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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

I lavori di Victor Fotso Nyie, Las Nietas De Nonó, Muna Moussie e Christian Offman al Mattatoio di Roma

Patrizia ManiaIcoPDFdownload
 
“Come essere sé stessi senza chiudersi agli altri e come aprirsi agli altri senza perdere sé stessi?”(1) Su questo interrogativo fondante si snoda in gran parte il pensiero del filosofo caraibico Édouard Glissant che nelle tante convergenze con le questioni poste dalla mostra Sediments. After Memory (2) rappresenta un proficuo richiamo. Curata da Johanne Affricot, Eric Otieno Sumba e Roberto Scalmana e ospitata dal padiglione 9a del Mattatoio di Roma la mostra si articola lungo quattro ricerche artistiche distinte, per luoghi e per modi, e però vicine per varie disgiunte ragioni. Il primo più superficiale comun denominatore è certamente nel fatto di interpellare culture sottorappresentate e ritenute marginali. Si tratta infatti di artisti provenienti dal Camerun, dall’Eritrea, dal Ruanda e da Porto Rico. Il secondo, più granitico, si lega al titolo e con esso al richiamo, tra gli altri a Glissant, essendo i “sedimenti dopo la memoria” qualcosa che ha a che vedere con l’arcipelago di relazioni da lui indagato. Su questo crinale potremmo descrivere i lavori in mostra come un arcipelago di sedimenti in cui ciascuno a suo modo feconda nuovi immaginari dove nulla è dato per sempre ma si offre piuttosto come mutevole e fluido. Gli strati di memoria sedimentatisi nel tempo non si configurano (e non si potrebbero del resto configurare mai) come fossili permanenti e immutabili, ma mostrano al contrario la straordinaria capacità di rinviare di volta in volta a specifiche caratterizzazioni di tempi e di luoghi.  Passando per tale via, tra i lavori di questa mostra si scoprono interconnessioni e vicinanze, peraltro inaspettate e dirimenti, che attengono all’essere qui e ora di ricerche artistiche che, al di là delle diversità, fanno dell’incrocio, dell’intreccio, dell’ibridazione, della contaminazione migrante lo sfondo più idoneo a comprenderne il senso.
Radici, identità e ibridazioni dunque. Victor Fotso Nyie artista di origine camerunense indaga attraverso la scultura le memorie delle proprie radici figurative e formali mescolandole a strati sovrapposti di repertori occidentali confrontandosi in particolare con il Surrealismo ma anche con gli immaginari colonialisti predati e risignificati. Ciò su cui sembra insistere è da un lato l’intersecazione che obbliga a percorrerne le coabitazioni; dall’altro, riconfigurandole nel presente, le metamorfosi in cui tali sculture in ceramica o in terracotta si emancipano dal fardello del passato, a tratti anche con qualche punta di ironia. Quasi fossero modellate nel cioccolato, nella levigatezza e asciuttezza formale in cui si danno, alcune identità sospese (questo il titolo dell’installazione) dialogano inoltre con figure dorate che ci parlano di idoli ma anche e soprattutto di un tesoro sottratto da una predazione perpetratasi nel tempo.  Quasi pleonastico chiedersi quanto vi faccia qui da sfondo anche la consapevolezza di quel tanto di contributo fornito dalla scultura africana alla nascita stessa delle avanguardie moderniste e di quanto questo debito -quasi un anno zero dal quale ha preso le mosse la storia della cultura artistica contemporanea - malgrado i tanti dibattiti, non si possa ritenere ancora del tutto risarcito (3). 
Sul crinale di uno sguardo che da alterità osservata si ribalta in osservatore del suo altro si delinea l’installazione di Christian Offman che prende in prestito un relitto industriale amorfo, l’elettrodomestico per eccellenza della quotidianità domestica del consumo contemporaneo - il frigorifero - disponendone due esemplari disfunzionali ai poli opposti di un percorso delineato da delle transenne. Quasi una guida dove far accodare i passeggeri in attesa di imbarcarsi su un volo. Se di viaggio si tratta, i due poli del tragitto sono proprio i frigoriferi posti alle opposte estremità della guida. All’interno di ciascuno, come fossero due grandi depositi/magazzini sono ammassate grandi sculture in cemento. Alludono forse all’incommestibilità della civiltà contemporanea. Queste sculture a fatica allocate nei magazzini/frigoriferi non si ispirano a icone specifiche ma piuttosto e genericamente ad un patrimonio inconscio quasi fossero dei talismani giganti di civiltà da conservare in sostituzione del consumo alimentare. In tal senso, nell’ottica esplicitata dal titolo di un “barocco” (barocco è infatti il titolo dell’installazione) derivato, come dichiara l’artista stesso, dal pensiero di Èdouard Glissant (4).
Su un altro piano, il tema del cibo nelle società globalizzate è l’oggetto del film FOODTOPIA: después de todo territorio, 2020-2021 realizzato dal duo artistico Las Nietas De Nonó. Durante la pandemia di COVID-19, per 28 giorni, Mulowayi Iyaye Nonó e Mapenzi Chibale Nonó, le due sorelle che compongono questo collettivo, hanno tentato di procacciarsi alimenti fuori dai circuiti della civiltà globalizzata, “cacciando” e raccogliendo cibo in una zona del loro quartiere, il barrio San Antón a Carolina, in Porto Rico. Impresa ardua e dissipatoria che svolge il tema dell’impossibile deviazione dai costrutti e in questa disgiunzione fa leva sul compito etico politico affidato alla ricerca artistica. Il film documenta infatti una condizione cui fa da sfondo la storia dell’oppressione delle comunità afro-diasporiche nei Caraibi e la difficile sopravvivenza della loro conoscenza.  
Per l’artista di origine eritrea Muna Mussie il cibo diviene invece un richiamo ai riti di festa che si consumano nel suo paese d’origine quando in occasione di particolari festività lo scoppiettio dei pop corn sulla padella accompagna il rituale offrendosi come cornice d’addobbo, una specie di festone, a prescindere dalla sua commestibilità. Come specifica l’artista stessa, il popcorn in Eritrea è appunto un rito che accompagna le occasioni di festa dove i popcorn più che mangiati vengono lanciati “fatti volare per aria come fossero coriandoli-neve-carnevalesca e poi gettati a terra, sparsi – dice – come a marcare una zona di allegria dove la parsimonia cede il passo al segno dell’abbondanza e dell’effimero” (5). Il 30 giugno, in concomitanza con l’inaugurazione della mostra, si è svolta l’azione performativa PF DJ – Performing DiscJockey. Per l’artista si è trattato di mettere in scena dentro l’installazione “un corpo fantasmagorico rivestito con il Netsela dalla cinta in su”. Lei stessa, travestita con una doppia maschera d’argento e d’oro fermata sul capo da un netsela, ha preparato dei popcorn davanti al pubblico. A far da sfondo, la complessa installazione che ha un titolo in tigrino - che potrebbe pronunciarsi “yebologna sadhanha”- tradotto in arabo, in inglese Bologna St.173 e corredato da un sottotitolo in italiano (Riverberi Roma) e che ha origine da riflessioni precedenti portate avanti per sommatorie e scarti. Il titolo si riferisce al nome di una strada che, una volta conquistata l’indipendenza, la città di Asmara ha voluto dedicare a Bologna e al ruolo attivo avuto nella lotta per l’indipendenza dell’Eritrea. Durante gli anni della guerra (1974-1991) si è assistito ad inesauste organizzazioni di congressi, festival delle comunità diasporiche eritree in tutto il mondo e in particolare, e ininterrottamente, a Bologna. Per Muna Moussié Bologna St.173 è una casa che si modella e prende forma a seconda dei corpi che la abitano e che, con le sue valenze opposte di transitorietà e precarietà, parla della storia ancora poco conosciuta del conflitto e dell’esilio eritreo. I tanti netsela, tessuti tradizionali in garza di cotone bianco, che rivestono l’installazione fungono da tenda/veliero e telaio. Normalmente utilizzati dalle donne come veli o scialli sono qui ricamati ciascuno con le iniziali di uno dei movimenti e delle associazioni per l’indipendenza dell’Eritrea. Per queste tante vie costruiscono un racconto che ne disvela numerosi altri imperniati appunto sulla guerra, la diaspora e l’esilio. Omaggio ma anche urgenza di trasfigurare l’ossessione di un passaggio.
Un ampio arcipelago di relazioni dunque che, nelle pieghe di alcuni dei problemi posti dalla globalizzazione, riconosce al dinamismo delle pratiche artistiche una capacità fluida e generosa di intercettarne e vivificarne i diversi contorni al di là delle distanze di tempo e di spazio.
 
Luglio 2022
1) Édouard Glissant, Introduzione a una poetica del Diverso, Roma, Meltemi, 2020 (1998) [Introduction à une poétique du divers, Paris, Gallimard, 1996].
2) Sediments. After Memory. A cura di Johanne Affricot, Eric Otieno Sumba e Roberto Scalmana. Spazio Griot, Padiglione 9°, Mattatoio, Roma, 30 giugno – 4 settembre 2022.
3)  Cfr: Olu Oguibe, Okwui Enwezor, a cura di,Reading the Contemporary. African Art from Theory to the Marketplace, IVA, Londra, 1999.
4) Édouard Glissant, Introduzione a una poetica del Diverso, cit., p.45.