economici, in rapporto a determinate aree geografiche e delle scienze del testo. Di contro a una piuttosto diffusa resistenza da parte degli studiosi ad accogliere strumenti digitali come componenti strutturali della ricerca, alcune esperienze mostrano come simili procedimenti consentano di indagare relazioni tra individui e gruppi di individui su una scala globale, circolazione di persone, merci, modelli culturali attraverso l’utilizzo di dataset massivi, o ancora legami tra specifici ambiti territoriali e temi propri delle discipline umanistiche. Tra gli aspetti cruciali di questo tipo di approccio, la prospettiva della condivisione dei dati – desunti dalle ricerche o nella forma di collezioni di oggetti digitali – si pone come dirimente in relazione all’espansione delle possibilità di indagine: la messa a disposizione di materiali al più ampio numero di studiosi, nell’ottica dei commons, va appunto nella direzione di uno sviluppo delle potenzialità di indagine che sarebbero impensabili da condurre con metodologie tradizionali (3). Inoltre, com’è ovvio trattandosi di progetti portati avanti interamente in ambiente digitale e in cui le intersezioni con la scienza dei dati sono in molti casi centrali nello sviluppo delle ricerche, un ruolo fondamentale all’interno di queste metodologie è svolto dalla componente visiva, sviluppata grazie a strategie mirate di visualizzazione dati (data visualization) (4).
Un caso particolarmente significativo in tal senso è costituito dal progetto Mapping the Republic of Letters (5), che raccoglie casi studio tematici e biografici incentrati sulla produzione e circolazione delle idee in età moderna, elaborando informazioni tratte soprattutto da corrispondenze e scritti editi tra Europa e Americhe e restituendone traiettorie, fortune critiche, persistenze attraverso proiezioni grafiche diverse a seconda delle finalità (6). Per la molteplice interdisciplinarietà, tanto sul livello dell’approccio congiunto di studio umanistico e informatico, quanto su quello delle ricerche abbracciate (storia, storia della scienza, letteratura, società, etc.), specchio di un sistema culturale fondato su uno scambio transnazionale e transdisciplinare quale fu appunto la Repubblica delle Lettere, può essere considerato una summa di materie, tematiche, competenze coinvolte (o coinvolgibili) nell’umanistica digitale, dalla digitalizzazione di documenti ed epistolari all’analisi testuale, alla mappatura dei fenomeni. L’esempio riportato mostra la possibilità di un efficace approccio digitale anche all’interno degli studi filologici e letterari, con prevalente riferimento all’analisi quantitativa dei dati (intensità delle corrispondenze per anno, ricorrenza di nomi, concetti e luoghi, etc.) e all’analisi delle reti sociali all’interno delle quali si muovevano i profili individuati. In questo caso, i risultati della ricerca provengono dalla raccolta e relazione di dati estratti dalle fonti.
Un progetto che mette invece in relazione diretta coordinate geografiche e fonti letterarie è  Litescape - Atlas das Paisagens Literárias de Portugal Continental, sviluppato presso la Universidade Nova di Lisbona, che utilizza estratti letterari classificati nella banca dati costruita in seno al progetto rendendoli accessibili sulla base di ricerche per autore, per opera o per unità territoriali, grazie alla georeferenziazione digitale dei luoghi letterari (7). Ciò che appare particolarmente interessante è la ricostruzione immaginaria di luoghi reali – individuati mediante la navigazione su una mappa attuale e dunque corrispondente all’esperienza diretta dell’utente – attraverso la loro evocazione nella letteratura del XIX e XX secolo, in grado di tracciare relazioni tra spazio fisico e spazio percepito, itinerari degli autori e così via (8).
Vale infine la pena di menzionare Smart Archive Search, progetto promosso dal Polo del ‘900 di Torino e commissionato al duo di artisti Salvatore Iaconesi e Oriana Persico. A partire dai fondi archivistici digitalizzati del Polo e dalla loro ‘navigazione’ con gli strumenti dell’intelligenza artificiale, gli artisti hanno sviluppato un sistema di interfacce differenziato, legando canali di ricerca informali e non codificati a modalità di visualizzazione inedite (9). L’esperienza si innesta su un terreno composito tra archivistica, comunicazione digitale e pratica artistica, prefigurando nuove possibilità di intersezione e di raggruppamento di dati in insiemi significanti (10).
II. Digital Humanities e storia dell’arte
Nel campo storico-artistico, i supporti digitali sono usati più comunemente da istituzioni museali per la realizzazione di campagne fotografiche e di catalogazione delle collezioni, per la creazione di gallerie virtuali e per l’implementazione delle strategie di comunicazione del patrimonio, mentre in ambito accademico l’informatica è concepita prevalentemente come sussidio alla didattica tradizionale più che come strumento didattico di per sé (11). Tale panorama appare sostanzialmente invariato dalla diffusione dei computer ad oggi, sebbene studiosi – in maggioranza di area statunitense – abbiano messo in luce il carattere composito delle ricerche condotte con l’ausilio del digitale, tale da poter distinguere almeno quattro traiettorie di indagine: analisi del testo, analisi spaziale, analisi delle reti sociali, analisi dell’immagine (12). Di contro, il trasferimento in ambiente digitale di gran parte delle attività, espositive e didattiche in particolare, dovuto alle chiusure dettate dall’emergenza di Covid-19, ha implementato a livello globale il ricorso all’informatica anche nei settori dello studio, della tutela e della valorizzazione del patrimonio artistico, e ha senz’altro contribuito a diffondere ampiamente l’uso di strumenti e consapevolezze di base sui limiti e le potenzialità delle applicazioni più utilizzate. Tuttavia, un uso critico e non meccanico del digitale, volto all’approfondimento di specifici aspetti legati, ad esempio, all’iconologia, alla storia delle esposizioni, delle tecniche artistiche e del mercato dell’arte e ai contesti culturali, può aprire nuove possibilità di indagine ad oggi ancora per lo più inesplorate. A questo proposito, la distinzione individuata da Johanna Drucker tra “digitized art history” e “digital art history”, permette di chiarire la divergenza tra approccio tradizionale e approccio digitale allo studio della disciplina nel ricorso a strumenti informatici (13). Se la “storia dell’arte digitalizzata” è una pratica ormai ampiamente diffusa tanto presso i musei quanto negli ambienti accademici, mentre in campo museale vanno via via affermandosi tecnologie come modelli virtuali 3D e, in via sperimentale, augmented reality (14), al contrario una “storia digitale dell’arte” in cui parte del lavoro sia condotta in ambiente digitale e fondata su approcci che chiamano in causa direttamente altri campi del sapere (economico, statistico, sociologico, geografico e così via) al fine di poter dare nuove risposte a interrogativi propri della disciplina storico-artistica, conosce ad oggi un numero molto limitato di applicazioni. Ciò è dovuto da un lato alle difficoltà nell’uso di software specifici (più frequentati invece, come si diceva, da archeologi e storici) (15) e alle ancora ampiamente diffuse problematiche legate ad un quasi analfabetismo digitale che interessa gli umanisti assai più che gli studiosi di scienze dure, dall’altro ad una disponibilità infrastrutturale sia a livello nazionale che internazionale ancora scarsa (16).
È la stessa Drucker, inoltre, a rilevare come gli approcci computazionali possano fornire nuove letture allo stesso modo in cui la storia dell’arte è stata fortemente influenzata, in passato, da nuove teorie socio-economiche, filosofiche e così via (17), aprendo la strada ad analisi che siano in grado di reinserire le opere in sistemi di relazioni culturali tra loro interdipendenti. In tal senso si muovono alcune linee di ricerca che hanno direttrici geografiche prevalenti ben definite: mentre gli Stati Uniti sono, ancora una volta, trainanti sia sul piano operativo sia su quello del dibattito critico (18), l’ambito delle ricerche si è concentrato soprattutto sull’arte in Europa in età moderna, con particolare attenzione ai contesti italiano e olandese. Non c’è dubbio che la disponibilità di dataset massivi e di risorse digitalizzate e messe a disposizione dalle più importanti istituzioni museali e di ricerca abbiano costituito un significativo punto di partenza per studi di questo tipo, attraverso analisi incrociate di dati. D’altro canto, l’esigenza di un superamento della dicotomia tra “digital art history” e “digitized art history” si accompagna da un lato alla ventilata opportunità di un ricentramento del discorso intorno alla Digital Art History sulla pratica storico-artistica piuttosto che sul progresso tecnologico (19), dall’altro alla necessità di recuperare la distinzione tra metodi/tool e oggetto/argomento della ricerca. In altre parole, seppur rese possibili, influenzate o alimentate dal ricorso a strumenti diversi da quelli tradizionali, le domande che possono emergere da analisi condotte attraverso un approccio digitale avranno il merito di aver arricchito il dibattito storico-artistico nella sua accezione più ampia e comprensiva, fuori da ogni ghettizzazione linguistica (e culturale).
III. La mappatura digitale e il Geographic Information System: alcuni casi studio
Un filone in crescita nel contesto della ‘storia digitale dell’arte’ è costituito dalla spatial analysis, che fa leva sull’adozione di metodologie incentrate su una chiave spaziale per lo studio dei fenomeni storico-artistici. Tale approccio è alla base di alcuni progetti tesi a rintracciare prospettive ancora in gran parte inesplorate per lo studio dell'arte e a indagare attraverso nuovi strumenti il coinvolgimento di dinamiche sociali all'interno o per mezzo della pratica artistica.
Declinazione disciplinare della cosiddetta spatial turn e della centralità attribuita allo spazio nell’interpretazione delle dinamiche storiche e sociali, l’analisi spaziale dei fenomeni artistici ha un’origine composita, che rivela una persistenza del tema dei luoghi, degli spazi e degli spostamenti nella narrazione storico-artistica e, al contempo, trova nelle recenti applicazioni rese possibili dal digitale una coerente possibilità di sviluppo. Se per un verso, infatti, il tema dello spazio e della sua rappresentazione, così come degli spazi intesi come contesti fisici entro i quali si muovono la produzione e l’esposizione delle opere sono argomenti con cui la storia dell’arte ha tradizionalmente fatto i conti, configurandosi essi stessi come specifiche traiettorie di indagine (20), e, d’altro canto, i nessi tra produzione artistica e territori culturali hanno da sempre contribuito al dibattito critico in termini di storie ‘regionali’ dell’arte (dalla distinzione tra i blocchi occidentale e orientale, alle letture in chiave continentale o nazionale) (21), la messa in discussione delle barriere tra diverse discipline, le prove di interferenza tra studi geografici e storia dell’arte (22) e l’adozione di strumenti digitali di descrizione geografica da parte degli umanisti hanno dato un impulso decisivo al nascere di progetti che, attraverso l’uso di programmi basati su GIS (Geographic Information System), tentano di aprire nuove possibilità di lettura e interpretazione dei fenomeni storico-artistici e di tracciare sentieri per nuovi quesiti o dare nuove risposte a vecchi interrogativi.
Nato tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ‘70, il GIS consente di visualizzare banche dati georeferenziate su una base cartografica, permettendo di associare, reperire e aggiornare rapidamente informazioni relative a spazi corrispondenti a specifiche coordinate geografiche (23). Inoltre, la possibilità di mettere a confronto cartografie risalenti a epoche diverse – registrando tanto fenomeni avvenuti in archi cronologici diversi quanto trasformazioni delle topografie stesse nel tempo – fornita dall’Historical Geographic Information System (HGIS) (24), ha ampliato le prospettive di uso del sistema, prestandosi significativamente a indagini diacroniche e comparate. Il GIS ha conosciuto applicazioni diverse nei campi della geografia (soprattutto per scopi militari, demografici ed economici), della storia e dell’archeologia, ove il suo utilizzo risulta più consolidato. È invece in anni più recenti, e in particolare a partire dagli anni Dieci del Duemila, che sono andate diffondendosi ricerche basate sulla geolocalizzazione dei fenomeni legati alla produzione artistica.
Com’è stato sottolineato a proposito della ‘storia digitale dell’arte’, un aspetto cruciale è nella funzione della cartografia, ovvero nella fase della ricerca in cui la mappatura digitale si situa. Accanto all’uso della mappa come illustrazione a corredo di teorie sviluppate da un apparato testuale, che scinde quindi il processo di indagine dal momento della visualizzazione, si fa strada la possibilità che l’analisi visiva della distribuzione dei dati su un territorio definito sia parte della ricerca stessa (25). In questa direzione si situano studi particolarmente interessanti sia dal punto di vista dell’innovatività dell’approccio, sia da quello del dibattito metodologico che innescano: che tipo di ricerche possono risultare più fruttuose se condotte con l’ausilio di strumenti di georeferenziazione? Come tradurre le fonti in set di dati? Quali domande porre al database e alla mappa? In che modo questo tipo di ricerca può dare impulso allo studio delle discipline?
Nello specifico, la mappatura di segmenti di indagine nel campo storico-artistico ha alcune direttrici prevalenti: la circolazione di forme e stili dall’epoca moderna all’Ottocento; le influenze e i contatti tra ambienti artistici diversi attraverso il mercato dell'arte e le esposizioni; l'analisi degli studi di genere e delle dinamiche post-coloniali. Tra le esperienze di mappatura digitale in campo storico-artistico vale la pena di citare almeno due casi che, per l’oggetto di mappatura e le finalità di indagine, si rivelano particolarmente chiarificatori dei temi che stiamo trattando.
Artl@s (26), atlante in progressivo ampliamento, fornisce notevoli spunti di riflessione sulle diverse modalità di uso delle tecnologie digitali nella ricerca storico-artistica. Il progetto, avviato nel 2009 dall’École Normale Supérieure di Parigi con lo scopo di ricostruire una storia dell’arte su base geografica e digitale a partire dalla mappatura completa delle esposizioni d’arte nel XIX e XX secolo su scala globale, è incentrato sulla circolazione delle opere d’arte negli ultimi due secoli rintracciando scambi e interferenze tra centri e periferie, sull’individuazione degli spazi dell’arte nella città di Parigi dal 1850 ad oggi e sull’analisi del modo in cui le logiche socio-culturali legate a determinati spazi influenzano le modalità del fare arte. Attualmente, Artl@s ha pubblicato tre basi dati: BasArt, relativa ai cataloghi di mostre dal XIX al XXI secolo (progetto internazionale); GeoMap, cartografia delle gallerie d’arte a Parigi dal 1815 al 1954; Base biografica dei pensionanti di Villa Medici (in collaborazione con l’Accademia di Francia a Roma). Per l’implementazione dei dati, il gruppo di ricerca ha potuto fare riferimento a fonti bibliografiche che, nel secondo e nel terzo caso, hanno fornito elenchi e ricognizioni. Il database più cospicuo è quello relativo alle esposizioni, il cui obiettivo è coprire un arco temporale che va dall’invenzione del catalogo (con il Salon parigino del 1673) ad oggi. La navigazione avviene simultaneamente su base cartografica (attraverso il geodatabase PostGIS) e per ricerca libera o avanzata. I dati inseriti e visualizzabili sulla mappa sono relativi ad anno, città, titolo dell’esposizione; per ogni esposizione viene fornita una breve scheda descrittiva con date e indicazioni sul catalogo. In alcuni casi sono disponibili ulteriori contenuti (risorsa integrale del catalogo, elenco degli artisti, etc.) (27). Nel caso dei database sul mercato dell’arte parigino e sui pensionanti di Villa Medici, la georeferenziazione ha interessato, rispettivamente, l’indirizzo delle gallerie e le città di nascita.
Più circoscritto è il London Gallery Project (28), mappatura delle gallerie d’arte a Londra tra il 1850 e il 1914 a partire da informazioni tratte da fonti di natura diversa: recensioni su periodici, cataloghi di esposizioni, inventari di mercanti d’arte (29). La cartografia derivata è messa in relazione con altri spazi come le società promotrici e gli studi d’artista; in tal modo, oltre a fornire informazioni di base su ciascuna galleria, la mappa consente di rintracciare le trasformazioni di tale geografia con lo scopo di indagare eventuali rapporti tra gallerie con specializzazioni affini e aree urbane o specifiche clientele e il modo in cui le gallerie si relazionavano tra loro attraverso lo studio dei calendari espositivi e delle strategie pubblicitarie. Oltre alla navigazione su mappa, in cui ad ogni luogo corrisponde una breve scheda descrittiva, è riportato un elenco delle gallerie londinesi individuate e la bibliografia di riferimento.
L’atlante ImagineRio, sviluppato a partire dalla collezione fotografica dell’Instituto Moreira Salles in collaborazione con importanti partner come la Getty Foundation e la Rice University, ripercorre invece la storia della crescita e delle trasformazioni urbane di Rio de Janeiro. Mettendo in relazione fotografie e cartine dal 1500 ad oggi, il progetto consente di navigare su mappa nella città attraverso i secoli, di visualizzare immagini e relativi metadati che documentano specifici luoghi, di confrontare cartografie d’epoca con quella attuale. La cospicua raccolta iconografica, che riunisce materiali provenienti da diversi archivi, è inoltre consultabile attraverso gallerie di immagini georeferenziate che rimandano a loro volta alla localizzazione su mappa dei luoghi raffigurati (30).
La ricostruzione di una geografia dell’arte attraverso la cartografia digitale e la geolocalizzazione dei dati appare una prospettiva innovativa per gli studi storico-artistici poiché consente l’analisi anche simultanea di processi locali e globali, di contesti particolari e ambiti territoriali (31), comparandone cronologie, movimenti e intensità dei fenomeni. Accanto a questi aspetti, la possibilità di gestire e studiare, attraverso una mappatura complessa, un quadro che restituisca la rete di relazioni tra luoghi, persone, eventi stratificati nel tempo, a partire dal campo delle arti visive per espandersi ad altri campi più o meno direttamente connessi come la letteratura, il teatro, il giornalismo, la politica e così via, può inoltre aprire nuove prospettive di studio che chiamino in causa discipline diverse.
Un simile approccio fa leva sulle potenzialità di interpretazione dei dati offerte dalle strategie di visualizzazione – in questo caso cartografica – in grado di restituire la complessità dei fenomeni culturali. Se le esperienze in questo senso sono ancora molto esigue e non consentono ad oggi di valutare la portata della trasformazione che tale metodologia può apportare all’interno della disciplina storico-artistica, non altrettanto esigue sembrano essere le possibili nuove traiettorie di ricerca, come evidenziato da diversi studiosi (32) che pongono l’accento in particolare sulla possibilità di far dialogare fonti di diversa natura e sulle risposte a nuovi interrogativi che tale dialogo, attraverso la visualizzazione dei dati registrati, può fornire.

Luglio 2022

(1) Una disamina ampia e dettagliata delle applicazioni pionieristiche nel campo è fornita dal volume A Companion to Digital Humanities, che fotografa lo stato dell’arte nei primi anni Duemila, raccogliendo pratiche e prospettive per gli studi umanistici condotti con l’ausilio di strumenti informatici e illustrando la transdisciplinarietà di tali metodologie anche al di fuori del raggio d’azione delle scienze dure. Il successivo volume A New Companion to Digital Humanities del 2016 e le due edizioni di Debates in the Digital Humanities, pubblicate rispettivamente nel 2012 e nel 2016, offrono invece uno spaccato più aggiornato sul dibattito metodologico in atto, in particolare per quanto attiene all’integrazione tra azioni automatizzate e manuali o intellettuali e alla sempre maggiore consapevolezza delle potenzialità e criticità del campo. Cfr. Matthew K. Gold, Debates in the Digital Humanities, University of Minnesota Press, 2012; Matthew K. Gold and Lauren F. Klein, Debates in the Digital Humanities 2016, University of Minnesota Press, 2016; Susan Schreibman et al., A Companion to Digital Humanities (Blackwell Companions to Literature and Culture), Oxford, Blackwell Publishing Professional, 2004; Susan Schreibman et al., A New Companion to Digital Humanities, Chichester, John Wiley & Sons, Ltd, 2016.
(2) A partire dagli studi di Laura Mulvey in Visual Pleasure and Narrative Cinema sull’assoggettamento della donna sotteso alla struttura logico-narrativa del cinema, Miriam Posner propone uno stravolgimento delle gerarchie di potere attraverso cui vengono lette le dinamiche sociali nel mondo occidentale proprio attraverso la flessibilità e manipolabilità degli strumenti digitali: «DH needs scholarly expertise in critical race theory, feminist and queer theory, and other interrogations of structures of power in order to develop models of the world that have any relevance to people’s lived experience». Miriam Posner, What’s Next: The Radical, Unrealized Potential of Digital Humanities, in Debates in the Digital Humanities 2016, University of Minnesota Press, 2016. Cfr. anche Nuria Rodríguez-Orega, Digital Art History: The Questions that Need to be Asked, in «Visual Resources», vol. 35, n. 1-2, 2019, pp. 6-20: https://doi.org/10.1080/01973762.2019.1553832 (consultato il 30 giugno 2022).
(3) Cfr. Murtha Baca, Anne Helmreich, Melissa Gill, Digital Art History, in «Visual Resources», vol. 35, n. 1-2, 2019, pp. 1-5: 3: https://doi.org/10.1080/01973762.2019.1556887 (consultato il 30 giugno 2022).
(4) Cfr. Victoria Szabo, Transforming Art History Research with Database Analytics: Visualizing Art Markets, «Art Documentation: Journal of the Art Libraries Society of North America», Vol. 31, No. 2, settembre 2012, Chicago, The University of Chicago Press, pp. 158-175; Maximilian Schich, Figuring out Art History, «International Journal of Digital Art History», n. 2, ottobre 2016; Lea Saint-Raymond, Antoine Courtin, Enriching and Cutting: How to Visualize Networks Thanks to Linked Open Data Platforms, «Artl@s Bulletin», vol. 6, n. 3, 2017. In ambito museale, tecniche di visualizzazione dati, in particolare per la restituzione di network, sono state adottate in occasione della mostra Inventing Abstraction, 1910-1925 al MoMA (2012-2013), vd. “Inventing Abstraction Network Diagram”: https://www.moma.org/interactives/exhibitions/2012/inventingabstraction/?page=connections (consultato il 30 giugno 2022).
(5) Vd. “Mapping the Republic of Letters”: http://republicofletters.stanford.edu/ (consultato il 30 giugno 2022). Il progetto è promosso dal CESTA - Center for Spatial and Textual Analysis dell’Università di Stanford in partnership con l’Università di Oxford, il Gruope D’Alembert, CNRS, lo Huygens ING e il DensityDesign Research Lab.
(6) Vd. Daniel Chang et al., Visualizing the Republic of Letters, 2009: web.stanford.edu/group/toolingup/rplviz/papers/Vis_RofL_2009 (consultato il 30 giugno 2022).
(7) Il progetto, avviato nel 2010, è stato sviluppato grazie al partenariato tra Instituto de Estudos de Literatura e Tradição e Instituto de História Contemporânea con il Departamento de Informática e il Laboratory for Computer Sciences and Informatics della Universidade Nova di Lisbona. Vd. «Litescape»: http://litescape.ielt.fcsh.unl.pt/ (consultato il 30 giugno 2022). Simili operazioni sono state sviluppate per le città di Milano e Napoli ricorrendo a Google Maps; in particolare, nel primo caso la selezione dei brani è divisa per periodo di pubblicazione, permettendo una consultazione differenziata per cronologie. Vd. “Mappa Letteraria di Milano”: www.google.com/maps/d/u/0/viewer?mid=1lcKbgYlhzPEH3ru12P7fhcr2ZSs&ll=45.46748445254744%2C9.212517377429217&z=12 (consultato il 30 giugno 2022). Più in generale, la pratica di georeferenziazione di materiali ha avuto una circoscritta diffusione in Italia intorno alla metà degli anni Duemila con i geoblog, spazi web in cui l’accesso ai contenuti avveniva attraverso mappe interattive.
(8) Cfr. Luís Espinha da Silveira, Geographic Information Systems and Historical Research: An Appraisal, «International Journal of Humanities & Arts Computing: A Journal of Digital Humanities», vol. 8, n. 1, marzo 2014, p. 31.
(9) La pagina dell’interfaccia di ricerca non è più attiva; resta un resoconto del progetto sul sito web del Polo del ‘900. Vd. “SAS – Smart Archive Search”: https://www.polodel900.it/s-a-s-smart-archive-search/  (consultato il 30 giugno 2022).
(10) Cfr. Brunella Velardi, Archivi storici e IA in un esperimento al Polo del 900 di Torino, «Unclosed.eu», 2019, www.unclosed.eu/rubriche/documenti/documenti-archivi-dati-testimonianze-imprese/290-archivi-storici-e-ia-in-un-esperimento-al-polo-del-900-di-torino.html (consultato il 30 giugno 2022).
(11) Michael Greenhalgh, Art History, in Susan Schreibman et al., A Companion to Digital Humanities, cit.; Lev Manovich, Data Science and Digital Art History, «International Journal for Digital Art History», n. 1, 26 giugno 2015, pp. 31-45.
(12) La distinzione in categorie elaborata da Elijah Meeks è riportata in Johanna Drucker et al., Digital art history: the American scene, «Perspective. Actualité en histoire de l’art», n. 2, 5 dicembre 2015: journals.openedition.org/perspective/pdf/6021 (consultato il 30 giugno 2022) e sostanzialmente ripresa da Alexander Brey, Digital Art History in 2021, in «History Compass», vol. 19, n. 8, 2021, e12678: https://doi.org/10.1111/hic3.12678 (consultato il 30 giugno 2022).
(13) «[...] a clear distinction has to be made between the use of online repositories and images, which is digitized art history, and the use of analytic techniques enabled by computational technology that is proper domain of digital art history», Johanna Drucker, Is There a “Digital” Art History?, «Visual Resources», Vol. 29, n. 1-2, 2013, p. 5-13.
(14) Ancora scarso è il numero di esperienze basate su tecnologie immersive come quelle riportate in Sarah Kenderdine, Embodiment, Entanglement, and Immersion in Digital Cultural Heritage, in Schreibman et al.A New Companion to Digital Humanities, cit., p. 22-41.
(15) Ciò dipende, con buone probabilità, dalla maggiore dimestichezza che storici e archeologi hanno con dati di tipo quantitativo, derivanti dal tipo di informazioni su cui si basano le ricerche; questo aspetto si può facilmente legare ad una maggior consapevolezza dell’utilità del digitale nelle fasi dell’indagine. Le dinamiche proprie della disciplina storico-artistica coinvolgono, invece, più ampiamente e direttamente un’attitudine dialettica di tipo dissertatorio, il che conduce all’idea che la possibilità di usare software nella ricerca richieda uno sforzo scarsamente centrato rispetto ai risultati tradizionalmente prefigurati. In una recensione al laboratorio del Kress Summer Institute, Stephen H. Whiteman afferma, in riferimento all’uso del Geographic Information System: “Its use in historical study is also well established, but it has been slow to grow elsewhere in the humanities, in part because of the steep learning curve associated with producing and analyzing mappable data with the software”. Tale osservazione, come sottolinea Drucker, può essere estesa alla cosiddetta “storia digitale dell’arte”, contrapposizione con la “storia digitalizzata dell’arte” che è invece assai diffusa. Cfr. Stephen H. Whiteman, Digital Mapping and Art History: A Review of the Kress Summer Institute, «Ars Orientalis», n. 44, 2014: http://dx.doi.org/10.3998/ars.13441566.0044.015 (consultato il 30 giugno 2022). Vale inoltre la pena di sottolineare la sostanziale ambiguità della definizione di ‘umanista digitale’, che rischia di marginalizzare una pratica che è invece pienamente inserita nell’alveo delle ricerche umanistiche e delle domande cui queste ultime tradizionalmente cercano di dare risposte. Cfr. Johanna Drucker in Johanna Drucker et al., op. cit., p. 9; Melissa Dinsman, The Digital in the Humanities: An Interview with Pamela Fletcher, «Los Angeles Review of Books», lareviewofbooks.org/article/digital-humanities-interview-pamela-fletcher (consultato il 30 giugno 2022); Miriam Kienle, Digital Art History 'Beyond the Digitized Slide Library': An Interview with Johanna Drucker and Miriam Posner, «Artl@s Bulletin», vol. 6, n. 3, 2017.
(16) Cfr. Johanna Drucker et al., op. cit., pp. 9-12.
(17) «Just as some late twentieth-century scholarship shifted approaches to the study of objects away from the connoisseurship of autonomous objects toward the analysis of social conditions, so too the computational assessment will demonstrate the identity of objects as nodes in many various networks of cultural relations», Johanna Drucker, op. cit., p. 6.
(18) Due i fattori determinanti: una maggiore consapevolezza sul digitale e una più solida disponibilità infrastrutturale da un lato, dall’altro la significativa presenza di fondazioni private impegnate nella promozione della ricerca e della conservazione del patrimonio culturale, che riconoscono al digitale un ruolo imprescindibile supportando lo sviluppo di progetti innovativi in tal senso: basta pensare a colossi come la Getty Foundation,The Andrew W. Mellon Foundation, la Samuel H. Kress Foundation o la Terra Foundation. Su quest’ultimo punto, cfr, Johanna Drucker et al., op. cit., p. 2.
(19) Cfr. Nuria Rodríguez-Ortega, op. cit..
(20) Cfr. Paul B. Jaskot, Commentary: Art-Historical Questions, Geographic Concepts, and Digital Methods, «Historical Geography», n. 45, 28 dicembre 2017, p. 92.
(21) Cfr. James Elkins, Is Art History Global?, Londra, Routledge, 2013.
(22) Cfr. Susan Elizabeth Gagliardi and Joanna Gardner-Huggett, Spatial Art History in the Digital Realm, «Historical Geography», Vol. 45, 28 December 2017; Paul B. Jaskot, op. cit..
(23) Una definizione sintetica del Geographic Information System è disponibile sull’Enciclopedia online Treccani: “GIS nell’Enciclopedia Treccani”, www.treccani.it//enciclopedia/gis (consultato il 30 giugno 2022); una più ampia ed esaustiva trattazione sull’argomento è fornita dall’Enciclopedia Italiana: www.treccani.it//enciclopedia/gis_(Enciclopedia-Italiana) (consultato il 30 giugno 2022).
(24) Cfr. “Historical geographic information system”, in Wikipedia, 2019, https://en.wikipedia.org/w/index.php?title=Historical_geographic_information_system&oldid=888816116 (consultato il 30 giugno 2022).
(25) Cfr. Paul B. Jaskot et al., A Research-Based Model for Digital Mapping and Art History: Notes from the Field, «Artl@s Bulletin», Vol. 4, n. 1, 2015, articolo 5.
(26) Béatrice Joyeux-Prunel, ARTL@S, cit., p. 18; Béatrice Joyeux-Prunel, Catherine Dossin, Sorin Adam Matei, Spatial (Digital) History: A Total Art History?—The Artl@s Project, «Visual Resources», Vol. 29, n. 1-2, 2013, p. 47-58.
(27) Con un’interfaccia sviluppata da Makina Corpus, Artl@s è condotto in partenariato con gruppi di ricerca degli atenei di San Paolo in Brasile e di Barcellona e della Fondazione Giacometti e l’Associazione donne artiste AWARE. Si avvale inoltre del sostegno del CNRS, dell’Institut d’histoire moderne et contemporaine, del Collège de France, della Purdue University e dell’Université Paris-Sciences Lettres. Cfr. “Artl@s”: https://artlas.huma-num.fr/fr/ (consultato il 30 giugno 2022).
(28) Diretto dalla storica dell’arte Pamela Fletcher, docente al Bowdoin College (Maine, Stati Uniti), il progetto, pionieristico nel campo della mappatura digitale degli spazi dell’arte, è stato sviluppato in FlashGIS tra il 2007 e il 2012. Vd. London Gallery: “Interactive Map of London Art Galleries Between 1850 and 1914”: learn.bowdoin.edu/fletcher/london-gallery/map/ (consultato il 30 giugno 2022).
(29) Cfr. Melissa Dinsman, op. cit..
(30) Vd. “ImagineRio”: https://www.imaginerio.org/en (consultato il 30 giugno 2022)
(31) Cfr. Paul B. Jaskot et al., op. cit., p. 69.
(32) Vd. Paul B. Jaskot et al., op. cit.; Béatrice Joyeux-Prunel et al., op. cit.; Stephen H.  Whiteman, op. cit..