www.unclosed.eu

arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Conversazione con Francesca Gallo, Mauro Folci e Pasquale Polidori

FG:
Hai conosciuto personalmente Giuseppe Chiari al concerto del Pecci, Grande Improvvisazione, nel 1990, ma conoscevi già il compositore e il musicista?
LM: Sì, ma non ricordo esattamente come. Dovevo aver già incrociato il suo lavoro quando, su una bancarella a Roma, ho scovato Il metodo per suonare [1976], il libro curato da Gillo Dorfles e così l’ho conosciuto un po’ meglio. Doveva essere il 1985-86. Non so quanto io abbia capito del metodo per suonare, ma era evidente che si trattava di un compositore “fuori da tutte le righe”. In quel periodo lavoravo con dei musicisti di Ravenna, in particolare avevo fatto un disco insieme a, tra gli altri, Letizia Bolognesi, la quale aveva eseguito delle cose di Chiari.
Fu lei a invitarmi al Pecci: «perché non prendi contatto con Giuseppe Chiari. Facciamo una grande cosa al Pecci». Fu così che chiamai Giuseppe Chiari, un mostro sacro della musica d’avanguardia: ero un po’ timoroso. Lui invece disponibilissimo mi ha dato tutte le indicazioni per partecipare all’improvvisazione per 70 musicisti, anche se alla fine eravamo più di 100. Infatti, Chiari ha perso immediatamente il controllo della situazione: ha chiesto a un musicista – credo l’oboista come si usa nelle orchestre sinfoniche – di fare una nota e vedere poi come proseguire con quel marasma di musicisti. Ma, in realtà, la prova è diventata il concerto stesso, durato tre-quattro ore. Ci sono pure episodi strani, tipo qualcuno che è andato lì a eseguire le proprie musiche, quando era assolutamente fuori luogo in quanto si trattava di un’improvvisazione collettiva.
FG: Dimmi qualcosa in più sul Metodo per suonare, un testo fondamentale di Chiari: cosa ti ha colpito?
LM: Nel Metodo è tutto sfumato: non sai se quello che stai leggendo è una composizione, è un metodo, è un testo poetico. Ma Chiari è tutto così, c’è sempre un’ambiguità di fondo…
FG: Quindi non riconosci quelle scritture come partiture?
LM: Sì e no. Tutto Chiari è così. Fino a un certo punto della sua vita, pensa a Musica madre o a Musica senza contrappunto, pubblicati da Prearo, non si capisce se sei di fronte a una partitura verbale (un sistema di composizione ben codificato) oppure sei davanti a un testo poetico: e cosa devi fare davanti a questo testo?
FG: Nel Metodo, tuttavia, c’è anche una parte grafica, disegnata che a me – da profana – sembra molto chiara.
LM: Quello è più il metodo vero e proprio. Spiega come tirare le corde del pianoforte, per esempio. Ma anche se tiri le corde del pianoforte in quel modo – tra l’altro sembra sia impossibile perché spacchi l’arpa del pianoforte – poi che ne fai? Torna sempre lo stesso dubbio. Infatti ogni volta che dovevo eseguire qualcosa di Chiari, prima lo chiamavo al telefono per chiedergli cosa dovevo fare con quel pezzo. Qualche volta mi dava qualche suggerimento, altre volte restava nell’ambiguità più profonda rispetto al testo. Altre volte, quando ci sentivamo dopo l’esecuzione, si incazzava pure: non dovevi suonarlo così, mi diceva. Certe volte era rigoroso, ma magari non te lo diceva prima.
FG: Il rapporto fra di voi, se capisco bene, si è basato soprattutto sul tuo interesse a eseguire dei suoi pezzi?
LM: Certo io sono un esecutore di Chiari. Qualche volta mi ha anche chiesto lui di eseguire qualcosa, di solito quando non gli andava di andare in un posto a suonare, chiamava me. Da Roma in giù succedeva spesso. Considera che aveva anche una certa età e non si spostava più di tanto.
PP: Relativamente alle partiture verbali, di cui sei l’interprete, eri tu a chiamare Chiari per chiedere delucidazioni?
LM: Sì, perché più andavo avanti più scoprivo che era rigoroso. Per esempio Studio su un’opera pianistica “a La Monte Young” (1967), periodo a cui risalgono la maggior parte delle partiture verbali di Chiari. Questa partitura è una riga che dice «suonate un brano di musica di altri, pensando “questa musica è mia! L’ho scritta io”». Più o meno, cito a memoria. Così sembra semplicissimo: accenni il pezzo e basta. Invece Chiari voleva che lo suonassi bene, dava delle indicazioni precise, che non erano nella partitura.
PP: Ma cosa ne è della partitura verbale una volta che scompare il compositore? Se oggi vuoi suonare Chopin, lo interpreti in base alla partitura ma anche in base a una tua sensibilità. Con la partitura verbale succede la stessa cosa?
LM: Beh questo succede anche con autori classici. Se ascolti le esecuzioni di Rachmaninov registrate quando lui era vivo sono piuttosto diverse da quello che trovi in partitura. C’è una libertà dell’autore che non viene trascritta nella partitura.
 
PP: Hai sempre rispettato le indicazioni che ti dava l’autore, finché è stato vivo?
LM: Sì, per quanto potevo.
 
PP: E non hai mai eseguito qualcosa senza sentire prima Chiari?
LM: Difficile risponderti. Forse un frammento da Intervalli. Poi però Chiari si arrabbiò, perché avevo eseguito un frammento: avrei dovuto eseguirlo tutto. Quindi poi ho preferito sempre sentirlo prima dell’esecuzione.
 
PP: Quindi Chiari esercitava un controllo?
LM: Un controllo su richiesta, bada bene. Ero io che facevo la richiesta.
 
FG: Secondo te anche altri facevano tale richiesta?
LM: Non lo so. Tuttavia Girolamo De Simone, che era l’altro esecutore di Chiari, da Napoli in giù, eseguiva Do, ma Chiari non era soddisfatto di quella esecuzione. Non so che scambio ci fosse fra i due. De Simone è un pianista classico e quindi eseguiva Do in maniera molto romantica. Io al contrario l’ho sempre eseguito come un pupazzetto, una macchinetta. E, a sentire Chiari, sembra che la mia fosse l’esecuzione più corretta, non come pezzo romantico. D’altronde se vedi la partitura, è proprio un “quadratino magico”, o qualcosa di simile.
 
FG: Potresti elencare tutti i pezzi che hai eseguito di Chiari?
LM: Ci devo pensare, ma lo posso fare… Anche perché non sono tantissimi, sono un bel gruppetto di lavori degli anni Sessanta, più qualcosa di piuttosto recente. Forse quello che preferisco è Chatterbox, che ho eseguito a Napoli, a una serata per Chiari organizzata da Girolamo De Simone. Durante l’esecuzione, pensa, mi sono sentito male perché avevo mangiato troppo a cena, considerando che è un pezzo in cui devi parlare concitatamente per tanto tempo. Chatterbox, infatti, è proprio un testo: 8-9 pagine fitte fitte. Forse si può parlare di ready-made, dato che sono le fotocopie di un raccontino giallo in cui l’ispettore indaga sull’omicidio della donna, avvenuto mentre in casa c’è la figlia che ha sentito tutto. È una storia semplice in cui l’ispettore si impietosisce per la bimba e per la vittima. Giusto due osservazioni. Intanto si tratta di un pezzo per voce e pianoforte: in alcune parti del testo, infatti, 5-6 in tutto, devi punteggiare con il pianoforte quello che stai leggendo. Sono effetti sonori da cinema, quasi banali, ma annotati piuttosto rigorosamente da Chiari. In secondo luogo, solo dopo un bel po’ che stai eseguendo Chatterbox ti accorgi che Chatterbox è la bambola che parla, quella della bimba. Ma sono trasalito perché la scatola parlante è il pianista, ero io. È forse uno dei pezzi di più belli di Chiari che io abbia mai eseguito.
Invece Lavoro, una partitura verbale, in cui l’uomo mette in ordine sul tavolo gli oggetti secondo il suo concetto di lavoro, è un po’ maniacale: devi mettere in fila delle cose. L’ho studiato parecchio, ma non l’ho mai eseguito.
 
FG: Di recente ti ho visto eseguire Pezzo per custodia di termometro, Fare qualcosa con il proprio corpo e il muro (1). Poi ci sono i Tre pezzi per Giovanna Sandri: da dove nascono questi ultimi?
LM: C’è una storiella bellissima su questo. La Fondazione Scelsi organizza una serata per Giovanna Sandri, che Chiari aveva conosciuto e con la quale si erano scritti: questo particolare è importante.
Infatti a un certo punto Chiari mi telefona, chiedendomi di andare al suo posto a un concerto dove non aveva voglia di andare. Quando gli chiedo cosa vado a fare, lui mi dice: esegui questa cosa. E me la racconta per telefono: l’ho pubblicato sulla rivista della Fondazione Scelsi (2). Mi racconta molto informalmente la partitura per telefono, molto informalmente! Io prendo qualche appunto, malamente. Erano tre pezzi: strappare una busta da lettere, con riferimento alle scritture fra lui e la Sandri; e due più misteriosi: versare acqua da un bicchiere a un altro; e schiacciare una moneta, grossa, da due euro mi raccomando, su un tavolino. Questi appunti li ho ricopiati al computer per ricordarli meglio.
Dopo aver eseguito i pezzi, mi hanno chiesto un saggetto per la rivista e la partitura originale. Ma quale è la partitura originale? C’è stato tutto un via vai di fogliettini di carta tra Roma e Firenze: Chiari ha firmato il pezzo di carta scritto da me. Io l’ho conservato e alla Fondazione ho dato una fotocopia, che loro hanno pubblicato. Nel saggio ho scritto che la partitura non esiste, anche se poi era pubblicata sulla stessa pagina. Ecco a proposito di ambiguità e gioco…
 
MF: Nel 1996 hai eseguito alcuni pezzi di Chiari nella mia personale al MLAC.
LM: Sì. In quella occasione ho fatto, tra gli altri, Solo con la volontà di sapere [Fig. 4] e successe una cosa terribile. Il pezzo prevede che devi suonare il pianoforte come se non avessi mai suonato in vita tua. Ma dopo che l’avevo eseguito, è arrivata una bambina che non sapeva suonare e, ovviamente, ha suonato il pezzo molto meglio di me. Lei era inconsapevole, io no.
 
PP: Tu devi raggiungere quella inconsapevolezza.
LM: È quello che diceva Paolo Sinigaglia, fondatore della casa discografica NED (acronimo di Nostra Etichetta Discografica). Bisogna abbandonare ogni cultura musicale, per tornare a suonare come scimmie o come se non avessimo mai suonato prima. Con Paolo abbiamo fatto qualcosa come trenta e più cd, ma non abbiamo mai raggiunto tale obiettivo, perché ognuno si porta dietro il proprio bagaglio.
Questo fiorentino ti spiazza sempre un po’…
 
FG: Secondo te c’è una tendenza drammatica, teatrale in Chiari? In Chiari compositore e/o performer? Hai mai guardato come lui eseguiva determinati suoi pezzi, negli anni Settanta ad esempio?
LM: Sono alla ricerca del video di Gesti sul piano. Mi sono fatto mandare la partitura dal figlio, ma mi ha mandato due versioni completamente diverse dello stesso pezzo. Ci sono dei fogli grandi, ma ce ne è anche una versione su fogli più piccoli in francese, che Chiari aveva dato a Frederic Rzewski: quale è quella vera?
Comunque ho visto Chiari eseguire Gesti sul piano in più di un’occasione, sempre negli anni Novanta. Il suo era un pianismo completamente diverso dal mio: io uso sempre il pedale, lui non lo ha mai usato.
Sulla tendenza teatrale ti rispondo un po’ polemicamente: è come parlare di Chiari come artista visivo. Era un musicista che ha giocato con la grafica e con la performance per campare. Chiari mi ha spiegato la sua teoria della riduzione: Pierre Boulez si è ridotto a fare il direttore d’orchestra, invece era un compositore. Chiari si era ridotto ad artista visivo, ma era un musicista.
 
FG: Intravedo tanto John Cage in Chiari. Per esempio l’idea che tutto può essere musica. Cioè accogliere come “musica” il rumore, ciò che accade casualmente. Oppure, credo sia in occasione di un concerto fatto a Roma alla Filarmonica, in cui i musicisti sono ancora in giacca e cravatta, sul palco separati dal pubblico che è di fronte a loro sulle sedie, doveva essere il 1964-66. E Chiari usa un pupazzetto elettrico, giocattolini vari… Dispositivi che ricordano le radio, le sveglie, l’acqua di Cage.
LM: Magari, come dici, il risultato può essere anche simile, fra Cage e Chiari, ma la filosofia dietro è differente. Cage si rifà a certe filosofie orientali, a certi processi aleatori. Chiari proprio no. Lui parte da un concetto politico, tutto sommato, rovescia la musica come un pedalino ed ecco perché può usare il pupazzetto…
Suonare la città, per esempio, è un manifesto politico, tutti possono fare musica senza strumento, in giro per la città: suonare le inferriate o andare in giro a fare casino. Cage è molto più “accademico”, rispetto a Chiari. Certo in 4’ 33” il suono ambientale entra nel silenzio del performer. Ma è un caso preordinato: Cage aveva anche un paio di software con cui generava strutture casuali. Chiari credo non avesse mai schizzato l’inchiostro sul pentagramma. Intendo dire che Chiari ha sempre composto: negli ultimissimi lavori sembra addirittura usasse una sorta di sistema “seriale” (ma segreto). Al massimo, forse, ha schizzato qualcosa sulle sue opere grafiche (quelle ridotte). In Chiari non c’è neppure interesse per il processo.
 
PP: In Chiari c’è una apertura alle partecipazioni fatta di tempi, corpi, luoghi, magari neppure ripetibili. Se tutti quanti possiamo fare musica da per tutto, io ho fatto musica oggi pomeriggio in una certa strada, ho suonato la città, ma non ci tornerò più, né nessuno ci ritornerà al posto mio. Questo diventa un atto performativo non ripetibile. Anche questo è drammatico perché è una partecipazione che ha a che fare con la fisicità, con la soggettività, per esempio. Mentre Cage è comunque ripetibile…
LM: Pure Chiari è ripetibile perfettamente, in certi casi. Senza abbandonare la fisicità, c’è una partitura verbale in cui prescrive di provocarsi il vomito: sia meccanicamente, sia chimicamente, come preferisci. Poi c’è la drammatizzazione di questo atto.
PP: Questa potrebbe essere l’istruzione data a un attore, in fondo…
LM: Ma invece è data a un musicista. Quindi in realtà di teatro ce ne è poco. Abbiamo tirato la musica così tanto che alla fine ci rientra tutto. È come quando io dico «ho girato un filmetto super8, muto, che è un pezzo per pianoforte». L’inquadratura è un pianoforte. Per me è musica, per qualcun altro è cinema. Ma alla fine dipende tutto da quello che decide l’autore.
Giuseppe mi raccontava di qualche conversazione in treno: «”lei che lavoro fa?”, ma che gli dico – continuava –“faccio il musicista”, ma poi che tipo di musica faccio, come glielo spiego?». Per cui rispondeva in maniera evasiva.
 
FG: Affermi spesso che Chiari ha un’impostazione politica, ma con “politica” intendi il sovvertimento delle gerarchie musicali, culturali?
LM: Sì certo. Chiari parla della Società del Quartetto come di un mostro da debellare, in fondo. La musica deve essere di tutti, la musica è facile. Tutti possono fare musica. Questo è il grosso discorso politico di Chiari, è anche semplice. Tuttavia Chiari è morto undici anni fa, ma siamo ancora con la Società del Quartetto.
 
FG: Tra minimalismo e Fluxus come collochi Chiari?
LM: Ha fatto parte di Fluxus, ma ne parlava malissimo: forse lo prendeva in giro, ha giocato anche su questo. Non lo vedo tanto fluxus, piuttosto Chiari ha un percorso personale.
 
MF: Minimalista nel senso di sottrazione: c’è una riduzione del linguaggio molto forte. A tal punto che a un certo punto Suonare la città, un testo lunghissimo, soltanto leggendolo lo stai già eseguendo. Lì veramente tira talmente tanto il linguaggio, che lo ha completamente capovolto. In questa perdita della drammatizzazione c’è una perdita, ma anche un drammatizzazione, c’è un essenzialità. Beckett fa la stessa cosa. Forse Chiari è talvolta beckettiano? Nel senso che c’è un esaurimento del linguaggio, in alcune posture di Chiari. Se penso a Gesti sul piano, sono gesti che rimangono in potenza, che non sono attualizzati. È come se avesse esaurito ogni possibilità
LM: Secondo me no. Chiari – a mio avviso – non lavora “a togliere” o a ridurre il materiale. Più che di riduzione parlerei di essenzialità. Non c’è esaurimento del linguaggio, semmai un rovesciamento del linguaggio musicale. Usa materiali essenziali, ma non li riduce. Quando dice: «mi potrei trovare in difficoltà, sono su una sedia e non ho strumenti; potrei essere nudo e allora pezzo per uomo nudo sulla sedia, legato». Questa non è una riduzione, ma portare a un punto critico la figura del musicista: non sta togliendo ma portando al limite. Da un lato c’è la Società del Quartetto, dall’altra c’è Chiari, nudo legato sulla sedia, ma può comunque fare musica.
MF: Vediamo se ho capito bene: Chiari non è minimalista perché non lavora per sottrazione; non c’è prosciugamento. Chiari lavora più per aggregazione molecolare: l’uomo, la sedia, ecc.
 
FG: C’è anche tanto corpo in Chiari: pensa a Concerto per donna, a certe sue esecuzioni di Gesti sul piano, a Suonare la stanza, solo per citare i più noti.
LM: Il corpo perché è quello che alla fine rimane. Non per teatralizzazione: se mi sbatto contro il muro, per forza c’è il corpo. Ma è uno strumento come il muro. Oppure la custodia di termometro, che è uno strumento ben strano: una volta ho eseguito questo pezzo con un jazzista e lui si è messo a soffiare dentro la custodia per ottenere dei suoni. E invece è uno strumento silenzioso, banale.
 
FG: Secondo te anche i pezzi più performativi hanno una versione “scritta”? Penso alle tante opere performative di Chiari che ho visto documentate attraverso la fotografia, negli anni Settanta.
LM: Tra il 1965 e il 1975 ha scritto molte partiture verbali: immagino che tu ti riferisca a quelle.
 
FG: Collaborazioni particolari fra te e Chiari?
LM: Tre pezzi per Giovanna Sandri sono nati a quattro mani per telefono con tutta la vicenda della partitura… Ma c’ anche il Pezzo per tromba: un trombettista di Firenze, credo, gli commissionò un pezzo per tromba, e Chiari mi coinvolse. Così scrivemmo due pezzi per tromba. Il suo è un pezzo assurdo, quasi solo testo, tortura la tromba con una catena, ecc. Io ho scritto Fanfara per G. C., un pezzettino seriale di quattro-cinque note con un lungo testo che, se vuoi lo leggi, altrimenti no. Il pezzo forse sono solo quelle cinque note, ma invece forse è tutto il testo che lo precede… con il nome Chiari che è il generatore della serie di note.
MF: E il musicista che li aveva chiesti, ha eseguito questi pezzi?
LM: Penso di no, pare si sia soprattutto arrabbiato!
 
FG: Hai accennato a un’altra “collaborazione”, parlavi di un’opera lirica …
LM: Non è una vera e propria collaborazione. Ve lo racconto per autoincensarmi. Un giorno Chiari mi ha detto, doveva essere il 1999, «ci sono solo due musicisti che supereranno il millennio: Letizia Bolognesi e te. Però a te manca un’opera lirica». E poco dopo l’ho scritta un’opera lirica, Forse stanotte (Operetta inutile), quindi sono riuscito a superare il millennio, come diceva Chiari.
L’altra collaborazione, veramente surreale, è l’unica opera che abbiamo fatto assieme, Giuseppe Chiari e Luca Miti, al Castello dell’Aquila, alla fine del xx secolo, credo. L’opera consiste in un ventilatore, di quelli a terra, acceso. Il bello è che io non l’ho saputo: l’ha fatta lui e l’ha attribuita anche a me, ma io l’ho saputo per via traverse, dopo. Forse giocava, o forse è una scelta politica anche questa…
 
FG: Chiari si “appropriava” del lavoro degli altri: penso agli scatti fotografici su cui sono un po’ più ferrata. Ma non so se accettava che altri si “appropriassero” del suo lavoro?
LM: A giudicare da quando gli ho suonato un frammento di Intervalli, direi di no.
 
FG: Le partiture di Pezzo per tromba esistono?
LM: Sì, le ho a casa e sarei felice se si pubblicassero. Ma inedite sono anche le partiture di MLM Musica per Luca Miti. Chiari mi ha dedicato tre-quattro pezzi che non ho mai eseguito: due pezzi per pianoforte (notazioni), con altri materiali, una radiolina e una finestra (soundscape) (misto verbale e notazione); e un pezzo solo verbale, con delle azioni da svolgere. Risalgono a poco prima che morisse, ma non le ho mai eseguite. Me li mandava o me li dava. Era un periodo in cui scriveva tanti “pezzettini” per pianoforte, al dedicatario: ci sono anche dei pezzi per Girolamo De Simone. Lui ha eseguito i suoi, io i miei mai. Non mi piacciono molto: all’epoca Chiari scriveva pezzi con due-tre intervalli [Figg. 5-6]. Quindi sono poche note che si ripetono ritmicamente, molto diversi da quello che faceva prima. Lui diceva che c’era una specie di processo seriale segreto della composizione. Ma non so se fosse vero: ho l’impressione che li facesse un po’ in serie, come le “chitarrine”, insomma.
 
PP: Certo lo spartito come disegno nella storia della musica ha una sua ampia declinazione. Se lo spartito può essere considerato un disegno, la fattura di un disegno prevede lo scarto, lo schizzo: cioè una serie di passaggi, magari minori, preparatori, anche seriali… poi l’opera è un’altra. Se parliamo di partiture verbale, anche lì c’è un grado di ripetitività, di schizzo. Hai detto all’inizio che le partiture verbali non sai se sono poesia, teoria: i confini sono sfumati… Le partiture di Ligeti diventano delle composizioni grafiche, le partiture di Chiari diventano dei componimenti poetici. Ma anche questi prevedono tentativi ed errori, ci si può aspettare certi pezzi ripetitivi, fa parte dell’officina.
LM: Ti riferisci al prova e riprova. Fatico ad accettare Ligeti come fatto visivo, per quanto siano belle, le sue partiture sono anche funzionali. Così come le “poesie” di Chiari sono funzionali a un’esecuzione: non arrivo a capire dove finisce la poesia e dove inizia la partitura. Ma lì c’è un’istruzione.
 
PP: Chi non ha una competenza musicale, considera quelle partiture sotto un altro aspetto.
LM: Daniele Lombardi, amico di Chiari, faceva delle partiture solo da vedere. A me non sono mai andate a genio: allora che differenza c’è con un quadro? Io davanti a un quadro non percepisco un oggetto sonoro. La partitura è funzionale a un evento. Un quadro non ha conseguenze temporali. Non ho mai sopportato di suonare i quadri.
 
PP: Se pensi a Marion d’Amburgo e ai Magazzini Criminali, per restare a Firenze, hanno esordito nelle gallerie, ma poi sono approdati al teatro. A Chiari questo non è successo, ma è anche vero che le gallerie a un certo punto hanno cambiato direzione, hanno chiuso a queste sperimentazioni. Sono arrivati gli anni Ottanta e con essi è diminuita la disponibilità verso altri linguaggi…
LM: Negli ultimi tempi, quando eseguivo dei pezzi di Chiari nelle gallerie lui era sconfortato che non si fossero aperti spazi adeguati per quel tipo di ricerca musicale. Pure discograficamente, se ci pensi, di Chiari che io sappia esiste solo un LP, dedicato alla cosiddetta scuola fiorentina – musicisti i più disparati – in cui vi è un pezzo di Chiari, curato da Daniele Lombardi che era amico di Chiari e di quella cerchia. Poi negli ultimi anni è uscito un cd con vecchie registrazioni, prodotto da Gianni Antognozzi 3). Ecco non c’è paragone con altri musicisti d’avanguardia che hanno registrato parecchio.
Roma, 19 novembre 2018



1) In una mail successiva Luca Miti ha elencato i pezzi di Chiari da lui eseguiti: un frammento da Intervalli (1950); Do (1951); Fuori a Cornelius Cardew” (1965); Solo con la volontà di sapere (1965); Pezzo per custodia di termometro (1966); Fare qualcosa col proprio corpo e il muro (1967); Chatterbox a Mario mio figlio” (1967); Studio (1972); Tre pezzi musicali a Giovanna Sandri (2003).
2) L. Miti, 4 piccoli punti per 3 pezzi musicali, in «I suoni, le onde. Rivista della Fondazione Isabella Scelsi», 2003, n. 10, p. 5.
3) G. Chiari, Antologia 1950-1970, CD, Silenzio, Roma, 2000; Suono, Gesto, Segno, Visione a Firenze, CD, Atopos, Arezzo, 2006; G. Chiari, M. Bortolotti, P. Mo