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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Mauro Folci

Dove si colloca l’opera di Giuseppe Chiari dipende dal tipo di incontro che si fa, di volta in volta, con la sua idea di opera. Certo, è consuetudine collocare un artista che si vuole storicizzato dentro una mappatura linguistica certa, e difatti Chiari per la maggiore è ricondotto ai modi di Fluxus, tuttavia ritengo che gli incontri di questo genere avvengono su un piano concettuale e temporale molto più ampio. L’opera di Chiari, da questo punto di vista si colloca non in un genere ma in una costellazione eterogenea di saperi e di pratiche che spaziano dall’arte alla musica, dalla performance alla letteratura, dalla filosofia alla politica. Solo in questo contesto multidisciplinare credo sia possibile ancora dialogare con le opere di Chiari.
Di questo tipo sono gli incontri che ho fatto con Giuseppe Chiari e che ripropongo ancora oggi ai giovani artisti che seguono il mio corso di Arti performative in accademia. Sono pochi, solamente tre spartiti collocati ognuno all’interno di un piano discorsivo differente ma interconnesso con gli altri: La mano mangia il foglio, Solo con la volontà di sapere e Suonare la città.
La mano mangia il foglio (1967) è una performance che solitamente propongo a uno studente di eseguire, è semplice e di grande efficacia. È un’opera musicale e questo va tenuto in gran conto perché richiede un ascolto attento, ma è anche una performance e l’immagine che produce è di grande impatto nella trama discorsiva in cui viene inserita, in cui la inserisco a lezione, vale a dire nella dialettica tra vita animale e vita qualificata politicamente, tra natura e mondo, tra linguaggio e oblio. La mano mangia il foglio solitamente giunge strategicamente per ultimo, a dimostrazione di come si possono risolvere nel linguaggio dell’arte temi concettualmente complessi. La mano di Chiari giunge dopo la noia di Giacomo Leopardi e di Martin Heidegger che considerano questo stato d’animo quello che maggiormente denota il nostro esserci, dilaniato tra un nulla di essere e un essere aperto. Uno stato d’animo che getta l’essere in una dimensione atemporale che incanta e incatena alla stessa maniera in cui l’animale è incantato e incatenato al suo ambiente. La mano mangia il foglio giunge dopo che Bartleby, lo scrivano di Herman Melville, in conseguenza del suo stesso bislacco gioco linguistico, Preferirei di no, smette di copiare le lettere, conferendo in tal modo al foglio di carta lasciato in bianco la forma di una pura potenza, ossia di una impotenza (Giorgio Agamben). La mano mangia il foglio arriva dopo aver argomentato il ritorno alla natura animale dei Cinici antichi e la natura dell’uomo post storico che a detta di Alexandre Kojève vuol dire la perdita dell’umanità a favore di un ritorno integrale alla condizione animale. La mano mangia il foglio arriva dopo tante altre immagini o concetti, dopo il divenire animale di Gilles Deleuze, dopo i tarantolati di Ernesto De Martino, dopo l’esausto Samuel Beckett e dopo Vito Acconci.
La sequenza visiva è questa: 1) Not I di Samuel Beckett, 2) Open book di Vito Acconci, 3) La mano mangia il foglio di Giuseppe Chiari. Le prime due sono bocche parlanti sparate in primo piano, non si vede altro. Solo due bocche bavose che parlano, ognuna a modo suo, una lingua incomprensibile. Una lingua straniera che ben presto diviene, in chi l’ascolta, suono inarticolato simile al flatus animale e che finisce inesorabilmente per informare di senso l’immagine, che ora diviene ferita sanguinante, sesso aperto, generica carne animale. La mano mangia il foglio di Chiari è la bocca di Beckett e di Acconci divenuta anch’essa un animale che compie un atto antropofago: la mano-animale mangia il foglio bianco che è la forma della pura potenza, che è la forma del pensiero che pensa la propria potenza, mangia cioè la facoltà che specifica il propriamente umano.
Ecco, in questa rete di significati e di immagini eterogenee Chiari “s-funziona” bene, oltretutto, anche come metodo: chiunque può essere un artista, un musicista, un cantante. Non sai cosa sia uno spartito? Allora puoi eseguire la musica di La mano mangia il foglio [Fig. 7]. Non hai mai toccato la tastiera di un pianoforte? Allora sei il musicista giusto per eseguire Solo con la volontà di sapere.
Altra opera di Chiari che uso strategicamente come grimaldello per spezzare il discorso di maniera ancora egemone nelle accademie è Suonare la città, una partitura musicale ridotta a testo poetico che ti dice come si può suonare una città, come si può eseguire un concerto sinfonico con i rumori che la città produce. Una sintesi straordinaria e di grande risonanza: non c’è opera ma solo un’idea di città che s’impone improvvisa e potente, che dilaga come un virus di bocca in bocca, di corpo in corpo finanche a modificare le posture e le traiettorie di chi ne è stato affetto.
È a tutti gli effetti una deriva psicogeografica, una cartografia situazionista.
Leggere lo spartito equivale a eseguirlo, ma c’è di più, poiché l’esecuzione produce in chi l’ascolta una nuova sensibilità e una nuova consapevolezza degli spazi che attraversa e abita, questo ascoltatore che ha imparato a suonare la città diventerà egli stesso trasmettitore di un nuovo modo di vivere la città, e tutte le parole e tutte le immagini che userà per comunicare la sua esperienza saranno incluse a pieno titolo nello spartito. L’opera di Chiari è un’idea virale e per questo aperta a sviluppi ulteriori.
Una esecuzione importante di Suonare la città è senza dubbio quella di Tommaso Tozzi che cito brevemente: «I brani di Chiari, dal momento in cui sono eseguiti la prima volta, divengono parte del sistema “vita” e di esso seguono il ciclo biologico» (1).
 
Solo con la volontà di sapere, infine, ha incrociato anche il mio lavoro di artista. Non ho avuto l’opportunità di conoscere personalmente Giuseppe Chiari tuttavia ci siamo sentiti telefonicamente due, o forse tre volte, nel 1996 per una collaborazione: stavo preparando una mostra al Museo Laboratorio Arte Contemporanea (2) dell’Università La Sapienza e tra le opere in mostra c’era Pianoforte preparato di casa Mastella, una replica fedele del pianoforte che il folcloristico politico teneva nella sua casa di Ceppaloni: un pianoforte a coda il cui uso era però interdetto da una composita istallazione di ritratti fotografici di famiglia, schiacciati dentro pacchiane cornici da tavolo. Chiesi a Chiari di intervenire su quel originale e inconsapevole pianoforte preparato. Dapprima accettò ma poi, per cause di salute immagino, girò l’invito a Luca Miti (3) musicista e artista molto stimato da Chiari [Figg. 8-9], con il quale, da allora, intrattengo una amichevole e ricca collaborazione. Luca Miti esegue, in quell’occasione, proprio Solo con la volontà di sapere.
20 gennaio 2019



1) In occasione del 70° compleanno Omaggio a Giuseppe Chiari presso il Conservatorio di Bologna, 13 febbraio 1997 (cfr. «Il Manifesto», 9 febbraio 1997).
2) Mauro Folci. Luoghi di produzione della cultura, a cura di Cecilia Casorati, MLAC Università La Sapienza, Roma, 1996.
3) Luca Miti, programma di sala, MLAC 1996: Fare qualcosa col proprio corpo e il muro (Giuseppe Chiari, 1967); Pezzo per custodia di termometro (Giuseppe Chiari, 1966). Solo con la volontà di sapere (Giuseppe Chiari, 1965); Il vecchio cerume e il vecchio catrame (Luca Miti, 1992-93); Orga