L’antologica al Palazzo delle Esposizioni
Patrizia Mania
In questi difficili giorni di “distanziamento sociale” anche la bella mostra antologica su Jim Dine rimane, almeno per ora, chiusa nello scrigno del Palazzo delle Esposizioni e, oltre che nella memoria di chi ha avuto la fortuna di fare in tempo a visitarla, nella possibilità, in supplenza, di fruirne in efficaci visite guidate on line che sala dopo sala ce ne raccontano in brevi sintesi il ductus. Più di mezzo secolo di attività artistica esemplarmente presentato in un ampio allestimento fa in realtà di questo incontro con l’opera di Jim Dine un’occasione rara di immersione nel suo mondo. Inauguratasi l’11 febbraio, la mostra ha senz’altro restituito quella “complessità” e “ricchezza” che proprio la curatrice Daniela Lancioni si auspicava potesse almeno contribuire ad accennare. Non c’è dubbio, infatti, che l’itinerario proposto sia riuscito a carpire, nell’insieme e nelle parti che lo scandiscono cronologicamente e tematicamente, l’avventura nell’arte fin qui vissuta da questo artista. La mostra e il poderoso catalogo che l’accompagna sembrerebbero innanzitutto sottolineare l’unicità e la distanza circospetta sempre mantenuta da Dine da umori momentanei e da adesioni a questa o a quell’altra tendenza e che si qualificano come tratti peculiari della sua vicenda artistica. La sua originalità sta anche, e direi soprattutto, in questo stare sempre dentro al suo tempo con modalità però mai supine alle mode del momento, cogliendo piuttosto di volta in volta quanto gli è di più congeniale per farlo proprio. L’impossibilità di comprimere l’opera di Dine in una specifica tendenza, ne fa un artista che si potrebbe dire eretico. Si pensi ad esempio alla clamorosa partecipazione degli Stati Uniti alla Biennale di Venezia del 1964, dove c’è anche Jim Dine che però risulta piuttosto laterale alla Pop Art che dell’arte americana sbarcata in laguna ne è il tratto più rappresentativo. Piuttosto, lì come altrove, appunto, si mostra incline a seguire e a perseguire un cammino a sé stante, isolato ed appunto eretico rispetto alle tante correnti con le quali entra in contatto, e che, pur dialogandovi con grande curiosità e prensilità, piega e assimila alla propria dimensione poetica mai assoggettandovisi.
Un carattere costante di ribellione, di libertà, un suo essere un “à part” che quest’occasione espositiva conferma e focalizza negli apparati critici che nel catalogo consentono di delinearne al meglio il profilo artistico.
Dal 1959 fino ad oggi, la mostra ripercorre le diverse fasi di questa avventura nell’arte che accompagna la sua vita e con la quale si immedesima. Fin da un primo frugale sguardo alle opere di questi sessant’anni di attività appare evidente che, pur nelle plurali accezioni in cui si declinano, la cifra dominante sia quella della pittura, anche, e forse soprattutto, quando il supporto per il quale l’artista opta non le è specificamente vocato. Non tanto e non solo quadri in senso stretto, infatti, ma spesso ambienti le cui componenti aggettano oltre le superfici. Dai primi saggi pittorici, all’immaterialità performativa degli happening, all’environment, alle sculture: tutto sembra darsi e costituirsi per il tramite della pittura che domina e ammanta i variegati rivoli della sua produzione appropriandosi di quanto entra nella sfera dei suoi interessi.
Sulla genesi delle opere di Dine e il fertile interscambio intessuto con l’arte del suo tempo e quella di poco precedente rafforza l’idea di una ascendenza anche europea, seppure non esclusiva o prevalente, il richiamo nelle Head degli inizi alle “Teste” di Antonin Artaud (1) e l’interesse per Jean Dubuffet, documentato dagli scambi con Claes Oldenburg. Di pari valenza, la mostra non manca di riferire le fonti sul fronte americano, in particolare Jackson Pollock, Lester Johnson e soprattutto Willem de Kooning. All’abbrivio di una convergenza tra pensiero esperienziale di marca statunitense e esistenzialismo europeo, nel cui alveo, per il tramite proprio di questa occasione espositiva, ci si convince ancor più suadentemente a considerare Dine, si riconoscono dunque le coordinate di partenza. Ma anche della vitalità di un dialogo che si andrà nel tempo rinnovando in scambi, intersezioni, reciproche influenze e che disegna l’orizzonte ampio del suo sguardo.
Uno degli aspetti su cui il percorso espositivo e l’apparato critico documentario del catalogo insistono particolarmente riguarda il capitolo degli happening di Dine posti a chiosa dell’intero percorso espositivo, non solo perché coincidono con le sue prime sortite pubbliche ma anche perché contengono quell’afflato vitalistico che permea l’intera sua produzione e sul quale val la pena di mettere l’accento. Da questo punto di vista, proprio l’happening, in quel suo assumere il mondo attraverso l’azione spiana la strada ad una comprensione e conoscenza piena del suo lavoro. A ribadirne l’importanza, oltre la ricognizione degli specifici eventi - da Smiling Workman svoltasi il 29 febbraio 1960 presso la Judson Gallery fino alla realizzazione di Car Crash , 1-6 novembre 1960, ritenuto il “suo happening forse più articolato e importante”(2) - è la galleria di preziose immagini fotografiche di tutti gli happening che, grazie al prestito degli archivi pubblici e privati presso i quali sono conservate, viene per la prima volta qui presentata per intero. Ai più noti happening del 1960 si suggerisce inoltre di affiancare due ulteriori eventi: la partecipazione di Dine il primo aprile del 1960 all’inaugurazione della sua mostra personale alla Reuben Gallery di New York che Lancioni definisce “eccentrica e graffiante”(3), e la pièce Natural History (The Dreams) tenutasi sempre a New York il 3 maggio del 1965 . Soprattutto quest’ultimo evento sposta in avanti di qualche anno il termine dell’interesse per l’happening che di fatto Dine considerava già concluso alla fine del 1960 essendo venuta meno quell’energia vivificante che lo aveva indotto a cimentarvisi. Eloquente che nel catalogo - che Dine, analogamente alla mostra sembrerebbe aver condiviso con la curatrice in ogni sua parte - abbia voluto pubblicare alla fine della carrellata di fotografie documentarie dei suoi happening una lettera del 1962 in cui ne prende commiato (4).
Fulcro nevralgico di ogni sconfinamento è tuttavia, come si diceva, la pittura, vero main stream della sua vicenda nell’arte. E questo può dirsi sia quando si deposita come uno sciame pittorico sugli happening, sia quando, interpolandosi con gli oggetti, ne suggella l’atto appropriativo.
Nell’iconografia cui fa ricorso Dine, in un percorso peraltro interpuntato da cicli e serie, sono di continuo reiterati alcune immagini e alcuni oggetti. Per quanto riguarda i tanti oggetti – i capi d’abbigliamento, gli utensili da lavoro (accessori da bagno e soprattutto attrezzi da ferramenta) … -, essi instaurano con la pittura un rapporto dialettico i cui significati e modalità sono ripercorsi da Claudio Zambianchi in un saggio riportato in catalogo (5). Scorrendo sulle opere, i tanti registri nei quali tale interscambio si invera emergono evidenti: dall’oggetto agglomerato alla pittura, agli environment, alle sculture, senza peraltro tralasciare l’oggetto rappresentato in pittura. Tra questi ultimi, il caso paradigmatico, non foss’altro perché anche tra i più conosciuti, potrebbe individuarsi in Shoe del 1961 che sintetizza molti dei precipui caratteri della sua poetica: l’accentramento isolato della figura - in questo caso la scarpa sospesa sul fondo neutro - il frammento paesistico su cui poggia, la scritta sottostante. Nel rapporto tra parola e immagine si fa stringente un richiamo all’Europa, qui esplicitamente magrittiano (6).
A partire dagli anni ’70, fa con insistenza capolino nel mondo di Dine l’interesse rivolto ai capolavori del passato: in particolare per la figura della Venere. Sorprende, in queste Veneri, per lo più modellate in legno, la scelta di farne catalizzatrici di altre icone come accade nelle tre Veneri acefale di The Wind and Tools (A Glossary of Terms) del 2009 che quasi fossero magneti attraggono una consistente quantità di utensili (i Tools) per farne cintura intorno ai propri fianchi obbligando l’“antico” a farsi carico delle ferraglie del presente, dell’attrezzistica utensile: la “bellezza” della Venere a cospetto dunque del “fare”.
Nonostante la pittura domini incontrastata a suggello di tutta la sua produzione, ci sono stati momenti di cesura che la mostra non manca di registrare. Per esempio nel biennio 1965-67 quando l’attenzione di Dine si è rivolta alla scultura indagandone possibilità e esiti in funzione apparentemente staccata dal solco pittorico prevalente. Mantenendone tuttavia una continuità per via del metodo impiegato: in opere come Large Boot Lying Down, Red Axe o anche Another Ribbon Machine, tutte del 1965, la tecnica della fusione a staffa in alluminio adottata ha infatti, come osserva Lancioni, la stessa funzione altrove svolta dalla pittura, si presenta cioè come “un modo per appropriarsi degli oggetti” (7).
Restando sull’importanza della scultura, la mostra riserva un capitolo a parte ad una serie di ben undici Pinocchi realizzati tra il 2004 e il 2013. Tutti in legno dipinto, di formati e dimensioni diverse imbastiscono una mostra nella mostra, intenti ciascuno con gesti, posture, attributi a mettere drammaturgicamente in scena significati ulteriori e distanti dal canovaccio collodiano. Come la maggior parte delle icone che popolano il repertorio di Dine, anche Pinocchio ha stretti legami autobiografici. Il suo “reclutamento” nell’immaginario di Dine affonda dapprima, bambino, nella visione della traduzione cinematografica di Disney cui seguirà l’acquisto nel 1964 di un piccolo Pinocchio assurto quasi ad amuleto (8), per poi permanere in seguito un p0’ come metafora del potere affidato alla creazione dell’artista. Dal ceppo grezzo del legno alla figura sbozzata, l’attributo per antonomasia del personaggio – la grandezza del naso – lascia il posto al bisogno di emblematizzarne la solitudine e l’inquietudine.
Non mancano, infine, in mostra le immagini di cuori con le quali di frequente si identifica la cifra di Dine. Fragili forme, spesso annotazioni diaristiche, costellano - nelle incisioni, nelle sculture, negli environments - quasi per intero la sua produzione prestandosi alla suggestione che possano ritenersi quasi un grimaldello per potervi avere accesso. Nel coniugarsi con tanta parte dell’arsenale iconografico di Dine danno infatti motivo di pensare che al cuore l’artista si richiami per parlare di sé, dei suoi sentimenti, scalfiti, aggrediti - come nella sega che ne minaccia l’integrità in Putney Winter Heart No.9 (Poulenc) del 1971 - o esaltati da una stringente relazione con la natura come in Nancy and I at Ithaca (Straw Heart) del 1966-69, grande cuore di paglia che si appoggia lateralmente come a strizzarci l’occhio in un amoroso idillio. Nelle imperfezioni con cui i cuori ci si presentano pulsa, ancora più che altrove, l’appartenenza e identificazione della sua arte alla sua vita.
Una vita per l’arte e un’arte per la vita. Un’equazione che sintetizza al meglio la necessità che ha spinto Dine a fare arte. Sul sito del Palazzo, presentando questa sua mostra dichiara con struggente verità: “Sono io / È tutto quello che faccio / Sono venuto al mondo come artista / È tutto quello che so fare/ Non so fare niente altro/ Non ho altri talenti”.
20 aprile 2020
1) Daniela Lancioni (a cura di), Jim Dine, catalogo della mostra omonima, Palazzo delle Esposizioni, Roma, Quodlibet, 2020, p.122
2) Francesco Guzzetti, “’New Use of the Human Image’: gli Happening di Jim Dine”, in, Ibidem, p.75
3) Ibidem, p.123
4) Ibidem, pp.66-67
5) Claudio Zambianchi, “Jim Dine: Inventing Objects”, in Ibidem, pp.107-119.
6) All’importanza delle parole che compaiono in molti dei lavori di Dine è dedicato in catalogo anche l’affondo di Annalisa Rimmaudo, “ Words are Part of My Bag of Tricks. They’re Objects to Me” in, Ibidem, pp.91-105.
7) D.Lancioni, “Sulla mostra di Jim Dine al Palazzo delle Esposizioni”, in Ibidem, p. 130.
8) Ivi, p.136.
Non mancano, infine, in mostra le immagini di cuori con le quali di frequente si identifica la cifra di Dine. Fragili forme, spesso annotazioni diaristiche, costellano - nelle incisioni, nelle sculture, negli environments - quasi per intero la sua produzione prestandosi alla suggestione che possano ritenersi quasi un grimaldello per potervi avere accesso. Nel coniugarsi con tanta parte dell’arsenale iconografico di Dine danno infatti motivo di pensare che al cuore l’artista si richiami per parlare di sé, dei suoi sentimenti, scalfiti, aggrediti - come nella sega che ne minaccia l’integrità in Putney Winter Heart No.9 (Poulenc) del 1971 - o esaltati da una stringente relazione con la natura come in Nancy and I at Ithaca (Straw Heart) del 1966-69, grande cuore di paglia che si appoggia lateralmente come a strizzarci l’occhio in un amoroso idillio. Nelle imperfezioni con cui i cuori ci si presentano pulsa, ancora più che altrove, l’appartenenza e identificazione della sua arte alla sua vita.
Una vita per l’arte e un’arte per la vita. Un’equazione che sintetizza al meglio la necessità che ha spinto Dine a fare arte. Sul sito del Palazzo, presentando questa sua mostra dichiara con struggente verità: “Sono io / È tutto quello che faccio / Sono venuto al mondo come artista / È tutto quello che so fare/ Non so fare niente altro/ Non ho altri talenti”.
20 aprile 2020
1) Daniela Lancioni (a cura di), Jim Dine, catalogo della mostra omonima, Palazzo delle Esposizioni, Roma, Quodlibet, 2020, p.122
2) Francesco Guzzetti, “’New Use of the Human Image’: gli Happening di Jim Dine”, in, Ibidem, p.75
3) Ibidem, p.123
4) Ibidem, pp.66-67
5) Claudio Zambianchi, “Jim Dine: Inventing Objects”, in Ibidem, pp.107-119.
6) All’importanza delle parole che compaiono in molti dei lavori di Dine è dedicato in catalogo anche l’affondo di Annalisa Rimmaudo, “ Words are Part of My Bag of Tricks. They’re Objects to Me” in, Ibidem, pp.91-105.
7) D.Lancioni, “Sulla mostra di Jim Dine al Palazzo delle Esposizioni”, in Ibidem, p. 130.
8) Ivi, p.136.