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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Una mostra/opera di Elisabetta Benassi
 
Patrizia ManiaIcoPDFdownload
 
Estranea a formule semplificatorie di tendenza, Elisabetta Benassi ha messo in scena in questa grande mostra – la prima antologica che un’istituzione della sua città le dedica - le pratiche significanti del suo operare. Ne ha fatto un autoritratto, Autoritratto al lavoro, che combina insieme nel difficile spazio della grande sala espositiva al piano terra del MACRO un gruppo eterogeneo di lavori realizzati tra il 2000 e oggi (1).
Nella rabdomantica sequenza dei lavori in mostra, il filo conduttore di opere originariamente pensate per contesti diversi consiste nel percorso tracciato da alcune strutture architettoniche di impronta brutalista fatte di pannelli modulari in gesso alfa. Quasi quinte teatrali, interpuntano il percorso ricavando al suo interno spazi parzialmente chiusi che nascondono alla veduta d’insieme alcuni lavori.  Scegliere di parlare di sé autoritraendosi specularmente al lavoro nel proprio lavoro e aggregandone momenti diversi dentro il contenitore/opera di una mostra: un’opera dunque e insieme tante opere impegnate in una specifica convivenza da cui traggono nuova linfa vitale sottraendosi a eventuali circostanziati richiami.
Assunta nella sua composita mistilinea unitarietà, l’installazione non fornisce però un punto di vista privilegiato, invitando piuttosto a girarvi intorno liberamente e così potervi scoprire uno o più itinerari narrativi. Se l’inizio del percorso e le traiettorie suggerite tra video, installazioni e suoni, non appaiono rigidamente preordinate c’è però una fine. Nell’ultima parete di fondo isolato al centro e fissato con un grosso chiodo è il libro Les sculptures de Picasso nell’edizione originale del 1948 sulla cui copertina è una fotografia di Brassaï che riproduce il calco in gesso della mano di Picasso. È La mano di Dio (2024), vero e proprio objet trouvé parlante, che non è una citazione del film È stata la mano di Dio (2021) di Sorrentino se non nella misura in cui rinvia alle risorse della casualità dell’esistenza come potrebbe essere il rinvenimento del libro in sé, rivelandosi piuttosto un ‘elogio’, oscillante tra il derisorio e l’ossequioso, a Picasso e alla sua mano. Un ironico e drammatico atto di remise en place del mito autopoietico del modernismo e dello strumento principe del suo operare: la mano.
Di omaggi e richiami la mostra è disseminata e se quello alla ‘mano’ di Picasso chiude il cerchio, altri artisti, poeti e intellettuali sono chiamati in causa in diversi lavori. Sono dialoghi con il loro pensiero e le loro esistenze in processi di détournement che li predispongono a nuove direzioni di senso. 
Al centro della mostra è in ogni caso il lavoro che reso esplicito nel titolo si declama come tema elettivo in differenti accezioni: le macchine che coadiuvano la produzione, l’ordine o il disordine nell’archiviazione di dati, il lavoro di costruzione di manufatti.
In particolare, le macchine di Benassi, un ductus reiterato, si prestano per lo più a deragliare la comprensione della realtà nella disfunzionalità, spesso distopica. Proprio da una sua macchina ha peraltro preso titolo la mostra. È l’ Autoritratto al lavoro del 2016 consistente in una motosega d’epoca del marchio italiano Officine Meccaniche Benassi. Giocando sull’omonimia e forse anche sull’analogia warholiana dell’artista come macchina è qui proposta nel nitore della sua spaesante solitudine e disfunzionalità.
Le macchine rinviano traslatamente anche a Pasolini, il poeta e l’intellettuale al quale più di ogni altro sembrerebbe aver guardato Benassi (2) e che è richiamato in mostra in particolare dai video del 2000 You’ll Never Walk Alone, e Timecode. Qui, protagonisti l’alter ego dell’artista in dialogo e in azione con un giovane attore sosia di Pier Paolo Pasolini, vediamo svolgersi un’immaginaria partita di calcio dentro uno stadio vuoto e assistiamo ad un giro in moto per le strade della periferia romana. Lei, l’artista, lui, il sosia di Pasolini, uniche figure umane in paesaggi che le escludono dominati dalle macchine e dalle scorie. Le macchine, altrove decantate nella straordinaria e però inquietante forza iconica del design che le ha forgiate, sembrano in definitiva porsi come minacce alla nostra sopravvivenza – eloquentemente nel video Tutti morimmo a stento (2004) –. Non meglio rassicuranti ci appaiono quando quasi ci emulano abdicando a se stesse, alla loro presunta efficienza meccanica sostitutiva dell’operare umano, producendo margini di errore più propri all’umano. Accade in Senza titolo (La vie à credit) (2006) dove un meccanismo motorizzato dotato di una punta d’acciaio incide all’infinito cerchi imperfetti quasi a replicare le accidentalità del disegno a mano libera.
Oltre al lavoro delle macchine, e a riflessioni sulla documentazione d’archivio e su alcune memorie fisiche di inaspettate potenziali insidie (3), protagonisti della mostra sono anche alcuni manufatti come i tappeti di grandi dimensioni realizzati in lana annodata a mano. Tappeti “parlanti” che distesi al suolo riproducono frammenti di memorie di storie solo apparentemente laterali e collaterali ai cosiddetti grandi eventi. Davanti ai nostri occhi per non disperderne la memoria. Particolarmente eloquente All the Terrors of the Planet (2021) che riporta il testo del telex inviato da Joseph Beuys a Robert Rauschenberg nel 1984 e in cui tra l’altro  leggiamo “…il tuo lavoro e il mio dovrebbero incarnare una concezione di arte che comprende l’intero essere umano” o The Pure We Can (2024) su cui è riportato il testo di un telegramma inviato nel 1919 dal regista Dziga Vertov al Büro des Spartakurbriefe (Redazione della Lettura Spartachista) in cui denuncia il potere ingannevole delle narrazioni cinematografiche. O ancora Anyone in the Street (2018) dove è riportato il testo del telegramma con cui nel 1968 Jean Luc Godard declinava l’invito a tenere una conferenza al British Film Institute di Londra suggerendo di coinvolgere al suo posto una persona scelta a caso per la strada.
Ancora i tappeti sono al centro di Shadow Work (2017), una macchina celibe costruita di tappeti incaricati non di testimoniare frammenti di storia ma di mettere in causa in un assemblaggio senza apparente finalità la possibilità stessa di fare senso. Si tratta di tappeti di foggia orientale che attraversano un basso muro di mattoni come se fossero stati passati in una pressa per strizzarvi l’acqua in eccesso. Il conforto domestico del tappeto messo in relazione con la stabilità del muro dal quale sconfinano attraversandolo fa sì che nella dialettica istituita il muro non si dia più come ostacolo e barriera ma si mostri duttile e aperto a eventuali possibilità di trasformazione e adattamento. Una metafora, sembrerebbe, del potenziale racchiuso nel dialogo tra opposti: la materia dura del muro e quella morbida e accogliente del tappeto, più in generale tra la sfera domestica e quella pubblica.
Dal suolo dei tappeti al suono dell’ambiente: a cadenza regolare si diffondono nello spazio espositivo due voci femminili che pronunciano i titoli di alcune opere di Alighiero Boetti ricombinate però in modo casuale da un software. Ė Ordine e disordine (2013 – 2024), un’installazione sonora che nell’assortimento rapsodico della recita di titoli di opere iscrive l’omaggio a Boetti in un circolo di indefinitezza e possibilità.
Sebbene tra molti dei lavori si possano riconoscere tratti di connessione, come attestano le macchine e i tappeti, l’eteroclita complessità che caratterizza l’insieme installativo di questo Autoritratto al lavoro si dispiega in tali e tante possibilità – ciascuna un mondo - da rendere vano il tentativo di individuarvi un timbro prevalente che non sia il disincanto di fondo che tutti li attraversa. Permane la suggestione iniziale di poter guardare a questo autoritratto partendo a ritroso dall’ultima opera, la Mano di Dio che è in sé la mano e il pensiero dell’Artista e che insegnerebbe, come nel tesserne l’elogio sottolineava Focillon, a dominare “l’estensione, il peso, la densità, il numero” misurandosi con “la materia che sottopone a metamorfosi, con la forma che trasfigura” (4) e con le tante incombenti risorse del caso messe qui drammaturgicamente in campo, con accento anche ironico e dissacrante, dal sé dell’artista al lavoro.
                                                         
Luglio 2024
1) Elisabetta Benassi Autoritratto al lavoro, MACRO, 9 maggio – 25 agosto 2024.
2) Sebbene non in mostra, come non pensare a proposito di macchine anche alla sua Alfa Romeo GT Veloce, 1975 – 2007, oggi nella collezione del MAXXI, nella quale Benassi ha coniugato la macchina alla memoria evocativa di Pier Paolo Pasolini (la macchina è infatti una copia identica di quella da lui posseduta) e mantenendone i fari perennemente accesi ne ha fatto quasi un memoriale alla tragica parabola della sua vita.
3) Le mappature e le memorie archivistiche rappresentano ulteriori direttrici che orientano la riflessione di Benassi. In mostra eloquente appare la riproposizione in porzione ridotta dell’installazione concepita per il Padiglione italiano della 55.a Biennale di Venezia. Senza titolo (The Dry Salvages 5729 Aureole 1) del 2013 che si compone di mattoni fatti con la creta proveniente dalla regione alluvionale del Polesine e che riportano sulla superficie di ciascuno il codice identificativo di un detrito in orbita intorno alla terra e che prima o poi vi si frantumerà sopra.
4) Henri Focillon, Elogio della mano, Einaudi, 2002, p. 130 [1943].